The Anthropic Cosmological Principle, Oxford University Press, Oxford-New York 1986, Prefazione di John A. Wheeler
Il Principio Antropico di John Barrow e Frank Tipler è insieme un libro difficile e importante. La sua lettura non è facile perché le parti narrative e le riflessioni di carattere filosofico sono accompagnate da formule fisico-matematiche, grafici e tabelle, cosa che potrebbe scoraggiare chi non abbia familiarità con il pensiero scientifico. L’impiego di questo linguaggio è però necessario – il lettore esperto lo noterà – perché le riflessioni filosofiche discendono proprio da ciò che le formule dicono; inoltre, è proprio la più attenta conoscenza derivata dall’analisi scientifica che potrà consentire al lettore di riconoscere, in altre opere o articoli sul tema, ciò che i dati dicono e ciò che, invece, non dicono, ciò che da essi deriva in modo oggettivo e ciò che, invece, appartiene all’interpretazione personale o alla visione filosofica di questo o quell’altro autore. L’opera di Barrow e Tipler è però un libro importante, perché riassume e sistematizza in modo eccellente quanto diversi cosmologi e astrofisici stavano già suggerendo nei precedenti decenni, e cioè l’evidenza che le condizioni fisico-chimiche che rendono possibile la vita, e dunque la vita umana, sono anche le medesime che consentono all’universo di sussistere con le sue leggi e di apparire ai nostri occhi come effettivamente appare. «Nel corso si molti anni – segnalano gli autori nella Prefazione – si era andato accumulando un complesso di risultati, in gran parte non pubblicati, che mettevano in luce misteriose coincidenze tra i valori numerici delle costanti fondamentali della natura. La possibilità stessa della nostra esistenza sembra dipendere in modo fortunoso da queste relazioni» (p. 17). Chiunque voglia comprendere cosa il Principio Antropico dica, quale sia la sua influenza, e chiunque voglia valutare con profondità il dibattito interdisciplinare che ne è seguito a partire dalla seconda metà del Novecento, dovrà inevitabilmente passare dall’opera di Barrow e Tipler.
I primi tre capitoli (1. Introduzione - 2. L’argomento del Progetto - 3. Teleologia moderna e principi antropici) posseggono un linguaggio a tutti accessibile e costituiscono un’estesa introduzione storico-filosofica di oltre 200 pp. alla tematica del volume. Questa viene agganciata alle riflessioni del pensiero umano sul posto dell’uomo nel cosmo e sull’eventuale presenza di finalismo in natura, nonché alla discussione circa gli strumenti concettuali per riconoscerlo. I capitoli successivi affrontano in sequenza: le prime avvisaglie che condussero alla riproposizione, adesso in termini scientifici, del ruolo centrale dell’essere umano nel cosmo (4. La riscoperta del Principio Antropico); la formulazione essenzialmente scientifica del Principio (5. Il Principio Antropico debole in fisica e astrofisica); la sua operatività in cosmologia classica, in meccanica quantistica e in biochimica (capitoli 6, 7, 8). Segue la trattazione del Principio nel contesto dell’eventuale presenza di altre forme di vita nel cosmo diverse da quella umana, nella quale gli autori giungono alla sorprendente conclusione che la vita umana possiederebbe buone probabilità di essere l’unica forma di vita intelligente avanzata (9. L’argomento del viaggio spaziale contro l’esistenza di vita intelligente extraterrestre). Il volume si conclude con delle considerazioni di carattere piuttosto speculativo sul futuro dell’universo e la persistenza in esso dell’informazione prodotta dal genere umano (10. Il futuro dell’universo)
Nelle riflessioni che qui proponiamo seguiamo la traduzione italiana del 2002, pubblicata da Adelphi, che riprende in modo integrale l’originale in lingua inglese, pubblicato nel 1986. Degli autori di quest’opera va ricordato che entrambi sono fisici e uomini di scienza, sebbene con carriere diseguali. Il britannico John Barrow, deceduto prematuramente del 2020, è stato un ricercatore assai apprezzato a livello internazionale, noto per la sua prolifica produzione interdisciplinare e per aver promosso un attraente dialogo fra l’astrofisica e le scienze umane, mentre l’itinerario dello statunitense Frank Tipler è stato assai irregolare, passando attraverso opere filosoficamente eccentriche ed il quasi completo abbandono della ricerca scientifica sul campo.
