I. Nozione - II. La classificazione di Platone e la radice materialista dell’ateismo - III. L’ateismo umanistico ed il suo esito nichilista - IV. Forme di ateismo della cultura e della scienza - V. Sofferenza dell’uomo e negazione di Dio - VI. Alcune interpretazioni dell’ateismo: Maritain, Fabro, Del Noce, Gilson - VII. La dimensione “religiosa” dell’ateismo: Guardini, Bonhöffer, Buber - VIII. La riflessione della Chiesa cattolica sul fenomeno dell’ateismo.
I. Nozione
Nelle lingue antiche e moderne il termine «ateismo» deriva dal greco atheótes, da cui il lat. atheismus (ingl. atheism, fr. athéisme, ted. Atheismus). Come è noto, l’alfa privativo in greco come nel sanscrito, esprime sia la negazione che la privazione di ciò che viene affermato nel nome: á-theos significa quindi negazione del theós, negazione di Dio. E tuttavia, poiché la relazione della negazione prende significato da ciò che si nega, ne risulta che l’ateismo può essere definito solo in base alla concezione del Dio che viene negato o si intende negare, e modellarsi di conseguenza in modi diversi. Scrive giustamente Maritain ne Il significato dell’ateismo contemporaneo (1949) che spesso coloro «che credono di non credere in Dio», in realtà poi «credono inconsciamente in Lui perché il Dio di cui negano l’esistenza, non è Dio, ma qualcosa d’altro». Non pochi autori osservano che sotto il termine «ateismo» si cela sovente non tanto la negazione del Dio vero, quanto la negazione di ciò che non è Dio e che viene creduto tale; il che impone, per uno studio attento del fenomeno dell’ateismo, e per una più adeguata comprensione delle sue differenti manifestazioni, la necessità di decifrare l’immagine del Dio che si cela dietro la sua negazione, per esaminare se essa corrisponde al Dio vero o non sia piuttosto un suo surrogato o addirittura una sua contraffazione.
È avvenuto così, nella storia, che fosse condannato a morte per “ateismo” Socrate, perché “reo di non credere negli Dei in cui crede la città” (cfr. Senofonte, Memorabili, I, 1,1; Platone, Apologia di Socrate, 23c). In realtà, rispetto agli Dei della religione olimpica, Socrate riconosce che: «quando uno mi narra cose simili intorno agli Dei, io non me la sento di accettarle» (Platone, Eutifrone, 6a). E tuttavia egli afferma di credere nel daímon come “segno” (semeîon) e “voce divina” (phoné), che si fa presente direttamente alla coscienza da parte di Dio (cfr. Platone, Apologia di Socrate, 31c-d); e soprattutto manifesta nel suo insegnamento la comprensione di Dio come intelligenza e finalità del cosmo: «la sapienza di Dio è in grado di prendersi contemporaneamente cura di tutto» (Senofonte, Memorabili, I, 4,17); e come Provvidenza per l’uomo: «gli Dei non hanno nessuna occupazione fuorché la cura degli uomini» (cfr. ibidem, IV, 3,1-14).
In modo analogo, i primi cristiani vengono condannati come “atei” perché non credono negli dèi pagani della civitas romana (cfr. Giustino, Apologie, I, 13,1); mentre loro stessi, come attesta il Martirio di Policarpo, assumono nei confronti dell’ateismo un atteggiamento molto significativo: quando Policarpo viene invitato a gridare «abbasso gli atei», egli rivolge la stessa accusa alla folla dei pagani nello stadio. Inoltre, ben presto i cristiani considerano i pagani che osservano le pratiche religiose e seguono i dettami della coscienza morale (come pure i filosofi cercatori del Logos), come dei “cristiani impliciti”; laddove poi equiparano i giudei monoteisti che rifiutano Cristo agli atei, ai “senza Dio”. A loro volta i giudei vengono accusati dai pagani di essere «atei e misantropi»; mentre essi rivolgono al sincretismo religioso dei pagani l’accusa di “ateismo” (cfr. Giuseppe Flavio, Contra Apionem, II, 148).
La difficoltà di una definizione univoca di ateismo riflette pertanto la complessità e la diversità del suo manifestarsi storicamente e si ripercuote nella molteplicità delle sue interpretazioni. In contesto cristiano, inoltre, si tenderà sovente ad attribuire la qualifica di ateismo alle dottrine ritenute eterodosse rispetto alla propria professione di fede. La dimensione “correlativa” o “referenziale” della nozione di ateismo permane fino ai nostri giorni. Se è vero che dopo la diffusione del cristianesimo nel mondo occidentale il termine ha sostanzialmente indicato la negazione, specie a partire dall’età moderna, del Dio di Israele rivelatosi in Gesù Cristo, non va tuttavia dimenticato che fattori di carattere sociale, culturale o anche di costume, possono esercitare non poca influenza sull’immagine del Dio cristiano come questa viene recepita da una determinata epoca. Dal canto loro anche le scienze, ove queste fanno riferimento alla nozione di Dio (o semplicemente la segnalano nelle loro riflessioni) contribuiscono a forgiare tale immagine, condizionando così, indirettamente, anche la comprensione e i contenuti del termine ateismo. In epoca contemporanea la sociologia della religione e la fenomenologia del sacro registrano rapide evoluzioni, specie attraverso quelle caratterizzazioni che oggi qualificano la società come “post-moderna”, suscitando nuovi interrogativi sulla natura e la classificazione della credenza e della non credenza.
II. La classificazione di Platone e la radice materialista dell’ateismo
1. La riflessione platonica sull’ateismo. Appartiene a Platone (428-347 a.C.) la prima classificazione dell’ateismo in base al tipo di filosofia che ne è alla base. Nel libro X delle Leggi, si presentano sostanzialmente tre forme di ateismo: la prima consiste nella negazione pura e semplice della divinità; la seconda nella negazione non della divinità, ma della sua provvidenza nei confronti degli uomini; e la terza nella credenza che si possa condizionare il comportamento della divinità con i sacrifici e le offerte. Per questa terza forma di ateismo, che consiste nella pretesa di piegare i voleri degli dèi con i sacrifici, vale l’assunto platonico che è non degno della natura divina lasciarsi corrompere dai doni, e che le è invece consono praticare sempre la giustizia; nella tracotanza (hybris) di dominare la divinità viene scorta quindi una sorta di magia. Sono le prime due forme di ateismo considerate da Platone che meritano grande attenzione, perché ancora attuali.
La prima forma di ateismo coincide infatti per Platone con il materialismo, dottrina secondo la quale la materia costituisce l’unica realtà, e in quanto tale precede e condiziona l’intelligibile, lo spirituale e il divino (cfr. Leggi, X, 891a-892b). L’errore del materialismo consiste quindi, per Platone, nel ridurre l’anima, e lo stesso “principio degli esseri”, ad una realtà materiale. Tale errore è comune a tutti i filosofi presocratici o naturalisti, perché essi riconoscono in un “principio naturale” (e quindi materiale), l’origine di tutte le cose, e fanno addirittura di questo principio una realtà divina (l’acqua per Talete, l’aria per Anassimene, il fuoco per Eraclito, i quadruplici elementi terra-acqua-aria-fuoco per Empedocle, gli atomi per Democrito e Leucippo); si tratterebbe qui di un ateismo “metafisico”, perché per Platone negare la realtà del mondo intelligibile e soprasensibile equivale a negare il divino, e il materialismo è appunto, metafisicamente, la più radicale negazione di Dio e del divino come realtà spirituali. La scoperta del mondo soprasensibile e intelligibile, frutto della celebre «seconda navigazione» (cfr. Fedone, 79a; 96a), così come il più chiaro riconoscimento della natura spirituale dell’anima nell’uomo, costituiscono per Platone le uniche confutazioni possibili dell’ateismo materialistico. Alcuni filosofi materialisti non giunsero però a negare la realtà del divino. È il caso di Epicuro (341-270 a.C.), seguace del materialismo democriteo, il quale riconosce la realtà degli dèi, che tuttavia propone di non affermare per evitare il timore della morte, e perché in fondo gli dèi sono “indifferenti” alle sorti degli uomini. Pur essendo la sua una filosofia materialista, Epicuro crede negli dèi, come testimonia anche Cicerone: «Epicuro crede che esistano gli dèi, perché è necessario che esista una natura eccellente, della quale nulla possa essere migliore» (Cicerone, De natura deorum, II, 17, 46).
Lo stesso si può dire di alcune religioni e filosofie religiose orientali, ma anche occidentali, che non possiedono una chiara concezione della differenza tra la materia e lo spirito, tra il corpo e l’anima, tra il mondo e Dio — concezione che rappresenta la conquista principale della metafisica greca, in particolare di Platone e di Aristotele — e propugnano perciò, come prima di loro i filosofi presocratici, forme diverse di panteismo. Per quanto riguarda le filosofie religiose orientali esistono diverse scuole materialistiche, chiamate in India Carvaka o Nastika (da na-asti, non esiste); analogamente al Buddismo, allo Jainismo, al Sankhya e alla Mimamsa esse non riconoscono l’esistenza di Dio, nel senso occidentale del termine, anche se sono più che altro negazioni del carma, ovvero della “responsabilità morale come causa della ricompensa o dell’espiazione in altra esistenza” (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Bari 1977, pp. 86-87); come per l’Induismo da cui provengono e per il Taoismo cinese, si deve piuttosto parlare di panteismo che di ateismo. Anche in Occidente fioriscono diverse scuole di panteismo: da Scoto Eriugena alla Scuola di Chartres, all’ilozoismo rinascimentale di Pomponazzi e di Telesio, fino all’Infinito di Giordano Bruno (1548-1600): «Io dico l’universo tutto infinito... Io dico Dio tutto infinito... E dico Dio totalmente infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente» (De l’infinito universo et mondi, 1584); analoghe considerazioni valgono per l’unica sostanza, ovvero il Deus sive natura di Baruch Spinoza (1632-1677), autore dell’Ethica ordine geometrico demonstrata (1677) e del Tractatus theologico-politicus (1670); ed anche per il Dio concepito come ordine morale del mondo del Giornale filosofico di Jena (1798) di Johann Gottlieb Fichte (1762-1814). Queste filosofie religiose misconoscono certamente la realtà trascendente di Dio rispetto al mondo, ma non giungono alla negazione assoluta del divino, che identificano piuttosto con la natura, il cosmo, l’anima del mondo, la vita dell’universo, in particolare nelle sue manifestazioni intelligenti, e per questo deve dirsi piuttosto che sono, appunto, forme diverse di «panteismo» ma non di «ateismo». Quando in queste filosofie religiose è presente l’idea di un “divino”, ne è comunque sempre assente la concezione di un Dio personale, così come quella di un Assoluto trascendente, principio creatore, provvidenza e fine di tutte le cose.