Il ruolo dell’opera nella riflessione interdisciplinare fra scienza e filosofia e la sua struttura generale
In questo ponderoso volume di quasi 800 pagine, Barrow e Tipler espongono ordinatamente quanto emerso a partire dagli studi di Paul Dirac, Robert Dicke, Brandon Carter e Martin Rees – solo per fare i nomi degli scienziati che hanno suscitato originariamente gli interrogativi associati al Principio Antropico – arricchendo il panorama con numerose altre “condizioni” o “coincidenze” antropiche consegnateci dalla letteratura scientifica dell’ultimo secolo. Come osservato, la loro trattazione ha il merito di inserire le suggestioni di questo Principio all’interno del dibattito sulla possibile esistenza di un finalismo in natura. Tale scelta obbliga Barrow e Tipler a chiamare in causa gli autori classici addentrandosi poi nella storia della filosofia, quasi fino ai nostri giorni. Nel capitolo 2 essi collegano la contemporanea riflessione sul Principio Antropico al cosiddetto Argument from Design. «La naturale attrattiva che le semplici spiegazioni finalistiche sembrano rivestire per quanti cercano uno scopo e un significato nella vita ha fatto sì che argomenti di questo tipo fiorissero in tutte le culture, modellati dalle conoscenze e dai gusti della società e alimentati dal credo scientifico e religioso dell’epoca […]. Gli astronomi e i fisici che si imbattono per la prima volta nell’insieme di risultati e osservazioni riuniti sotto l’etichetta di “principio antropico” si stupiscono per la presunta novità di questa visione antropocentrica della natura. Tale principio, tuttavia, non è che l’ultima manifestazione di un tipo di argomentazioni che risalgono all’antichità, quando scienza e filosofia erano unite e la “metafisica” si occupava del metodo oltre che del significato della scienza» (pp. 49-50). Nel capitolo 3 la prospettiva finalistica viene esaminata nei vari modi con cui essa è stata riproposta in età moderna, chiarendo il modo diverso in cui essa agisce in ambito biologico, ove la selezione naturale di tipo darwiniano può rimuovere buona parte del finalismo suggerito a livello morfogenetico, e in ambito cosmologico-globale, ove la selezione darwiniana non può invece operare. Trovano qui spazio le idee di pensatori come Whitehead, Bergson e Teilhard de Chardin, di cui Barrow e Tipler riprendono varie suggestioni.
Va subito detto che, in campo filosofico, la trattazione di Barrow e Tipler resta su un piano storico-descrittivo, senza accedere in modo espresso al piano epistemologico-teoretico. Essi non offrono una discussione critica pro o contro il finalismo, né lo esaminano nei suoi diversi livelli epistemologici (teleonomia, teleologia, intenzionalità), ma si limitano piuttosto ad una carrellata di idee e di pensatori il cui scopo è far comprendere l’estensione e la pervasività di tale prospettiva, mostrando come essa colleghi con certa naturalezza osservazione scientifica, filosofia e teologia. Lo sforzo di Barrow e Tipler resta comunque notevole e viene così riepilogato al termine della parte storico-filosofica del volume: «In questo capitolo ci siamo occupati di quelli che a noi sembrano gli usi più rilevanti del modo di ragionare teleologico nella scienza, nella filosofia e in teologia. Abbiamo distinto attentamente il modo in cui le idee teleologiche locali vengono usate nella biologia e nella fisica moderne dal loro impiego totale e indiscriminato fatto nei secoli passati. Gli sviluppi della fisica all’inizio di questo secolo hanno visto esempi in cui i ragionamenti di carattere sostanzialmente antropico hanno portato a previsioni fisiche corrette» (p. 211). È su questo sfondo che gli autori esamineranno, nei sette capitoli successivi, i risultati scientifici associati al Principio Antropico e le loro possibili interpretazioni filosofiche.
Gli aspetti filosofici e teologici suscitati dal Principio Antropico sono notevoli, sebbene gli Autori – come essi stessi riconoscono (cf. pp. 34-35) –, sanno di non poterli inquadrare in modo esauriente. Pur non potendo prescindere dal questo volume, il lettore interessato in modo più profondo ad una filosofia/teologia del Principio Antropico potrà completarne la lettura rivolgendosi ad altre fonti. Ne citiamo alcune. In lingua italiana, il versante filosofico-teologico è stato ben esplorato da Saturnino Muratore nella serie di articoli pubblicati su “Rassegna di Teologia” nell’anno 1992 e da Alberta Rebaglia nel saggio Critica della ragione metascientifica. Argomenti antropici e spiegazioni scientifiche (1996). Una trattazione interdisciplinare, sintetica ma orientativa, è stata offerta dal nostro contributo per il Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede (2002). In lingua francese va ricordato il volume di J. Demaret e D. Lambert, Le principe anthropique. L'homme est-il le centre de l'Univers? (1994). In lingua inglese esistono i due significativi volumi di Errol Harris, Cosmos and Anthropos. A philosophical interpretation of the Anthropic Cosmological Principle (1991) e Cosmos and Theos. Ethical and Theological Implications of the Anthropic Cosmological Principle (1992). Tutte queste opere, da noi citate per esteso nella Bibliografia finale, offrono un approfondimento filosofico e teologico supplementare e contengono elementi utili per comprendere quali implicazioni il Principio Antropico contenga realmente e quali, invece, restino soltanto suggestioni o visioni a priori. Sul piano scientifico, quello di Barrow e Tipler resta tuttavia un contributo monumentale. Nessun’altra opera, fino alla data odierna, può vantare un’estensione e una completezza nella trattazione scientifica come quella da loro messa in campo. Uno sguardo alla letteratura interdisciplinare o di divulgazione scientifica del XXI secolo mostra che il dibattito sul Principio Antropico resta vivace, ma meno intenso che nei decenni precedenti. Hanno contribuito a tenerlo vivo, fra gli altri, autori come Paul Davies, Cosmic Jackpot. Why our universe is just right for life (2007), Jason Waller, Cosmological fine-tuning arguments. What (if anything) should we infer from the fine-tuning of our universe for life? (2020), Gerant Lewis e Luke Barnes, A fortunate universe. Life in a finely-tuned cosmos (2020). John Barrow ha successivamente diretto un’importante opera collettiva intitolata Fitness of the cosmos for life. Biochemistry and fine-tuning (2008).
Il posto dell’uomo nella natura e il sorgere di un Principio Antropico nella cosmologia contemporanea
È opinione comune ritenere che l’affermarsi del metodo scientifico, all’inizio dell’epoca moderna, abbia gradualmente scalzato l’uomo dai suoi privilegi, prima in modo implicito e silenzioso, poi in modo aperto e quasi programmatico. Le tappe di questo progressivo “decentramento”, realizzato ad opera del pensiero scientifico ma con evidenti ripercussioni in ambito culturale, filosofico e religioso, possono essere facilmente ripercorse. Se ne può individuare la sua origine nel superamento del geocentrismo dovuto a Copernico (De Revolutionibus orbium coelestium, 1543) e poi a Galileo Galilei (Dialogo sui massimi sistemi, 1632), ma soprattutto a J. Keplero (1571-1630) e a I. Newton (1642-1727) che ne diedero una formulazione teoretica compiuta (anche se le conferme sperimentali giunsero più tardi). Il sole e, con esso, il suo sistema planetario, perderanno ogni pretesa di centralità nella descrizione del cosmo dopo la scoperta, dovuta ad H. Shapley all’inizio del Novecento, della posizione periferica occupata dal sole all’interno della nostra galassia, la Via Lattea, e poi con il successivo estendersi degli orizzonti cosmici spazio-temporali fino alla contemporanea concezione di un universo popolato da non meno di 1000 miliardi di galassie, ciascuna delle quali composta in media da 100 miliardi di stelle. In ambito biologico il più severo decentramento dell’uomo, preparato dall’inaspettata scoperta dei lunghi tempi coinvolti dalle trasformazioni geologiche, viene operato ormai nell’Ottocento da C.R. Darwin (1809-1882), che fa confluire le origini dell’uomo in quelle di una specie animale fra le altre, soggetta alle medesime leggi di selezione naturale e di lotta per la sopravvivenza, la cui posizione nel quadro morfogenetico generale dei viventi risulta da un lungo processo di evoluzione biologica. In epoche a noi più vicine, alcune correnti delle neuroscienze, sembrerebbero spogliare l’uomo di ogni ulteriore “centralità”, ponendo in dubbio l’emergenza del suo “io” libero e responsabile. Il Novecento ha ospitato visioni filosofiche non di rado ideologicamente connotate, impegnate a veicolare un’immagine della natura, della vita e dell’essere umano, ove tutto fosse affidato al cieco gioco del caso e all’assenza di ogni progettualità, affermando che una lettura “scientifica” della vita, ed anche della vita umana, obbligasse ad interpretarla come un epifenomeno cosmico, qualcosa di accidentale senza alcun legame con la sostanza e la struttura di un universo in cui, in ultima analisi, l’uomo sarebbe comparso per caso.