2. La radice filosofica materialista dell’ateismo. L’interpretazione platonica del materialismo come fonte principale dell’ateismo mantiene ancora oggi, dal punto di vista teoretico, tutto il suo valore. L’ateismo antico e quello moderno, infatti, hanno tratto le loro ragioni e trovato il proprio fondamento filosofico principalmente in una concezione materialistica della realtà. L’ateismo antico trovò nel materialismo atomistico di Democrito (460-360 ca. a.C.) il suo punto di forza teoretico, come si può vedere in Evemero di Messina (IV-III sec. a.C.) e Filodemo di Gadara (110-35 a.C.); il poeta latino Lucrezio (98-54 a.C.), rifacendosi al materialismo democriteo, professò un lucido ateismo nel contesto di una visione pessimistica della vita e del destino dell’uomo. Mentre dubbia appare l’attribuzione di ateismo al poeta Diagora di Melo (475-415 a.C.), nominato da Teodoro di Cirene l’“Ateo” dell’antichità, anch’egli propugnatore del materialismo democriteo e negatore, piuttosto, della provvidenza divina (cfr. A. Del Noce, 1964, p. 17).
L’identificazione di ateismo e materialismo è stata proposta nell’età moderna da George Berkeley (1685-1753), che per poter affermare l’esistenza di Dio sostiene l’irrealtà della materia. Nei Principles of Human Knowledge (1710), il filosofo inglese mostra con chiarezza come il materialismo costituisca il fondamento filosofico dell’ateismo. E in effetti sia il materialismo illuministico come quello ottocentesco hanno nella concezione della materia come principio causale universale il loro fondamento. Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751), nell’opera Histoire naturelle de l’ame (1745), considera tutti i fenomeni psichici come prodotto di una natura puramente materiale e ritiene l’ipotesi Dio inutile per la vita pratica dell’uomo. Seguiranno il materialismo di de La Mettrie, pensatori come Denis Diderot (1713-1784), autore di De l’interprétation de la nature (1744), Francois-Marie Aruet, detto Voltaire (1694-1778), autore del celebre Dictionnaire philosophique (1753), Pierre-Louis Moreau Maupertuis (1698-1759), autore degli Essai de cosmologie (1750), Claude Adrien Helvetius (1715-1771), autore del trattato De l’esprit (1758) e del postumo Le vrai sens du système de la nature (1774), Paul Heirich Dietrich von Holbach (1725-1789), autore di Le système de la nature (1770), Jean-Baptiste Robinet (1735-1820), cui si devono i trattati De la nature (1761-66) e Considérations philosophiques de la gradation naturelle des formes de l’etre (1768).
Dal materialismo naturalista professato dai filosofi dell’Illuminismo deriveranno, con connotazioni diverse, anche le altre forme di materialismo del XIX e XX secolo: il materialismo psicofisico di Gustav Theodor Fechner (1801-1887); il materialismo monistico di Hippolyte Adolphe Taine (1828-1893); il materialismo evoluzionistico e positivista di Auguste Comte (1798-1857), Herbert Spencer (1820-1903) e Roberto Ardigò (1828-1920); il materialismo dialettico di Karl Marx (1818-1883), Friedrich Engels (1820-1895) e Vladimir Il’Ic Lenin (1870-1924), autore del celebre trattato Materialismo ed empiriocriticismo (1909). Nel Nuovo Saggio sull’origine delle idee (1851), Antonio Rosmini (1797-1855) ha mostrato come «tutti gli argomenti dei materialisti hanno il loro fondamento nella confusione tra l’impressione e la sensazione, di cui non sanno distinguere l’opposta natura» (V, c. 16, a. 3); mentre Friedrich Albert Lange (1828-1875), nell’opera Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart (1868), ha condotto una critica ancora attuale ai supposti fondamenti scientifici del materialismo.
Quanto alla seconda forma di ateismo segnalata da Platone, quella che nega la provvidenza divina, il filosofo greco sosteneva che «gli dèi, per il fatto di essere buoni e assolutamente virtuosi, hanno cura di ogni realtà, perché ciò è del tutto consono alla loro natura» (Leggi, X, 899d). L’argomento su ciò che è “consono”, “conforme”, “degno” della natura divina era già stato svolto da Senofane, fondatore della scuola eleatica, considerato a torto un esponente dell’ateismo antico, perché criticava l’antropomorfismo della religione olimpica che attribuiva agli dèi azioni turpi e non degne di Dio, da lui considerato come «Uno, Dio, tra gli dèi e gli uomini il più grande, né per aspetto simile ai mortali, né per intelligenza» (Diels-Kranz, 21B, fr. 23). Dalla negazione della provvidenza divina avrà tuttavia origine l’«ateismo pessimistico». Già Euripide (480-406 a.C.), di fronte alla constatazione che molti stati, devoti agli dèi, «vengono dominati da un’autorità empia e resi schiavi», esclamava: «chi può affermare che esistono dèi lassù? Non ve ne sono, no, non ve ne sono!» (Frammento del Bellerofonte, n. 286). Per Arthur Schopenhauer (1788-1860), autore de Il mondo come volontà e come rappresentazione (1819), così come per il Voltaire del Candido (1759), noi viviamo nel peggiore dei mondi possibili, che esclude per principio l’esistenza di un Dio provvidente ed amante. Per Schopenhauer l’infelicità, il male e il disordine del mondo sono le ragioni forti e insuperabili che impediscono di affermare l’esistenza di un Dio personale e provvidente, postulato dalle visioni teistiche.
III. L’ateismo umanistico ed il suo esito nichilista
1. Da Feuerbach a Nietzsche. L’«ateismo umanistico» sorge sul presupposto, formulato da Ludwig Andreas Feuerbach (1804-1872), che Dio e la religione non siano altro che proiezioni dell’essenza dell’uomo, più precisamente della sua coscienza universale, per cui la scelta dell’ateismo sarebbe una scelta in favore dell’uomo contro ciò che ne rappresenterebbe la sua negazione, ovvero Dio. Per affermare se stesso, l’uomo deve negare Dio, riappropriandosi di ciò che gli appartiene. La sinistra hegeliana ed in particolare il marxismo svilupperanno le tesi di Feuerbach in chiave anti-religiosa, vedendo nell’ateismo la condizione preliminare necessaria per la piena realizzazione dell’uomo e della società. Il mito di Prometeo, punito ed incatenato ad una roccia dagli dèi per aver loro rubato il fuoco per donarlo agli uomini, diviene l’emblema dell’ateismo umanistico, detto per questo anche “ateismo prometeico”. L’ateismo prometeico, che in alcuni autori diverrà pretesa di un “umanesimo ateo”, riprende in qualche modo il sospetto che si nascondeva nel mito: quello dell’“invidia degli dèi” nei confronti del bene dell’uomo. Sospetto che già Platone aveva cercato di demolire affermando di Dio che «Egli era buono e in un buono non nasce mai invidia per nessuna cosa. Essendo dunque lungi dall’invidia, Egli volle che tutte le cose diventassero il più possibile simili a Lui» (Timeo, 29e); ma che il poeta moderno trasforma già nel senso di una rivolta dell’uomo nei confronti di Dio: «Io sto qui — protesta, contro Dio, il Prometeo di Goethe — e creo uomini a mia immagine e somiglianza, una stirpe simile a me, fatta per soffrire e per piangere, per godere e gioire, e non curarsi di te, come me» (W. Goethe, in Inni, tr. it. Torino 1967).
Ernst Bloch (1885-1977), autore di formazione marxista, nel Principio speranza (1959) e in Ateismo nel cristianesimo (1968), giunge a sostenere che l’ateismo umanistico è l’erede della vera religione, che valorizza l’uomo e non lo nega: egli vede nel cristianesimo un aspetto ateo (negazione dell’oppressione dell’uomo da parte di Dio), e nel marxismo un aspetto religioso (negazione di un Dio oppressore dell’uomo).
Più sottile e gravida di conseguenze è la negazione di Dio formulata da Friedrich Nietzsche (1844-1900). Ne La gaia scienza (1882), Nietzsche sostiene che Dio e la religione sono «la nostra più lunga menzogna», una menzogna escogitata dalla carità umana perché l’uomo sopravviva e dia un senso alla drammaticità dell’esistenza personale e della storia, per difendersi dalle potenze non dominabili della natura e del destino. La «morte di Dio», formulata da Nietzsche in Così parlò Zarathustra (1885), costituisce allora la morte di una menzogna, affinché l’uomo viva nella sua verità. Una verità che impegna l’uomo a vivere senza Dio. Non a caso Nietzsche parlava di un “super-uomo”, che gli studiosi tendono oggi a reinterpretare come la figura dell’uomo capace di dare senso all’esistenza senza per questo dover fare ricorso a Dio come senso ultimo e orizzonte globale di senso (cfr. Bodei, 2001). Figura tragica quella del superuomo, perché nella lucida consapevolezza di Nietzsche circa la radicale fragilità dell’uomo, era fin dall’inizio una figura destinata al fallimento, al non senso del niente assoluto. «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi,...»; e ancora: «dove ci muoviamo adesso? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito Nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non seguita a venire notte, sempre più notte?» (La gaia scienza, tr. it. Milano 1971).
In modo analogo a Nieztsche, Sigmund Freud (1856-1939) interpreta la religione come un’illusione che tenta inutilmente di soddisfare il desiderio del padre, radicato in modo atavico nell’umanità. Liberarsi dall’ossessione del padre significa incamminarsi verso un’esistenza personale matura, così come liberarsi dall’ossessione di Dio significa emanciparsi verso un’umanità adulta e consapevole: «L’uomo non può rimanere sempre bambino, deve alla fine avventurarsi nella vita ostile», scrive ne L’avvenire di un’illusione (1927). In Totem e Tabù (1912-13), e soprattutto ne L’uomo Mosè e la religione monoteista (1934-38), Freud afferma che la religione è per l’umanità una «grande nevrosi», anche se la spiegazione che egli ne offrirà resterà del tutto insoddisfacente.
2. L’esistenzialismo ateo come tentativo di umanesimo senza Dio: Sartre e Camus. Facendo eco alla svolta antropocentrica atea di Feuerbach e di Nietzsche, Jean-Paul Sartre (1905-1980) afferma nella sua opera Il diavolo e il buon Dio (1951) che «se Dio esiste, l’uomo è nulla; se l’uomo esiste… Dio è morto». Ma a differenza del Dio di Nietzsche, il Dio di Sartre è un “Dio mancato”; e ciò perché l'uomo è “desiderio di essere Dio”, “passione di essere Dio”, ma poiché l’idea di Dio è per Sartre contraddittoria, noi ci perdiamo inutilmente: l’uomo resta allora «una passione inutile», come sancirà inesorabilmente L’essere e il nulla (1943). Alla presa di coscienza di questa verità negativa non segue un atteggiamento rinunciatario, ma un maggiore impegno per la propria esistenza: «Se Dio non esiste, dobbiamo da soli decidere il senso dell’essere» (Cahier pour une morale, Paris 1983, p. 502). L’«esistenzialismo ateo» che Sartre finisce per professare, manifesterebbe fino in fondo la scelta dell'esistenza dell'uomo contro l'essere assoluto di Dio, e la consapevolezza che all'uomo è assegnata eticamente la «condanna ad essere libero» e «la responsabilità totale della propria esistenza» (cfr. L'existentialisme est un humanisme, Paris 1946, p. 37). Ne Il diavolo e il buon Dio, è Dio stesso che diventa imputato nel dramma dell’esistenza umana. Il personaggio di Goetz, che prima compie il male e poi il bene guidato solo dalla sua libertà, e senza che Dio intervenga a salvare le vittime dei crimini da lui compiuti, mostra Dio come uno spettatore silenzioso e indifferente alle drammatiche vicende della vita dell'uomo, e che per questo riceve condanna senza appello. «Dio è il silenzio, Dio è l’assenza, Dio è la solitudine degli uomini». L'uomo è solo in un deserto, Dio tace nella sua lontananza che è segno, per Sartre, della sua assenza e della sua indifferenza: «Mi chiedevo a ogni momento — esclama Goetz — che cosa potevo essere agli occhi di Dio. Ed ora conosco la risposta: Nulla. Dio non mi vede. Vedi questo vuoto che sta al disopra delle nostre teste? È Dio» (Il diavolo e il buon Dio, tr. it. Milano 1976, p. 162).
Anche per Albert Camus (1913-1960) «se Dio esiste, tutto dipende da lui, e noi non possiamo niente contro la sua volontà. Se non esiste, tutto dipende da noi», e perciò spetta ormai all’uomo dare un senso alle cose ed alla sua vita. Vi è qualcosa di tragico in questo sforzo di voler trovare disperatamente, pur nella condizione di assenza di Dio, un senso dell’esistenza, per il quale anzi l’impegno è maggiore proprio perché privo di certezze, di rifugi consolatori, di alibi religiosi. Nel dottor Rieux, personaggio principale del romanzo La peste (1947), che vuole essere «più solidale con i vinti che con i santi», Camus tratteggia una sorta di figura laica di santo, che lotta e combatte contro la peste per il bene degli altri al di là di ogni speranza e di ogni attesa di ricompensa celeste. Il dottor Rieux vuole lottare «contro la Creazione come essa è», sostenendo che, di fronte alla peste che distrugge una città felice, «se l'ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui, ma che si lotti contro la morte, senza voltar gli occhi verso il cielo in cui lui tace» (La peste, tr. it. Milano 1963, pp. 243 e 122). E ciò pur nella consapevolezza che la rivolta contro l'assurdo dell'esistenza è, come appare anche nelle opere Il mito di Sisifo (1944) e L’Uomo in rivolta (1951), una rivolta inutile. Se Camus accusa Dio di essere «il padre della morte e il supremo scandalo», propone tuttavia la morale di chi «agisce in nome di un valore ancora confuso, ma che avverte almeno di avere in comune con tutti gli uomini» (La peste, p. 26), la morale di «coloro che non trovano quiete né in Dio né entro la storia, e si dannano a vivere per quelli che, come loro, non possono vivere, per gli umiliati» (cfr. L'uomo in rivolta, tr. it. Milano 1963, pp. 38 e 333).
Anche André Gide (1869-1951), dopo una sorta di conversione alla rovescia dalla fede all’ateismo, scriveva che l’uomo doveva diventare, per l’altro uomo, la provvidenza e le mani di Dio, per ovviare così alla sua assenza (cfr. Dio, figlio dell'uomo, 1944; Tesée, 1946). In Gide, come nella non-credenza contemporanea, non vi è un'opposizione polemica contro l'idea metafisica o teologica di Dio, ma un invito a vivere “come se Dio non esistesse”, nella consapevolezza che questa scelta richiede molta più virtù di quella testimoniata da chi si affida “passivamente” alla Provvidenza divina. Alla “santità religiosa” Gide contrapponeva la responsabilità spoglia di chi sa amare puramente, senza speranza di ricompense e di premi.
Si tratta dunque di autori che scelgono l’ateismo ritenendolo erroneamente come la necessaria premessa alla libertà dell’uomo e come unica possibile risposta al “silenzio di Dio” verso un’umanità abbandonata a se stessa, che si ritroverebbe per questo impegnata a dare senso, da sola, alla propria esistenza senza Dio. È come se la frase che Fëdor Dostoevskij (1821-1881) mette in bocca ad Ivan Karamazov, ne I fratelli Karamazov (1880): «se Dio non esiste, tutto è possibile» fosse stata rovesciata dalle varie correnti dell’ateismo umanistico, assumendo ora il significato che tutto sarebbe possibile, e non solo il male, ad un uomo che ha perduto Dio ma non ha perso la volontà di costruire la propria esistenza nella solidarietà con gli altri. Utopia votata al fallimento più tragico, però, come riconoscerà lo stesso Sartre: una volta ucciso Dio, «rimarrò solo, con questo cielo vuoto sopra la mia testa, poiché non ho altro modo di essere con tutti» (Il diavolo e il buon Dio, p. 171). Lo stesso Dostoevskij aveva lucidamente previsto il fallimento del progetto dell’ateismo umanistico e “solidaristico”. Kirillov, il celebre personaggio de I demoni (1872), dice che «l’uomo ha fatto in modo di inventare Dio, solo per vivere senza uccidersi», nel senso, cioè, che resta impossibile trovare il senso di vita senza Dio. L’ateismo radicale, ormai sfociato nel nichilismo, trova nell’apologia del suicidio il suo esito compiuto: e per testimoniare la verità dell’ateismo, Kirillov sceglierà di uccidersi. Ma proprio nel personaggio di Kirillov, Dostoevskij tratteggia un inedito connubio tra ateismo e fede, nel senso che oltre l’ateismo può esserci solo la fede. È questa la tesi anche di Leszek Kolakowski, per il quale l’assenza di Dio, provocata dall’ateismo «demolisce e defrauda di significato tutto ciò che noi siamo e tutto ciò che amiamo pensare dell’essenza dell’essere umano» (cfr. Se non esiste Dio, Bologna 1999), confermando l’espressione profetica di Geremia: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore» (Ger 17,5).
IV. Forme di ateismo della cultura e della scienza
Accanto alla radice materialista e a quella che si rifà ad un antropocentrismo immanente, affermato come prometeica indipendenza da Dio, l’ateismo assume ulteriori forme e classificazioni. Rimandando ad altri lavori che ne tracciano in prospettiva storica delle analisi approfondite (più estesamente i 4 voll. curati da Girardi, 1967-1970; ma si veda anche Del Noce, 1964; Sciacca, 1964; Fabro, 1969; Palumbieri, 1986), ci limiteremo a richiamarne qui alcuni aspetti di maggiore interesse per lo scopo di questo Dizionario.
1. Ateismo scettico e non credenza. Con la terminologia «ateismo scettico» si intende una forma di ateismo la cui radice remota sta nel rifiuto di accettare quelle concezioni mitologiche (o anche filosofiche) che attribuiscono alla natura divina qualità che generano scetticismo e incredulità. Carneade (214-129 a.C.) mostra le difficoltà incontrate dal pensiero filosofico nell’affermare le verità concernenti la divinità. L’esistenza degli dèi, dice, implica che essi sono vivi, e se vivi capaci di piacere e di dolore, di quiete e di turbamento, «e così sono mortali» (cfr. Sesto Empirico, Adversus mathematicos, IX, 139-140). Argomentazioni analoghe a quelle di David Hume (1711-1776), che nei Dialoghi sulla religione naturale (1779, postuma), sostiene che «non ha senso domandarsi la causa del mondo nella sua totalità […]. Se l’effetto, cioè il mondo, è imperfetto e finito, allora anche la Causa dovrebbe essere imperfetta e finita. Ma se la divinità si riconosce imperfetta e finita, manca il motivo per riconoscerla unica».
Lo scetticismo di Hume, che prelude all’agnosticismo di Immanuel Kant (1724-1804), la cui influenza graverà su buona parte del pensiero scientifico, è alla base della «incredulità religiosa», la quale consiste nel non saper trovare ragioni valide per affermare Dio o credere in Lui, senza per questo voler eludere il problema. Sia nei Dialoghi che nelle Ricerche concernenti l’intelletto umano e i principi della morale (1751), Hume afferma che la credenza non può mai avere un grado di certezza assoluta e quindi non è possibile, in base ad essa, affermare l’esistenza di Dio. Questo ateismo, che si fonda sull’impossibilità di trovare ragioni valide per credere, non è tuttavia un ateismo assoluto, e Hume deve essere definito come scettico o agnostico piuttosto che ateo. In effetti, l’ateismo della non credenza richiede anch’esso una credenza nell’ateismo, risultando così, anche nel contesto del ragionamento di Hume, di pari probabilità rispetto alla credenza stessa. È quanto ha messo in luce F. Jeanson ne La foi d’ un incroyant (Paris 1963), sottolineando peraltro come la «fede», per il credente, è di un ordine diverso dalla «credenza» di Hume.
2. Ateismo “culturale”. Una forma recente di ateismo è quella che potremmo definire «ateismo della cultura». I suoi presupposti vanno ancora ricercati nella posizione antropocentrica di Feuerbach: Dio è lo specchio dell’uomo, da cui segue che homo homini Deus est. La verità del culto religioso sarebbe dunque la cultura, intesa non come naturale apertura alla vita dello spirito ed espressione delle sue manifestazioni, ma come mera decifrazione e demistificazione dell’illusione religiosa. L’antropologia diviene qui la verità della teologia, e la cultura la verità della religione, in una prospettiva teoretica in cui, poiché la cultura è essenzialmente critica dell’illusione religiosa, l’ateismo si presenta come cultura e la cultura come religione. La cultura cessa di essere la manifestazione di una istanza spirituale presente nell’uomo per assumere il ruolo, perso il suo riferimento trascendente, di una risposta “religiosa” alle domande dell’uomo sull’uomo. L’enorme influsso delle scienze umane, a partire dal XIX secolo (antropologia, etnologia, sociologia, psicoanalisi, ecc.) ha spesso implicato, per diversi teorici della cultura, questa forma di ateismo.