È in questa temperie scientifica e filosofica che sorge alla ribalta la proposta (e in certa misura l’evidenza) di un “Principio Antropico” che trae la propria autorità dalla provenienza scientifica degli autori che ne hanno parlato per primi, capovolgendo in modo inaspettato una visione fino a quel momento dominante. Il Principio Antropico rappresenta il primo tentativo, sorto dall’interno della cosmologia e delle scienze naturali in genere, di impiegare la posizione dell’osservatore consapevole come elemento significativo per la conoscenza della struttura e delle proprietà dell’universo, un elemento capace di aiutare ad interpretare la sua storia passata o a leggere quella futura, suggerendo così che la presenza all’essere umano svolge un ruolo centrale nella descrizione scientifica del cosmo e della sua evoluzione. «Affinché sia trascorso abbastanza tempo per produrre i costituenti degli esseri viventi – spiegano Barrow e Tipler – l’universo deve avere almeno 10 miliardi di anni e, in conseguenza, nella sua espansione, estendersi per almeno 10 miliardi di anni luce. Non dovremmo in fondo stupircene: in un universo sensibilmente più piccolo non ci sarebbero astronomi. C’era bisogno di questa vastità perché fosse possibile l’evoluzione anche di una singola forma di vita basata sul carbonio» (p. 27)
Partendo dall’osservazione, elevata a Principio filosofico, che le caratteristiche del cosmo fisico possono essere, fra le tante, solo quelle compatibili con la presenza di un osservatore intelligente, ad una formulazione scientifica del Principio Antropico si è giunti gradualmente grazie a due risultati messi in luce dalla cosmologia fisica: a) la scoperta di una serie di “coincidenze” che legano la fisica e la chimica dell’universo alla possibilità di ospitarvi la vita; b) la possibilità di “predire” alcune caratteristiche dell’universo fisico, proprio partendo dal dato di fatto che in esso si sia sviluppata la vita intelligente. In realtà, osservano Barrow e Tipler, si possono dare diverse formulazioni del Principio, a seconda della “prospettiva filosofica” entro la quale ci si collochi. Viene così proposta la seguente sistematica, destinata poi ad imporsi in tutta la letteratura successiva, che distingue tre diverse versioni: a) Principio Antropico debole (Weak Anthropic Principle): «i valori osservati di qualunque grandezza fisica e cosmologica non sono tutti ugualmente probabili, ma sono soggetti alla restrizione che esistano luoghi dove possa evolversi una vita basata sul carbonio e che l’universo sia vecchio abbastanza perché ciò sia già avvenuto» (p. 40); b) Principio Antropico forte (Strong Anthropic Principle): «l’universo deve avere quelle proprietà che consentono lo sviluppo della vita al suo interno, a qualche stadio della sua storia» (p. 46); c) Principio Antropico finale (Final Anthropic Principle): «nell’universo deve necessariamente svilupparsi elaborazione intelligente dell’informazione, e una volta apparsa essa non si estinguerà mai» (p. 41). Si noterà che le tre formulazioni posseggono una cornice epistemologica diversa. La prima formulazione, detta “debole” può considerarsi a ragione una formulazione dettata da osservazioni empiriche e rientra per questo in un ambito scientifico. Il termine “principio” indica, in questo caso, un principio di organizzazione dei dati, capace di porre in luce una lettura unitaria che di essi si può dare; non riguarda, in senso stretto, una prospettiva filosofica che trascenda i dati. Non così la seconda e soprattutto la terza formulazione. Il Principio Antropico “forte” nega a priori l’esistenza di un universo senza forme di vita (compreso la vita umana) e il Principio Antropico “finale”, asserisce, sempre a priori, che l’universo debba produrre necessariamente intelligenza e che questa troverà dei supporti per l’informazione capaci di resistere al naturale degrado della storia fisica del cosmo. La prima delle tre precedenti formulazioni resta nell’ambito della cosmologia scientifica, la seconda ne offre una lettura filosofica che trascende il piano empirico, mentre la terza propone una visione filosofica che non solo trascende il dato scientifico ma sembrerebbe anche contraddirlo. Barrow e Tipler sono consapevoli di questa diversa valenza epistemologica e la riassumono in questi termini: «Ci sembra opportuno ripetere che tanto il PAU [Principio Antropico Ultimo, ovvero final], quanto il PAF [Principio Antropico forte] sono mere congetture; nessuno dei due va considerato come un principio fisico ben stabilito. Al contrario il PAD [Principio Antropico debole] è una riformulazione, sia pure in forma più sottile, di uno dei principi scientifici più importanti e consolidati: è importante tener conto delle limitazioni del proprio apparato di misura quando si valutano i risultati delle proprie osservazioni» (p. 48). In questo caso, l’apparato di misura siamo noi stessi: i nostri limiti derivano dal fatto che l’essere umano ha bisogno di una certa fisica, di una certa chimica e di una certa biologia per poter misurare e osservare ciò che è accaduto nella storia che lo ha preceduto e predire ciò che accadrà nella storia che lo seguirà.