L’“archeologia del sapere” di Michel Foucault (1926-1984) si propone come ultima e radicale demistificazione di ogni illusione teistico-teologica, in cui l’arché del lógos, ovvero la cultura, viene intesa come definitiva cancellazione di Dio. Le scienze umane, dalla psicoanalisi all’etnologia, assumono la funzione di “interpretare” la verità dell’uomo che era stata propria della metafisica e della teologia. Gilles Deleuze (n. 1925) e Pierre-Felix Guattari (1930-1992) scriveranno nell’Antiedipo (1972) che riguardo a Dio è «impossibile e indifferente affermare o negare un tale essere, viverlo o ucciderlo». In modo analogo, per Jacques Lacan (1901-1981), la verità del senso è il non-senso (cfr. Ecrits, 1965). Jacques Derrida (1930-1999) affermerà che ogni testo consiste nella decostruzione del testo (cfr. L’écriture et la difference, 1967): il senso del testo, e quindi della cultura, è quello di essere senza significato, perché privo di ogni senso unificatore di verità. E Claude Levi-Strauss (n. 1908), nei Tristes tropiques (1955), sostiene che anche dal punto di vista antropologico la cultura dell’uomo è solo espressione di pure relazioni senza significato oggettivo. Il nichilismo, nella forma di un significante senza significato e di un testo senza senso, finisce così per essere la più recente forma dell’ateismo della cultura.
In rapporto con questa concezione sembrano oggi farsi strada forme di “ateismo religioso”, che compaiono nel contesto di una cultura postmoderna e post-metafisica nella forma di adesione ad un “Sacro anonimo” che si pone al di là non solo di ogni concettualizzazione di Dio, ma anche di ogni rapporto religioso con il Tu personale di Dio. Si desidera così prescindere esplicitamente da ogni collegamento con una tradizione religiosa storica, prima fra tutte dalla Rivelazione biblica. È questa una forma di “religione senza Dio” che convive con (ed in certo modo postula) la rinuncia alle “grandi narrazioni” dell’essere e della storia, evitando accuratamente ogni riferimento a tradizioni fondative forti o anche esercizi del pensiero teoreticamente vincolanti per la ragione (cfr. J.F. Lyotard, La condizione post-moderna, 1979; H. Blumenberg, Elaborazione del mito, 1979). Nelle sue pieghe trova facilmente spazio l’assunzione di un nuovo politeismo, duttile ai nuovi bisogni dell’uomo (cfr. O. Marquard, Elogio del politeismo, 1979), ma anche la surrettizia introduzione di “narrazioni” o cosmovisioni sostitutive, che recuperano miti del passato per rimpiazzare con essi le tradizioni fondative e l’eredità morale delle religioni, in special modo di quella ebraico-cristiana.
3. Esiste un ateismo scientifico? Sull’eredità dell’esaltazione della Ragione operata dal Secolo dei Lumi, si è progressivamente imposta per tutto il XIX secolo e per buona parte del XX l’opinione comune che la scienza ed i suoi progressi abbiano costituito una delle più importanti cause dell’ateismo moderno e contemporaneo. In particolare, sono stati messi in luce due ambiti di discussione: l’uno è stato chiedersi se il pensiero scientifico, per restare fedele a se stesso, dovesse in qualche modo “postulare” l’ateismo come condizione di una vera conoscenza; l’altro riguardava l’idea che il progresso tecnico-scientifico potesse di fatto sostituire le richieste e le aspettative che l’uomo era stato abituato a riporre in Dio. Se quest’ultimo ambito ha dato origine ai noti dibattiti sul senso umanistico ed in qualche modo secolarizzante del progresso, il primo, quello di carattere metodologico, ha invece raccolto la confluenza di due importanti correnti di pensiero: ovvero il riduzionismo (in sede fisico-biologica), come metodologia privilegiata di analisi e di conoscenza della natura, e la filosofia analitica (in sede logico-matematica), che legava la conoscenza stessa a precise regole del linguaggio. Ambedue, poi, si sono a lungo nutrite dell’impostazione gnoseologica kantiana la quale, se non negava Dio come fondamento degli imperativi della ragion pratica, non gli riservava però alcun accesso a livello di conoscenza razionalmente fondata, terreno che riguardava esclusivamente i giudizi sintetici a priori delle scienze fisico-matematiche.
Nella filosofia del Novecento si è così giunti a parlare di «ateismo semantico», che concerne tutte quelle posizioni filosofiche che ritengono “senza senso” o “insensato” ogni tipo di discorso su Dio, in quanto appartenente ad un linguaggio di tipo metafisico e, in quanto tale, non verificabile dai modelli del linguaggio scientifico, cui solo compete di stabilire il “vero” e il “falso” di un discorso. Per Rudolf Carnap (1891-1970), rappresentante del neopositivismo logico del Circolo di Vienna e autore de Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio (1933), la filosofia del linguaggio mostra come la parola “Dio” poteva avere ancora senso nelle culture mitiche e primitive, le quali stabilivano, o credevano di stabilire, un rapporto esistenziale con Dio; ma tale senso è stato distrutto dalla stessa metafisica, che volendo pensare Dio solo in termini concettuali, senza voler stabilire nessun rapporto con lui, avrebbe di fatto reso il discorso su Dio “senza senso”. Le definizioni della metafisica vengono qui considerate solo come pseudo-definizioni nei confronti dei criteri che sono alla base delle definizioni scientifiche. Il termine “Dio”, afferma Alfred Jules Ayer (1910-1989), in Linguaggio, verità e logica (1936), non ha un senso universalmente riconoscibile. Per questo l’ateismo semantico rifiuta non solo la possibilità di una risposta filosofica intorno a Dio, ma lo stesso valore di “senso linguistico” di ogni domanda concernente Dio. Tuttavia, la dimostrazione filosofica che tale impostazione non debba condurre affatto a una posizione atea è ben evidenziata dall’itinerario di pensiero di Ludwig Wittgenstein (1889-1951), il cui confronto dialettico con la posizione neopositivista classica fu esplicito.
Va comunque osservato che il pensiero scientifico è senza dubbio esposto, più di altri, a due “tentazioni”. La prima è che lo studio della materia, negli aspetti più sensibili ed empirici evocati da questo termine, essendo in fondo l’oggetto proprio e definitorio della scienza, la rende per questo più vulnerabile all’attrazione del materialismo, favorendo quella visione riduttiva del reale che, nel presente come lo fu nel passato, continua ad offrire una base concettuale forte per la “scelta” dell’ateismo. In secondo luogo la visione totalizzante e fortemente unitaria della scienza, rinforzata dall’estensione e dalla profondità della ricerca scientifica contemporanea, la spinge a coniare modelli che si vogliono esaustivi dell’essere, fino a postularne cause e fondamenti, sostituendo così più facilmente le proprie narrazioni alle istanze fondative della religione. Ma entrambe le tentazioni offrono proprio gli elementi per operare quel necessario discernimento, sottolineato già tempo addietro da E. Gilson, fra pensiero scientifico e cultura scientista. Mettendo in luce l’inevitabile ruolo mediatore della mitologia nel rapporto fra scienza e religione, il pensatore francese segnalava che i conflitti sorgono quando entrambe fanno ricorso ad immagini e rappresentazioni le quali, nel tentativo di organizzare le proprie conoscenze, corrono il rischio di distanziarsi dal reale (il mondo reale per la scienza, il medesimo mondo e il vero Dio per la religione), mentre possono comporre i loro apparenti contrasti quando operano entrambe lo sforzo di nutrirsi di una conoscenza di indole realista e non più idealista. «Tutto ciò che la scienza può fare è di ringiovanire le nostre mitologie, la vera fede religiosa per se stessa non s’interessa a tali operazioni. Gli spiriti religiosi sono abituati a pensare che le rivoluzioni scientifiche non riguardano in nulla la verità religiosa. Che il mondo della creazione sia quello di Tolomeo, di Galileo, di Cartesio, di Newton, di Darwin, di Einstein, in attesa di divenire quello di qualche altro, la coscienza religiosa non ha da preoccuparsene. Fatto esperto di tante crisi, il credente anche non molto istruito si è abituato all’idea che l’universo che Dio ha creato è quello della scienza, almeno nella misura in cui quest’ultimo è anche l’universo reale» (Gilson, 1983, p. 32).
Se l’ateismo può essere presente nell’ambiente scientifico, non vi risiede come condizione di conoscenza, bensì come situazione esistenziale, né questa è dettata necessariamente da quella. Non pare pertanto adeguato poter parlare, in senso stretto, di un «ateismo scientifico», sebbene quest’ultimo aggettivo sia stato storicamente impiegato in senso ateo e, non a caso, proprio come qualificativo del «materialismo». L’ateismo nella scienza prende più specificamente il qualificativo di «scientismo», ma non tutti gli scienziati sono scientisti, né tutti gli scientisti sono scienziati, sebbene sia opinione frequente che i due termini si sovrappongono e che la scienza sia in grado di rispondere oggi a domande che furono religiose in passato. In realtà, pare più pertinente affermare che le scienze contemporanee siano tornate a “suscitare” domande religiose, senza voler per questo controbattervi necessariamente delle risposte atee. Occorre però evitare di coniare, a partire dalla riflessione delle scienze, false immagini di Dio che catalizzino attorno a sé il confronto fra credenza e non credenza, rischio tanto più alto quanto meno si opera un paziente ritorno sul reale. Gli aspetti sociologici del rapporto fra scienza e religione, invece, posseggono indicatori contrastanti, a volte di difficile interpretazione, sebbene vi sia ormai un certo consenso sul fatto che la scienza non debba essere considerata un fattore di crescita dell’ateismo, né l’attività dello scienziato essere un sinonimo di ateismo postulatorio (cfr. Poupard, 1984, Ardigò e Garelli, 1989-1990).