Le formulazioni scientifiche alla base del Principio Antropico e le loro diverse interpretazioni filosofiche
Le condizioni cosmiche, oggetto di osservazione scientifica, che ci consentono di essere qui e adesso sono molteplici e gli Autori le pongono in luce in modo sistematico, con ricchezza di dettagli. Riepiloghiamone solo alcune fra le principali. La fisica contemporanea indica che le costanti di interazione delle quattro forze fondamentali di natura (nucleare forte, nucleare debole, elettromagnetica e gravitazionale) non possono avere qualsiasi valore, ma solo quei valori compatibili con un’evoluzione cosmica che offra condizioni necessarie (anche se non sufficienti) per lo sviluppo della vita. I valori numerici adimensionali (che non dipendono cioè dal particolare sistema di misura prescelto) di queste quattro costanti devono essere straordinariamente accurati. Dal loro delicato rapporto numerico dipendono fenomeni quali la possibilità di dare origine a luoghi cosmici adatti ad ospitare la vita (regolano ad esempio la contrazione gravitazionale delle galassie e delle stelle o l’opportuna diversificazione delle masse stellari), nonché la produzione di una chimica necessaria per la comparsa e lo sviluppo dei viventi (formazione di carbonio entro tempi cosmologici adeguati ed in quantità opportune, disponibilità di azoto e di ossigeno, formazione di elementi più pesanti del ferro nelle esplosioni di Supernovae, ecc.). Fissati nei primissimi istanti dell’espansione cosmica, al progressivo differenziarsi delle quattro forze col calare della densità, della temperatura e dell’energia presenti nell’universo primitivo, i valori delle costanti di natura appaiono come “sintonizzati” (finely tuned) per la comparsa della vita, al punto che una loro leggera variazione avrebbe avuto conseguenze irreversibili. Il rapporto accurato fra i valori di queste costanti determina, fra l’altro: un ritmo di espansione dell’universo che sia adatto alla formazione di galassie; la stabilità dei nuclei atomici più pesanti dell’idrogeno, consentendo alla forza nucleare di corto raggio di prevalere sulla repulsione elettrica; la formazione di un’adeguata percentuale di elio nei primi istanti del Big Bang; il raggiungimento, nei nuclei delle stelle, di temperature sufficienti per poter innescare le reazioni termonucleari appena prima che il collasso gravitazionale della stella in contrazione degeneri irreversibilmente trasformandola in oggetto compatto ma non luminoso; la formazione di stelle con una sufficiente varietà di proprietà termodinamiche e varietà di masse, essendo necessarie tanto le stelle nane con equilibrio convettivo (le uniche attorno alle quali possono originarsi pianeti adatti ad ospitare la vita), quanto le intermedie e le giganti con equilibrio radiativo (altrettanto necessarie perché la loro evoluzione più rapida rende gli elementi pesanti, quali carbonio, ossigeno o azoto, subito disponibili nel mezzo interstellare).
Circa la capacità di “predizione” del Principio Antropico (cosa che giustifica l’impiego del termine “principio”), esso segnala che l’età dell’universo e le sue attuali dimensioni non sono casuali, ma dipendono, come prima osservato, dalla possibilità di avere degli osservatori al suo interno. Le vaste dimensioni del cosmo e l’enorme quantità di galassie in esso contenuta, lungi da far sembrare insignificante la presenza della vita umana sulla terra, sono invece proprio le condizioni che la rendono possibile. Per formare luoghi fisici adeguati ad ospitare osservatori e per dare origine alle abbondanze di elementi chimici necessarie alla biologia (va ricordato che praticamente tutti gli elementi chimici hanno origine nei nuclei stellari, ove vengono sintetizzati da diverse generazioni di stelle), era indispensabile attendere un tempo non inferiore a quello effettivamente trascorso dall’inizio dell’espansione cosmica, il che equivale ad avere delle dimensioni cosmiche ed una quantità di materia anch’esse straordinariamente, ma necessariamente, grandi.
Esistono poi tutta una serie di “coincidenze” che gli autori inseriscono volentieri entro l’insieme delle “condizioni antropiche”. Fra queste spiccano le proprietà dell’acqua, la sua costante dielettrica, la sua geometria molecolare, il modo in cui essa solidifica, mediante volumi (ghiaccio) di peso specifico inferiore rispetto a quanto mostrato dalla fase liquida. In tal modo l’acqua può generare processi biochimici indispensabili per la vita, funzionare come solvente, il ghiaccio venire in superficie, gli oceani non ghiacciare interamente (cf. pp. 518-527). Idrogeno, carbonio e ossigeno posseggono proprietà delicate e uniche, modificando leggermente le quali la formazione di molecole complesse come quelle necessarie ai viventi non potrebbero neanche formarsi. La stessa esistenza del carbonio è affidata ad equilibri delicatissimi. Nella reazione nucleare che dall'elio, attraverso il berillio, conduce al carbonio, se non esistesse un opportuno livello di eccitazione del carbonio, la bassissima sezione d’urto della reazione, in condizioni normali, ne impedirebbe la sintesi. Nella reazione che dal carbonio, attraverso la cattura di elio, conduce all’ossigeno, se il livello energetico dell'ossigeno non fosse di poco inferiore a quello della reazione che lo forma, il carbonio sarebbe quasi interamente bruciato per produrre ossigeno: in sostanza, non avremmo più carbonio e l'intera biologia non sarebbe più possibile (cf. pp. 247-251).
Due riflessioni si impongono a partire dai dati. La prima di esse è che il Principio Antropico debole (PAD) appare come un principio scientificamente fondato, ma filosoficamente poco influente perché esprime in fondo la semplice riformulazione di uno status de facto (ammettendo pertanto anche una lettura tautologica). Il Principio Antropico forte (PAF), invece, si presenta come un principio essenzialmente filosofico, ma scientificamente poco fondato, semplicemente perché le coincidenze osservate sono condizioni necessarie ma non sufficienti per la comparsa della vita. In questo senso, delle osservazioni scientifiche fondate raccolte sotto l’etichetta di PAD non sono adeguate per dedurvi in modo deterministico la presenza della vita intelligente, come vorrebbe la formulazione del PAF; affinché ciò si desse, occorrerebbe che le condizioni antropiche segnalate dal PAD fossero non solo necessarie ma anche sufficienti per causare la vita e la vita umana. Di fatto, non conosciamo quali siano le condizioni ed i processi affinché, dall’esistenza di una fisica e di una chimica adeguate ad ospitare la vita (condizioni necessarie) si possa sempre concludere che la vita faccia effettivamente la sua comparsa (condizioni sufficienti). Una seconda riflessione è che i risultati espressi dal PAD non possono, a ragione, denominarsi come un Principio “antropico”, in quanto le condizioni fisico-chimiche che tali risultati mettono in luce non coinvolgono l’uomo più di quanto non coinvolgano una margherita o un’ameba. Si tratta cioè di condizioni necessarie perché vi siano una fisica capace di generare ambienti ospitali, una chimica organica basata sul carbonio, una biologia adeguata, ecc.: un universo con le condizioni “antropiche” indicate dal PAD, ma senza vita intelligente, è pur sempre concepibile, con la differenza che esso non avrebbe osservatori. Il PAF si presenta invece con un’indubbia carica filosofica, legando in modo biunivoco l’esistenza dell’universo e quella dell’uomo (in quanto osservatore intelligente): l’universo deve esistere solo, e soltanto solo, con i caratteri che gli permettano di avere osservatori intelligenti al suo interno. Una dimensione finalistica di tipo intenzionale o trascendente potrebbe qui non essere esplicita, mentre lo è certamente quella determinista. Il Principio Antropico ultimo (PAU), infine, si presenta come una suggestione filosofica in buona parte a priori, dalle basi scientifiche assai scarse, semplicemente perché non conosciamo quale sarà (fra i vari possibili), lo scenario finale dell’universo, e dunque come possa mantenersi l’accumulo di informazione.