V. Sofferenza dell’uomo e negazione di Dio
Non bisogna dimenticare che l’ateismo contemporaneo si configura soprattutto come reazione allo scandalo del male nel mondo (vedi supra, III.2). «Dio e Birkenhau non vanno insieme», ha scritto Elie Wiesel, scampato da Auschwitz. «Come si può conciliare il Creatore con la distruzione mediante il fuoco di un milione di bambini ebrei? Io ho letto le risposte, le ipotesi. Ho letto le soluzioni teologiche offerte: la domanda rimane domanda. Quanto alle risposte, non ce ne sono» (cit. in P. De Benedetti, Quale Dio?, Brescia 1999). La sofferenza dell’innocente è stata ed è tuttora la più dura difficoltà a credere in Dio: «Perché soffro? Questa è la roccia dell'ateismo» (G. Büchner, La morte di Danton, in Opere, Milano 1963, p. 50). Dinanzi all’agonia di un ragazzo di dodici anni, così risponde il dottor Rieux al Padre Paneloux ne La peste di Camus: «No, Padre, io mi faccio un’altra idea dell’amore; e mi rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati» (tr. it. Milano 1963, p. 169). Frase analoga a quella che Dostoevskij mette in bocca ad Ivan Karamazov: «Che ne faremo allora dei bambini? [...] se tutti devono soffrire per comprare con le loro sofferenze un’armonia che duri eternamente, cosa c’entrano però i bambini? […] Io non voglio nessuna armonia, per amore dell’umanità non la voglio. […] Non è che io non accetti Dio, Alioscia; soltanto gli restituisco rispettosamente il biglietto» (I fratelli Karamazov, Firenze 1966, pp. 355-356).
Nello scritto La notte, Wiesel rievoca l'impiccagione di un bambino: «Più di una mezz'ora restò così a lottare tra la vita e la morte agonizzando sotto i nostri occhi». I detenuti si chiedono: «Dov'è il Buon Dio ? Dov'è ?». Dove è la bontà di Dio di fronte alla sofferenza di un bambino innocente? Wiesel non risponde, come Camus, con la “rivolta” né, come Ivan Karamazov, con il rifiuto di capire, ma con il tentativo di una intuizione religiosa, capace di leggere una più profonda verità nel volto di Dio. «Dov'è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: — Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca» (E. Wiesel, La notte, Firenze 1980, pp. 66-67). Dio l’impiccato, Dio che soffre con noi e in noi. Questa è l’unica risposta per Wiesel all’“assenza” e al “silenzio” di Dio, che — come nel Libro di Giobbe — hanno reso vane le risposte della teodicea metafisica alle questioni della sofferenza e del male.
Per Jacques Maritain (1882-1973), se si facesse una “psicanalisi metafisica” del mondo moderno, si scoprirebbe che al fondo più intimo della sua rivolta contro Dio, e poi della sua indifferenza, si trova un’immagine “zeusiaca” della divinità, impassibile di fronte alle sofferenze delle sue creature. Il mistero del male e della sofferenza sta, con tutte le sue punte aguzze, dentro il cuore dell’uomo “in rivolta”, sta «con tutte le sue spine, nel fondo più oscuro dell’immenso turbamento di cui soffre il mondo di oggi», e vi sta sovente come «una sorta di disperazione spirituale che tormenta l’abisso degli animi e li allontana da Dio, talvolta li aizza contro di lui». Anche molti cristiani, prosegue il pensatore francese, «da un lato hanno in testa una vaga idea [...] che Dio è Amore, e dall’altro pensano a Lui non come a un Padre [...], ma come a un Imperatore di questo mondo: un Tiranno-Drammaturgo che sarebbe lui stesso il primo autore di tutti i peccati del mondo e di tutta la sua miseria per la concessione di sbagliare, che precederebbe i nostri errori, e a cui abbandonerebbe fin da principio la creatura in balìa di se stessa» (cfr. J. Maritain, Approches sans entraves, Paris, 1973, pp. 85-86).
Seguendo alcune intuizioni di Leon Bloy, Raïssa Maritain conferma in qualche modo l’intuizione di Wiesel, che la sofferenza degli innocenti è comprensibile solo alla luce di un Dio che soffre nella sofferenza dell’uomo. «Né la teologia, né Aristotele ammettono questa unione della sofferenza e della felicità... Ma il nostro Dio è un Dio crocifisso, la felicità di cui egli non può essere privato, non gli ha impedito né di temere, né di gemere, né di sudare il sangue nell'agonia indicibile, né di lamentarsi sulla croce, né di sentirsi abbandonato!» (I grandi amici, Milano 1991, p. 164). Per questo, conclude Raïssa, «ci deve essere nell’Essenza impenetrabile, qualche cosa di corrispondente a noi, senza peccato, e che il sinottico dei tormenti umani non è che un riflesso tenebroso degli inesprimibili contrasti della luce[…]. Questi “inesprimibili contrasti della luce”, questa specie di gloria della sofferenza, ecco forse a che cosa corrispondono sulla terra la sofferenza degli innocenti, le lacrime dei bimbi, certi eccessi di umiliazione e di miseria che il cuore quasi non può accettare senza scandalo; e che, quando la figura di questo mondo enigmatico sarà passata, appariranno al vertice delle Beatitudini» (ibidem, pp. 164-165).
In Varcare la soglia della speranza (1994), Giovanni Paolo II affronta anch’egli il problema del male e la “giustificazione” di Dio di fronte alla non credenza. La risposta che Dio dà alla sofferenza dell’uomo — egli osserva — non è una risposta di carattere teorico e meramente concettuale, ma è quella di una verità che si fa persona, e mostra, nella realtà scandalosa di un “Dio che soffre”, la solidarietà di Dio nella sofferenza di ogni uomo. «Come ha potuto Dio permettere tante guerre, i campi di concentramento, l’olocausto? Il Dio che permette tutto questo è ancora davvero Amore, come proclama san Giovanni nella sua Prima Lettera? Anzi, è Egli giusto nei riguardi della Sua creazione? Non carica troppo le spalle dei singoli uomini? […] Ovviamente una risposta potrebbe essere che Dio non ha bisogno di giustificarsi dinanzi all’uomo. È sufficiente che sia onnipotente. In questa prospettiva, tutto ciò che fa o permette deve essere accettato. Questa è la posizione del biblico Giobbe. Ma Dio, che, oltre a essere Onnipotente, è Sapienza e — ripetiamolo una volta ancora — Amore, desidera, per così dire, giustificarsi davanti alla storia dell’uomo. Non è l’Assoluto che sta al di fuori del mondo, e al quale è pertanto indifferente la sofferenza umana. È l’Emmanuele, il Dio-con-noi, un Dio che condivide la sorte dell’uomo e partecipa del suo destino. Qui viene alla luce un’altra insufficienza, addirittura la falsità di quell’immagine di Dio che l’illuminismo ha accettato senza obiezioni […]. Se nella storia umana è presente la sofferenza, si capisce perché la Sua onnipotenza si è manifestata con l’onnipotenza dell’umiliazione mediante la Croce. Lo scandalo della croce rimane la chiave di interpretazione del grande mistero della sofferenza, che appartiene in modo così organico alla storia dell’uomo» (pp. 67-69). E onnipotenza ed umiliazione sono ancora misteriosamente coniugate nella sorprendente esperienza della “trasfigurazione” della sofferenza e del sofferente, parte della risposta che la tradizione cristiana ha offerto al problema del male, e riassunta dalla testimonianza paolina: «Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Così, in una natura perfezionata dal dono della grazia, non pochi credenti possono affrontare il dolore e la contraddizione non con semplice rassegnazione, ma quasi come risposta ad una vocazione, segno di una più piena identificazione con Cristo.
VI. Alcune interpretazioni dell’ateismo: Maritain, Fabro, Del Noce, Gilson
L’ateismo è un fenomeno che prende una configurazione precisa e caratteristiche proprie, sconosciute al mondo precristiano, in modo preminente nella modernità. È la complessità dell’epoca moderna, con la presenza delle sue varie componenti scientifiche, filosofiche, etiche, politiche, economiche, religiose, e con la sua rivendicazione dell’autonomia dell’uomo nei vari campi del sapere e dell’agire, di contro alla concezione sacrale del mondo cristiano medievale, che qualifica in modo specifico l’articolarsi dell’ateismo.
Intuendo che dietro tale fenomeno si celava un mutamento di spirito dell’uomo nei confronti del mondo, di se stesso e dei valori etici e religiosi, ne Il significato dell’ateismo contemporaneo (1949) Maritain si propone di «scoprire il senso spirituale nascosto della presente agonia del mondo». Prima di considerare i contenuti filosofici presenti nelle diverse forme di ateismo, Maritain si occupa di individuare quali sono i soggetti «atei», che egli distingue in: a) “atei pratici”, che credono di credere in Dio, che in realtà negano, perché attenti solo al mondo, al potere, al danaro; b) “pseudo-atei”, che invece credono di non credere in Dio, ma credono in Lui inconsciamente, perché ciò che negano non è Dio; c) “atei assoluti”, che non solo negano Dio, ma operano attivamente, con il pensiero e con le opere, contro Dio. Dal punto di vista dei contenuti filosofici egli riconosce: a) un “ateismo negativo”, che sostituisce l’idea di Dio o con l’affermazione di una libertà assoluta (i libertini del XVII secolo), o con una scelta nichilistica (come Kirillov de I demoni, di Dostoevskij); b) un “ateismo positivo”, che lotta positvamente contro la religione, ritenuta un ostacolo all’affermazione della nuova scala di valori propugnati dalla modernità (l’ateismo tragico di Nietzsche, l’ateismo esistenzialista di Sartre e di Camus, l’ateismo rivoluzionario del marxismo). La conclusione di Maritain è che, preso nel suo insieme, l’ateismo contemporaneo è “assoluto”, perché nega Dio, e “positivo”, perché coinvolge tutto l’uomo in una lotta contro Dio e la religione. Per la sua carica di intransigente contestazione e la sua richiesta di totale adesione, l’ateismo è una sorta di “fede alla rovescia”, che assume il carattere di un “fenomeno religioso”: con la sua sincerità e abnegazione, l’ateo autentico ed assoluto non è, alla fine, che un «santo mancato e un rivoluzionario fallito».
Cornelio Fabro (1911-1997) offre, nella sua Introduzione all’ateismo moderno (1964), un’approfondita analisi delle radici filosofiche dell’ateismo, ravvedendone l’origine nel “principio di immanenza” instaurato dal cogito cartesiano, il quale, espellendo l’essere dalla coscienza, ha inevitabilmente e conseguentemente concluso nell’eliminazione di Dio come Essere sussistente, e quindi nell’ateismo. «L'oblio dell'essere, proclamato dal cogito, ha portato, per cadenza inarrestabile, alla perdita dell'Assoluto e ora l'uomo erra ramingo nel mondo che ne definisce i limiti e il suo pericolo mortale. Oggi la scienza, per la prima volta nella storia dell’umanità, è riuscita a scandagliare le forze abissali del cosmo e già si appresta a imbrigliarle per violare gli eterni silenzi degli spazi infiniti. Eppure, mai come oggi, l’uomo ha sentito l'incombente minaccia della scomparsa totale della sua civiltà e della stessa distruzione del genere umano: infatti il traguardo che ha dato all'uomo moderno il dominio delle forze dell’universo, l’ha accostato al nulla che può sprigionarsi ad ogni momento da una volontà che più non conosce fondamento e vincolo di verità. Ed il pensiero contemporaneo allora, che ha fatto del nulla il fondamento dell’essere, ha saldato il cerchio della coscienza in se stessa. Così, per l’emergere di questo nulla attivo al centro della coscienza, non solo la filosofia si è fatta deserta del Dio vivo, ma anche la letteratura, l’arte, la politica e l’intero complesso delle scienze dello spirito in generale hanno bandito dalla loro prospettiva l’Iddio vero che ha sostenuto nei secoli i fondatori della civiltà e i difensori della libertà, come il Padre degli uomini e l’unico desiato rifugio nel dubbio e nel dolore» (Fabro, 19692, p. 9). A motivo di questa eliminazione totale del Dio della trascendenza, in nome di una coscienza, e quindi di una “libertà”, totalmente autonome, Fabro qualifica l’ateismo contemporaneo come un «umanesimo radicale», ovvero «ateismo umanistico» o «umanesimo ateo» (vedi supra, III.2), la cui caratteristica peraltro, a differenza dell’ateismo illuministico, riservato alle élites intellettuali ed a carattere prevalentemente distruttivo nei confronti della religione, è quella di essere divenuto, a motivo della sua pervasività e per il progetto di costruire l’uomo senza Dio, “ateismo di massa” e “ateismo costruttivo”. Tale ateismo si manifesta, secondo Fabro, a diversi livelli culturali: come «ateismo fenomenologico» (la coscienza si autofonda come “nulla” ed espelle Dio); come «ateismo psicologico» (rifiuta Dio perché non lo incontra come oggetto di intuizione psicologica); come «ateismo pedagogico o didattico» (esclude la possibilità che Dio intervenga nel processo educativo e formativo); come «ateismo metodologico» (esclusione dell’ipotesi di Dio nella comprensione sistematica del mondo). Quest’ultimo caso, che resta pur sempre una posizione filosofica, esercita la sua influenza nell’ambito delle scienze, facendo assurgere a conclusione ontologica una prescrizione il cui carattere metodologico resterebbe, di per sé, confinato nell’ambito del suo oggetto empirico. Osserva Fabro che se anche la scienza in quanto tale non ha Dio come proprio oggetto di ricerca, ciò non esclude, bensì esige, «che lo scienziato stesso come uomo si ponga il problema di Dio», nell’orizzonte del problema del senso e del fondamento ultimo dei fenomeni della natura.
Per Augusto Del Noce (1910-1989) la “questione ateismo” non dev’essere affrontata solo sul piano teoretico, ma soprattutto sul piano etico e politico. Distanziandosi ne Il problema dell’ateismo (1964) dall’interpretazione univoca della modernità offerta da Fabro (dal cogito di Cartesio al nulla di Nietzsche), Del Noce ne propone una lettura diversa, sulla linea “da Cartesio a Rosmini”, passando per autori come Vico, Leibniz, Pascal, Malebranche, ecc. Del Noce riconosce che se il cogito cartesiano viene inteso come ratio separata, esso conduce all’esito immanentista del pensiero idealistico di Hegel, che fa della coscienza una “autocoscienza assoluta”, autosufficiente rispetto ad ogni trascendenza. Tuttavia Del Noce, studiando l’evolversi della morale del “laicismo” — che è passata dal porre nel XIX secolo i suoi fondamenti etico-politici nell’etica kantiana, implicitamente teista, all’opzione atea della morale e della scienza politica nel XX secolo, ormai priva di ogni ancoraggio trascendente — ritiene che la demistificazione della morale del laicismo borghese, operata prima da Marx e poi da Nietzsche, costituisca la più forte critica alla morale autosufficiente del razionalismo, e in quanto tale postuli, per la morale e la scienza politica, un dopo Marx e un dopo Nietzsche, sul fondamento di una Verità trascendente. Operazione tutta da compiere, ma per la quale Del Noce propone, come valido strumento, la ripresa del “sintesismo” delle forme dell’essere di Rosmini. Il laicismo borghese, ancorato fino alla metà del XX secolo al razionalismo, con la crescita della società del benessere e del consumo, sembra aver privilegiato — osserverà ultimamente Del Noce — l’irrazionalismo e le varie forme del “pensiero debole”, con conseguenze gravi per la morale e la politica.
L’ateismo difficile (1970), di Etienne Gilson (1884-1978), opera una sorta di rottura nei confronti di un’interpretazione dell’ateismo fondata unicamente sulla valutazione della sua negazione metafisica della trascendenza ed apre, in un certo senso, un discorso nuovo, di tipo esistenziale, sull’ateismo. Ciò che fa problema, per Gilson, è che l’ateismo stesso, come negazione dell’esistenza di Dio (e quindi della sua trascendenza, necessità, causalità, ecc.) è difficile, nel senso che esso deve continuamente, e invano, cercare prove a sostegno della propria tesi. «Il solo fatto che tanti uomini credano ancora utile fare professione di ateismo e giustificare la loro incredulità con argomenti quali, ad esempio, l'esistenza del male, lascia abbastanza vedere che la questione rimane ancora viva. Se la morte di Dio significa la sua morte finale e definitiva nello spirito degli uomini, la vitalità persistente dell'ateismo costituisce per l'ateismo stesso la sua più seria difficoltà. Dio sarà morto negli spiriti solo quando nessuno penserà più a negare la sua esistenza. Nell’attesa che l'ateismo finisca con lui, la morte di Dio rimane un rumore che aspetta ancora conferma» (tr. it. Milano 1983, p. 22). L’ateismo è difficile, per Gilson, perché è difficile incontrare veri atei che posseggano una ragionata e incontrovertibile teoria che dimostri la non esistenza di Dio. Più che preoccuparsi di dimostrare l’esistenza di Dio — che è realtà evidente — egli esorta a meditare sul fatto che oltre 24 secoli di cultura umana sono pervasi di meditazioni su Dio. Gilson esclude pertanto che le varie forme dell’ateismo contemporaneo: scientista, pratico, l’ateismo di Stato, l’ateismo religioso (con riferimento ad alcuni circoli del Modernismo), e l’ateismo cristiano (con riferimento ai teologi della “morte di Dio”), siano unicamente la conclusione di puri ragionamenti filosofici. La sua convinzione è che «ci sono molte occasioni di dubbio, di esitazione e di incertezza nel procedere di uno spirito alla ricerca di Dio, ma la possibilità stessa di una tale ricerca implica che il problema dell'esistenza di Dio resta, per lo spirito del filosofo, una inevitabilità» (ibidem, p. 57).
VII. La dimensione “religiosa” dell’ateismo: Guardini, Bonhöffer, Buber
Esistono anche altre letture dell’ateismo, considerato non solo come fenomeno metafisico o scientifico, ma come fenomeno storico di reazione ad un’inadeguata visione etica e religiosa del rapporto tra l’uomo e Dio. Dovute in particolare ad autori come: H.-U. von Balthasar, K. Rahner, E. Borne, C. Bruaire, G. Fessard, H. de Lubac, G. Marcel, G. Morel, E. Mounier, J. Lacroix, P. Ricoeur e altri ancora, tra queste letture vi è quella che l’ateismo possa svolgere una positiva funzione di purificazione intellettuale dai falsi idoli della modernità e da tutti gli assoluti creati dall’uomo, responsabili di aver ostacolato la visione del vero Dio rivelatosi in Cristo. Si suggerisce in sostanza che l’ateismo non sia solo (giustamente) criticato sul piano metafisico o razionale, ma venga anche valorizzato da una rinnovata filosofia cristiana più attenta al dato biblico.
Romano Guardini (1885-1968) parla di un “ateismo purificatore” nei confronti degli idoli filosofici rappresentati da tutte quelle concezioni deistiche o teistiche che partono dalla concezione di Dio come Essere e come Principio trascendente del cosmo, e non, piuttosto, come Valore Sommo e Persona assoluta. L’ateismo svolgerebbe allora la provvidenziale funzione di purificare l’appesantito sguardo dell’ontologia, per aprirlo alla visione del Dio esistente personale. Il Dio-Persona è il Dio che riguarda non l’essere ma l’esistenza, è il Dio-per-noi, il Dio-per-l’uomo, il Dio che parla e dà significato alla vita concreta dell’uomo. L’ateismo non guida certo l’assenso noetico all’esistenza di Dio, secondo la preoccupazione principale della metafisica, ma prepararebbe le condizioni esistenziali più idonee all’atto di fede nella sua Parola. La fede, per Guardini, non può ovviamente sorgere come frutto di un’elaborazione concettuale, ma l’uomo può disporsi ad essa solo esistenzialmente, nell’orizzonte di una concezione di Dio come Valore e come Persona, e solo con la fede accolta come dono, l’uomo ha la conferma che il vero volto di Dio è il Dio-per-noi. «L’ateismo può agire in senso positivo anche come fattore storico che risveglia una religiosità ottusa e sonnolenta, che accantona una falsa auto-intelligibilità e acuisce lo sguardo per i problemi. Rendendo tutti consapevoli che ogni esistenza genuinamente religiosa si basa sulla decisione e costituisce un’audacia, questa specie di ateismo può portare le questioni vitali ad un livello superiore» (R. Guardini, Fenomenologia e teoria della religione, in Scritti filosofici, vol. II, Milano 1964, p. 280).