Nel capitolo finale del loro volume, gli Autori ipotizzano che macchine costruite dall’uomo potranno sopravvivere alla nostra inevitabile estinzione, perpetuando nel cosmo il segno di ciò che fu la nostra presenza, i valori per i quali abbiamo vissuto. Se non è praticabile l’idea che la vita intelligente (quella umana o altre forme possibili) sia in grado di condizionare l’evoluzione della materia fisica su scala cosmica, ad esempio arrestando la morte termica o la crescita indefinita di entropia, l’informazione che l’intelligenza umana ha introdotto lungo la storia potrebbe avere più fortuna. «Se pur la nostra specie è condannata, la nostra civiltà e i valori a noi cari potrebbero non esserlo. […] Esse [le macchine intelligenti] potrebbero essere i nostri ultimi eredi, i nostri discendenti ultimi, perché in circostanze appropriate sarebbero in grado di sopravvivere anche nelle condizioni estreme esistenti in prossimità dello stadio finale. Esse potrebbero perpetuare indefinitamente la nostra civiltà, e i valori dell’umanità potrebbero in tal modo essere trasmessi a un futuro comunque lontano» (p. 602). Tutto il capitolo finale è pervaso dal tentativo di calcolare, alla luce della fisica e della matematica oggi disponibili, come potrà evolvere un cosmo ove la vita è sorta ed i suoi effetti restano in certo modo sensibili. Sono queste le pagine in cui si espone una sorta di “escatologia fisica”, che i lavori successivi a questo volume ci dicono essere stata opera soprattutto di Frank Tipler (cf. F. Tipler, The Physics of Immortality: Modern Cosmology, God and the Resurrection of the Dead, 1997). Si tratta di speculazioni che oggi confluirebbero entro le assai discutibili prospettive trans-umaniste ma non tolgono per nulla valore al resto del volume che, nei primi nove capitoli si snoda secondo criteri di rigore e di serietà scientifica.
Possibili implicazioni filosofiche e teologiche del Principio Antropico
Portato alla ribalta dall’opera di Barrow e Tipler, il Principio Antropico è stato da alcuni autori impiegato sia per affermare l’esistenza di un determinismo immanente nell’evoluzione cosmica, che conduca necessariamente all’esistenza di osservatori intelligenti, sia per mostrare l’esistenza di un progetto (design) che trascende il cosmo e rimanda all’intenzionalità di un Creatore. Nella parte storica del volume, Barrow e Tipler mostrano che questi impieghi partono da lontano. Essi menzionano i tentativi svolti dall’apologetica anglicana a cavallo fra XVII e XVIII secolo, da William Derham e William Paley in particolare, responsabili di aver introdotto “prove fisico-teologiche” dell’esistenza di Dio (cf. pp. 88, 97-103). Questo tipo di argomentazioni conosceranno un certo sviluppo in campo biologico, in riferimento alla sorprendente organizzazione funzionale dei viventi e all’altrettanto singolare accordo di questi, uomo compreso, con il loro habitat. La battuta d’arresto all’impiego ingenuo di queste argomentazioni giungerà con Charles Darwin, che spiegherà l’armonia morfologica dei viventi e l’accordo di questi con l’ambiente ricorrendo alla selezione naturale e al progressivo adattamento all’ambiente. In sede filosofica, l’impiego affrettato di prove finalistiche per mostrare l’esistenza di Dio subirà nell’epoca moderna la critica di D. Hume. Può il Principio Antropico messo in luce in epoca contemporanea da Barrow e Tipler nel contesto della conoscenza scientifica recare qualche conseguenza sul piano della teologia naturale?
Va riconosciuto che all’interno degli Arguments from Design il Principio Antropico presenta una peculiarità meritevole di essere presa in esame. A differenza di quanto può succedere con altre forme di ordine, coerenza o regolarità rilevabili in natura, le “condizioni biotiche” (dovremmo chiamarle più correttamente così, piuttosto che “antropiche”) che il Principio Antropico debole mette in luce non possono essere rimosse con un meccanismo simile a quello, per intenderci, con cui il darwinismo ha rimosso buona parte dell’interpretazione teleologica con cui alcuni avevano fino a quel momento spiegato il singolare accordo fra le diverse forme biologiche ed il loro habitat. Il fine tuning delle costanti di natura – fra l’altro determinate nei primi istanti successivi al Big Bang – non è il risultato di un adattamento all’ambiente o di una selezione naturale, perché riguarda invece condizioni in qualche modo “congenite”. L’unico modo per rimuovere la significatività di queste delicate condizioni necessarie per la vita è quello di postulare l’esistenza di infiniti universi, ciascuno dei quali con valori casuali delle costanti di natura, fra i quali solo il nostro sarebbe quello giusto, selezionato appunto dall’esistenza dell’osservatore. Si tratta però di una richiesta filosofica a priori, non di una ipotesi scientifica basata su indizi sperimentali. Sebbene esistano molti modi di ipotizzare un sistema di many worlds, in cosmologia, in fisica relativistica e in meccanica quantistica, il loro legame con un’osservabilità sperimentale condivisa non è riconosciuto dalla maggior parte degli scienziati, che assimilano tale “soluzione” ad un’ipotesi speculativa in contrasto, fra l’altro, con il rasoio di Ockham, secondo il quale gli enti non andrebbero innecessariamente moltiplicati al solo fine di spiegare ciò che non conosciamo. Inoltre, buona parte dei modelli di many-worlds hanno un’origine spazio-temporale comune (ed alcune proprietà e costanti di natura comuni) anche se essi si manifesterebbero (a chi?) come regioni spazio-temporali separate e causalmente indipendenti.