Lungo la medesima direzione si spinge ancora più avanti, ed in modo assai più radicale, il teologo Dietrich Bonhöffer (1906-1945). Testimone della sua fede fino al martirio durante il nazismo, Bonhöffer ritiene con Barth che la provocazione dell’ateismo consenta di superare non solo la concezione di Dio come essere, ma anche la concezione religiosa di Dio come trascendenza, legate entrambe ad una considerazione puramente razionale e mondana di Dio, aprendo così la strada al Dio-per-noi della Rivelazione biblica, manifestando in questa tesi una sintomatica sintonia con quanto affermerà Emmanuel Lévinas (1905-1995) circa l’assoluta trascendenza e alterità di Dio, che può farsi presente a noi nel “volto” degli altri. Radicalizzando le posizioni della “teologia dialettica” di Karl Barth, che ribadiva l’assoluta distanza tra l’uomo e Dio (il totalmente Altro, ganz Anders) ed il primato della Rivelazione storica di Dio in Cristo contro ogni speculazione filosofica su Dio, Bonhoeffer assume anche i temi propri del pensiero esistenziale, in particolare di Kierkegaard, secondo cui Dio non è oggetto ma Persona, non un Es ma un Er, di fronte al quale l’uomo è esposto non alla quiete del pensiero ma alla fede-rischio (Glaubenswagnis), e per il quale deve manifestare non concetti, ma la propria decisione di vita (Entscheidung). È in questo preciso contesto teologico che Bonhöffer non teme di affermare che, con l’ateismo contemporaneo, ci troviamo in realtà di fronte alla morte del “Dio-oggetto religioso”, il “Dio-tappabuchi” (Lückenbüsser) inventato dall’uomo per dare una risposta alle proprie insicurezze e di cui l’uomo, divenuto adulto nell’epoca della secolarizzazione, non sa più che fare: «Dio come ipotesi di lavoro, come tappabuchi, è diventato superfluo per i nostri imbarazzi» (Resistenza e resa, Milano 1969, p. 264).
All’uomo contemporaneo non è più possibile annunciare Dio come il rimedio delle proprie deficienze umane, il Dio della Potenza e il Supremo legislatore del cosmo, ma un Dio che «è impotente e debole nel mondo e solo così rimane con noi e ci aiuta» (ibidem, p. 225). Questo, per Bonhöffer, non può essere il Dio dei filosofi, ma il Dio della rivelazione biblica. La morte del Dio-tappabuchi, capace di colmare le deficienze e i vuoti dell’uomo, apre alla visione di un Dio che ci abbandona non perché assente, ma perché si fa presente nella nostra stessa vita, nel bene che facciamo e nelle positive affermazioni del nostro operare. La tesi di Feuerbach, secondo cui Dio è la proiezione alienante dell’essenza dell’uomo, viene qui capovolta: Dio è con noi nella nostra vita e nella nostra storia proprio quando realizziamo la nostra natura e la nostra piena vocazione di uomini. «E non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo etsi Deus non daretur. Proprio questo noi riconosciamo al cospetto di Dio. Dio stesso ci costringe a questo riconoscimento. La conquista della “maggiore età” ci porta dunque ad un vero riconoscimento della nostra situazione davanti a Dio. Dio ci fa sapere che dobbiamo vivere come uomini che se la cavano senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15,34). Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio, è il Dio al cospetto del quale siamo ogni momento. Con Dio, e al cospetto di Dio, noi viviamo senza Dio. Dio è impotente e debole nel mondo e solo così rimane con noi e ci aiuta (Mt 8,17). È chiarissimo: Cristo non aiuta in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua debolezza, della sua sofferenza» (ibidem, p. 213). La trascendenza di Dio va scoperta dunque non come trascendenza metafisica ma come “trascendenza agapica”, come Dio per noi, che ci fa a sua volta trascendenza per gli altri.
Prescindendo da un giudizio teologico sulle affermazioni di Bonhoeffer — al teologo protestante si potrebbe ad esempio obiettare che la riscoperta del volto umano di Dio non debba necessariamente operarsi in chiave antimetafisica, o anche che la fede nel Dio della Rivelazione non esclude la correttezza di un accesso all’esistenza di un Assoluto in sede filosofica —, è indubbio che il suo pensiero costituisce un prezioso contributo per comprendere come l’ateismo contemporaneo non sia solo un prodotto metafisico, ma sia strettamente congiunto alla nuova situazione storica e religiosa dell’uomo nel mondo, definita dallo stesso Bonhoeffer come «secolarizzazione». E se la secolarizzazione, congiuntamente ad una crescita dell’autonomia dell’uomo nel mondo, ha prodotto anche l’ateismo come offuscamento del Dio della trascendenza, è anche vero che lo stesso ateismo può costituire per il cristiano una inedita possibilità per riscoprire il vero volto di Dio.
Alcune tesi di Bonhöffer sono state riprese dai “teologi della secolarizzazione”, in particolare da Harvey Cox (La città secolare, 1966), ma anche da Fr. Gogarten, J.B. Metz, G. Vahanian, P.M. van Buren, per i quali sarebbe stata proprio la visione cristiana del rapporto tra Dio e mondo ad abolire la visione sacrale-pagana, introducendo la “desacralizzazione” in cui vive l’uomo moderno, ed in cui può solo operare la fede adulta di un cristiano che rifiuta la tradizionale “mitizzazione” del mondo. Una forma estrema di questa teologia della secolarizzazione è rappresentata dai cosiddetti “teologi della morte di Dio”, in particolare William Hamilton e Thomas Altizer, autore de Il vangelo dell’ateismo cristiano (1966), nel quale si sostiene che l’essenza del vangelo consiste nel rinunciare ad ogni discorso umano su Dio, come pure ad ogni visione mitico-religiosa, per fare spazio ad una fede “adulta” che farebbe dell’ateismo il proprio presupposto, interpretando la stessa figura di Gesù come uomo-per-gli-altri, senza ulteriori specificazioni teologiche relative alla sua natura e figliolanza divina.
Anche per il filosofo ebreo Martin Buber (1878-1965), autore de L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia (1953), l’ateismo ha una funzione purificatrice nei confronti delle false immagini di Dio create dall’uomo. L’uomo è un Io che può fare esperienza di Dio solo se lo incontra come un Tu, un Tu divino. Dio non è un Esso (Es), ma un Lui (Er), anzi, precisa Buber, un Tu (Du): «un Dio che non è una persona vivente è un idolo», perché «è unicamente la relazione Io-Tu quella in cui possiamo incontrare Dio» (tr. it. Milano 1990, pp. 59 e 126). L’«eclissi di Dio» è la risposta di Buber all’affermazione di Nietzsche «Dio è morto». L’eclissi del “Dio del concetto”, del Dio-Esso, non significa per Buber la “morte di Dio”, ma solo che si è eclissato nella coscienza moderna il Dio-Esso della scienza e della filosofia, e che si sta preparando la strada per riscoprire il Dio-Tu. Il Dio-Tu, il Dio della preghiera, «continuerà a vivere intangibile dietro il muro di oscurità» che l’ateismo ha sollevato, perché sebbene l’uomo elimina, dalla filosofia e dalla scienza, il nome di Dio, tuttavia quel nome «continuerà a vivere nella luce della sua eternità» (cfr. ibidem, p. 36). Con l’annuncio nietzscheano della morte di Dio, «in realtà niente altro è detto se non che l’uomo è diventato incapace di afferrare una realtà per antonomasia indipendente da lui, e di rapportarsi ad essa, incapace pure di raffigurare e rappresentare questa realtà in immagini vive che la sostituiscano in luogo di una contemplazione che non può eguagliarla» (ibidem, p. 26). Confrontandosi con Heidegger, Sartre e Jung, Buber sostiene che fra l’uomo e Dio si è frapposto il nostro Ego ormai onnipotente, circondato dal Dio-Esso costruito intorno a sé (cfr. ibidem, p. 122): Dio cesserebbe allora di essere un Tu per l’uomo, un Qualcuno con cui l’uomo possa instaurare un vero dialogo nell’alterità e nella reciprocità.
Analogamente a quanto prima osservato a proposito di Bonhöffer, la rivalutazione del ruolo purificatore dell’ateismo nei confronti del falsi dèi e la riscoperta di una dimensione esistenziale del rapporto fra l’uomo e Dio, che non può essere assorbita dalla semplice concettualizzazione di un Assoluto filosofico, entrambe messe in luce con varie sfumature dai precedenti autori, non obbliga al rifiuto di una metafisica dell’Essere e di un accesso a Dio attraverso una conoscenza analogica. La prospettiva metafisica, la cui valutazione globale odierna risulta ancora in gran parte condizionata dalla critica mossale da Heidegger, non conduce infatti ad una concettualizzazione di Dio: essa non si presenta chiusa in se stessa, offre raccordi significativi con l’antropologia e la fenomenologia anche di taglio esistenzialista, e resta aperta all’inesprimibilità e al mistero dell’Essere, colto non solo come fondamento, ma anche come fonte di moralità, di senso e di libertà. Da una prospettiva più marcatamente teologica, una corretta comprensione della stessa immagine di Dio trasmessa dalla Rivelazione biblica implica — come ha mostrato P. Ricoeur (cfr. L’amore difficile, Roma 1995) — la nozione di Dio propria del senso comune e del pensiero filosofico, includendo in esso talune riflessioni provenienti dal pensiero scientifico. Il problema dell’ateismo pare dunque destinato a mantenere aperti, nei confronti del pensiero credente, entrambi i fronti di discussione e di studio, sia quello metafisico-scientifico, che quello personalista ed esistenziale.
VIII. La riflessione della Chiesa cattolica sul fenomeno dell’ateismo
1. Il Concilio Vaticano I. La prima riflessione del Magistero della Chiesa sull’ateismo appartiene al Concilio Vaticano I (1870). L’ateismo, secondo il Concilio, sia dal punto di vista teoretico che pratico, è un fenomeno tipicamente moderno, estraneo quindi alla cristianità antica e medievale. Nella Bibbia c’è l’alternativa radicale tra Jahvè e gli altri dèi che sono «niente» (cfr. Is 44,6; 45,6-22; Sal 96,5); e se il Salmo 14 recita: «lo stolto ha detto nel suo cuore: non c’è Dio», tale negazione probabilmente non riguarda il piano ontologico, estraneo al mondo ebraico, ma piuttosto l’incredulità nell’intervento di Dio nelle vicende personali e storiche del popolo (cfr. Ger 5,12). La costituzione Dei Filius, esprime la preoccupazione che l’ateismo, in particolare sotto la forma del razionalismo, sia capace di corrompere, ben più che le dottrine antiche e le eresie medievali, la nozione di Dio come Essere Supremo, Creatore e Legislatore di tutte le cose. A tale proposito, riconoscendo che esso può assumere sia una forma speculativa e dottrinale, come adesione dell’intelligenza alla negazione di Dio, sia di tipo pratico, sia la forma di una rottura, nella vita personale, di ogni rapporto con Dio, la Dei Filius condanna tutte quelle dottrine filosofiche, prodotto della modernità, le quali ne hanno costituito il supporto: il materialismo, che «non si vergogna di affermare che non esiste niente altro al di fuori della materia» (DH 3022); il panteismo, che «dice che la sostanza o l’essenza di Dio e di tutte le cose è una e la medesima» (DH 3023); l’emanatismo e l’immanentismo, che «dice che le cose finite, sia corporali che spirituali, sono emanazione della sostanza divina» (DH 3024), operando così un riferimento implicito, ma chiaro, all’immanentismo di Hegel e al panteismo emanazionista di Schelling.