L’indicazione teleologica suggerita dal Principio Antropico debole non riguarda solo una o più parti del mondo naturale come avveniva in passato (si pensi all’argomentazione settecentesca sul funzionamento dell’occhio umano, o quella circa il delicato equilibrio delle condizioni dell’atmosfera terrestre per la sussistenza della vita, o a quella, più recente, sulla sorprendente complessità informazionale della molecola del DNA). Nel loro insieme, le “condizioni antropiche” necessarie (anche se non sufficienti) per la vita ci pongono per la prima volta di fronte ad una proposta teleologica globale e totalizzante, che sembrerebbe capace di indicare la possibile l’operatività di un principio finalistico, o almeno ad un principio di coerenza, simile a qualcosa di “pensato tutto insieme e non per parti”, fin dagli istanti iniziali dell’espansione dell’universo.
In merito ad un confronto fra Principio Antropico e teologia cristiana, pare logico richiamare che per la Rivelazione ebraico-cristiana l’intero universo fisico, con tutta la ricchezza della sua fenomenologia e delle sue forme, risponde ad un unico progetto di Dio sulla creazione. Effetto intenzionale di una parola personale, l’universo si presenta intelligibile e dialogico; il suo sviluppo nel tempo non è affidato ad una cieca casualità, ma è il risultato di una razionalità riconducibile ad una semplicità originaria, che ha in Dio la sua Causa prima e la sua Causa finale. Entro un quadro teologico, l’origine della vita è frutto di una volontà creatrice e mira alla comparsa della vita intelligente come al suo frutto più alto. La persona umana gode della speciale dignità di essere immagine e somiglianza di Dio, ed è perciò capace di riconoscere il Creatore attraverso la conoscenza delle sue opere. La teologia cristiana esprime in modo sintetico il rapporto fra l’uomo e il creato in un passo della costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II (1965): «L’uomo sintetizza in sé, per la sua stessa condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore» (n. 14).
Una simile prospettiva teologica è certamente in accordo non solo con i dati scientifici che rilevano l’esistenza di un certo numero di condizioni biotiche, ma anche con quelle formulazioni filosofiche del Principio Antropico debole che ne suggeriscono una possibile lettura finalistica. Al tempo stesso, questo accordo fra le due prospettive, teologica e scientifica, non costituisce alcuna “dimostrazione scientifica” dell’esistenza di un Creatore personale. Si tratta solo di una semplice consonanza: condizioni biotiche e Principio antropico sono consistenti con quanto la teologia della creazione dice, ma non viene loro affidato l’onere di fondare in modo logico-dimostrativo l’esistenza di un Creatore. Ci troviamo di fronte ad una “abduzione” logica, per dirlo con Charles S. Peirce, e non ad una “deduzione sillogistica”. Pare inoltre chiaro che le osservazioni empiriche e le loro eventuali interpretazioni filosofiche non possono accedere all’idea di un Dio personale. Esse possono soltanto rimandare ad una fonte di razionalità, alla percezione di un logos che può solo aprire o preparare il soggetto ad ascoltare una possibile rivelazione di Dio.
Resta comunque significativo che, prendendo l’avvio da osservazioni di natura scientifica, gli scienziati si interroghino nuovamente sul ruolo dell’uomo all’interno del cosmo con domande di tipo filosofico e sapienziale, in grado di coinvolgere l’aspetto esistenziale e religioso. La scienza non è nuova alla possibilità di suscitare domande “ultime” dall’interno del suo metodo, anche se percepisce l’incapacità di darne risposta esauriente con i soli strumenti empirici o logico-matematici. Gli elementi di riflessione offerti dal Principio Antropico appaiono in proposito alquanto stimolanti e potenzialmente capaci di generare un nuovo modo di comprendere il ruolo della vita, e probabilmente anche della vita intelligente, nel cosmo. Non più considerata come epifenomeno casuale, ma come qualcosa di intimamente legato all’essere stesso dell’universo e alle sue leggi strutturali più profonde, la nuova visione della vita che ne emerge diviene sorgente di pensiero etico. Concludiamo con una curiosità. Pur impiegando più volte il volume (sia nell’edizione originale inglese che in quella italiana) lemmi quali Dio, creazione e Creatore – a titolo di esempio, il vocabolo God compare oltre 60 volte nell’edizione inglese – l’indice analitico non offre al lettore, per essi, alcun rimando alle pagine interne.
Bibliografia
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