2. La diagnosi della Gaudium et spes. Ad un secolo di distanza, la costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II (7.12.1965) si pone, nei confronti dell’ateismo, in un’ottica nuova, non considerandolo più solo come un fenomeno filosofico che riguarda le concezioni del mondo e di Dio, ma come un fenomeno storico e religioso che riguarda la situazione esistenziale dell’uomo nel mondo e in rapporto con Dio (cfr. nn. 19-22). Ciò che preoccupa ora la Gaudium et spes, non è soltanto la negazione di Dio come Essere Supremo, ma anche il fatto che il rifiuto di Dio si traduca in negazione dei valori dell’uomo, come di fatto è avvenuto nell’ateismo moderno e contemporaneo. Con la Gaudium et spes la riflessione della Chiesa sull’ateismo passa dal piano metafisico a quello assiologico. Emblematica, in questo senso, la condanna che pochi anni prima la Mater et magistra (1961) di Giovanni XXIII dirigeva alle “ideologie” e ai “sistemi” che proponevano una soluzione esclusivamente terrena ai problemi dell’uomo e vedevano nella religione — che in nome del mondo futuro avrebbe trascurato i problemi del presente — un ostacolo alla liberazione dell’uomo dalla miseria. In merito al contesto storico-sociale in cui aveva avuto sviluppo il comunismo, il documento operava un’importante distinzione fra “ideologia atea” e “realtà storica”, aprendo la strada alla riflessione proposta dalla Gaudium et spes, nella quale il fenomeno ateismo non viene semplicemente identificato con una filosofia, o con una ideologia, ma considerato in tutto il suo spessore storico, nel quale confluiscono fattori diversi ed anche contrastanti, che vanno decifrati e interpretati. «L’ateismo, considerato nel suo insieme, non è qualcosa di originario, bensì deriva da cause diverse, e tra queste va annoverata anche una reazione critica contro le religioni, anzi in alcune regioni, specialmente contro la religione cristiana» (n. 19).
Tenendo conto della vastità del fenomeno, la Gaudium et spes segnala che l’ateismo «va annoverato fra le cose più gravi del nostro tempo», conferma la condanna pronunciata dalla Dei Filius nei confronti della negazione filosofica di Dio, e fa una diagnosi delle sue diverse forme: ateismo sistematico, ateismo agnostico, indifferenza religiosa, ateismo pratico, umanesimo prometeico, e infine l’ateismo come rifiuto del male nel mondo. Ma si sofferma soprattutto sul tema delle cause che hanno generato l’ateismo, le quali vengono individuate in motivazioni esistenziali e storiche, più che in ragioni teoriche. È la nuova situazione dell’uomo nel mondo, un uomo imbevuto di spirito critico e di razionalismo, e di una comprensione di sé come valore assoluto, che rende inutile “l’ipotesi Dio”, ipotesi tipica di una fase pre-critica e pre-scientifica dell’umanità; così come l’acutizzarsi della coscienza morale sembrerebbe rendere incompatibile l’esistenza di Dio di fronte alla presenza del male nel mondo.
Importante novità della Gaudium et spes, è anche l’approfondimento della responsabilità dei credenti nel sorgere dell’ateismo. Infatti, «nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (n. 19). Il documento non intende fermarsi ad una diagnosi dell’ateismo, ma ne cerca le ragioni più profonde celate nel cuore dell’uomo e desidera indicarne una terapia (cfr. nn. 20-21). E poiché queste ragioni vanno cercate sovente in una erronea visione di Dio considerato antitetico all’uomo affermato come valore, la Chiesa chiarisce il vero messaggio del Vangelo di fronte a quelle obiezioni forti alla radice dell’ateismo moderno (vedi supra, III): Dio non è il rivale dell’uomo, ma viceversa è Colui che vuole la piena realizzazione dell’uomo, fino ad elevarlo alla dignità di figlio di Dio; in secondo luogo, la speranza escatologica non si pone in contrasto con l’impegno terreno, ma anzi lo vivifica, lo sostiene e lo rinnova. Il Dio della Rivelazione cristiana non è il rivale dell’uomo, ma il fondamento, il significato e il valore di tutto ciò che eleva l’uomo, e non lo aliena dagli impegni terreni, ma anzi lo motiva con più forza in tutti i compiti della sua vita. Per questo all’ateismo assiologico, che si fonda sull’opposizione tra il “valore uomo” e Dio, la Chiesa rivolge un invito cortese «a voler prendere in considerazione il Vangelo di Cristo con animo aperto», perché il Vangelo di Cristo non è in contraddizione, ma in armonia «con le aspirazioni più segrete del cuore umano». È infatti Cristo che «rivela l”uomo all’uomo» e solo in Lui egli scopre «la sua altissima vocazione» (n. 22). Anche i terribili enigmi dell’esistenza, come la sofferenza, il male e la morte, trovano in Cristo significato e superamento definitivo. Alla sfida dell’ateismo umanistico la Gaudium et spes contrappone la testimonianza del Dio incarnato in Cristo e dei valori di libertà, di comunione, di giustizia che essa comporta, perché «chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa pure più uomo» (n. 41). La terapia per l’ateismo consiste pertanto in una «esposizione adeguata della dottrina della Chiesa», e nell'«autenticità della testimonianza di vita dei credenti» (n. 21). Invitando gli atei a prendere in considerazione il Vangelo di Cristo, la Chiesa invita anche i credenti a distinguere l’errore dall’errante, l’ateismo dagli atei, con i quali occorre instaurare un dialogo costruttivo. Ciò comporta, oltre alle necessarie considerazioni filosofiche e teologiche sull’ateismo, anche un rinnovamento della pastorale dell’ateismo e della catechesi.
Infine, per quanto concerne il ruolo del pensiero scientifico (vedi supra, IV.3), ad esso non vengono imputate specifiche responsabilità. Semmai è nell’uso ideologico della scienza o in un suo impiego strumentale e spersonalizzante che l’uomo può incontrare il pericolo di seduzioni intellettuali e di false sicurezze, finendo con lo snaturare il senso della scienza stessa. Così il Concilio ricorda che «molti, oltrepassando indebitamente i confini delle scienze positive, o pretendono di spiegare tutto solo da questo punto di vista scientifico, oppure al contrario non ammettono più alcuna verità assoluta» (n. 19). E poco più avanti, nel riferirsi all’ateismo sistematico di coloro che considerano l’uomo «unico artefice e demiurgo della propria storia», segnala che «può favorire una tale dottrina quel senso di potenza che l'odierno progresso tecnico immette nell'uomo» (n. 20). Più articolato, ma sostanzialmente analogo, è l’esame che viene offerto nella sezione del documento conciliare dedicata al rapporto fra fede e cultura: «Certo, l'odierno progresso delle scienze e della tecnica, che in forza del loro metodo non possono penetrare nelle intime ragioni delle cose, può favorire un certo fenomenismo e agnosticismo, quando il metodo di investigazione di cui fanno uso queste scienze, viene innalzato a torto a norma suprema di ricerca della verità totale. Anzi, vi è il pericolo che l'uomo, troppo fidandosi delle odierne scoperte, pensi di bastare a se stesso e più non cerchi cose più alte. Questi fatti deplorevoli però non scaturiscono necessariamente dalla odierna cultura, né debbono indurci nella tentazione di non riconoscere i suoi valori positivi» (n. 57). L’orizzonte di riferimento è sempre quello di un ampio raggio esistenziale e personalista: né la scienza viene demonizzata, né si tace l’uso indebito che l’uomo può farne.
Le indicazioni del Concilio Vaticano II saranno sviluppate in diverse sedi ecclesiali e magisteriali. Accanto al lavoro di organismi della Santa Sede come il Segretariato per il dialogo con i non credenti, poi confluito nel Pontificio Consiglio per i non credenti e infine nel Pontificio Consiglio della Cultura (progressivamente raccolto nelle pubblicazioni periodiche “Athéisme et dialogue”, “Athéisme et foi” e “Culture et foi”), va ricordato il crescente spazio dedicato al tema dell’ateismo, a partire dagli anni 1970, nella catechesi e nella pastorale, a livello di documenti preparati sia dalle chiese locali che dalla Chiesa universale.
3. Aspetti del magistero di Giovanni Paolo II. Nell’enciclica Dominum et vivificantem (1986), dedicata alla persona divina dello Spirito Santo, Giovanni Paolo II torna a sottolineare la radice materialista dell’ateismo, sebbene nel contesto di un’esposizione del rapporto fra materia e spirito. «Anche se non si può parlare dell'ateismo in modo univoco né si può ridurlo esclusivamente alla filosofia materialistica, dato che esistono varie specie di ateismo e forse si può dire che spesso si usa tale parola in senso equivoco, tuttavia è certo che un vero e proprio materialismo, inteso come teoria che spiega la realtà e assunto come principio-chiave dell'azione personale e sociale, ha carattere ateo. L'orizzonte dei valori e dei fini dell'agire, che esso delinea, è strettamente legato all'interpretazione come “materia” di tutta la realtà. Se esso parla a volte anche dello “spirito e delle questioni dello spirito”, per esempio nel campo della cultura o della morale, ciò fa soltanto in quanto considera certi fatti come derivati (epifenomeni) dalla materia, la quale secondo questo sistema è l'unica ed esclusiva forma dell'essere» (n. 56). L’attenzione rivolta alle conseguenze atee del materialismo storico-dialettico, nella sua forma sistematica teorizzata e realizzata dal marxismo, sarà più tardi ripresa nella Centesimus annus (1991), ove l’errore di tale ideologia viene qualificato non solo sul piano teoretico, ma anche su quello antropologico, sociale ed esistenziale (cfr. nn. 13-14).
Una significativa interpretazione dell’ateismo, delle sue ragioni filosofiche ma soprattutto delle sue motivazioni storiche, religiose e teologiche, viene offerta da Giovanni Paolo II in occasione di alcune riflessioni sulle radici cristiane della cultura europea (cfr. Discorso al Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, Roma, 6.10.1982; Discorso nella sede della Comunità Europea, Bruxelles, 20.5.1985). Nel ricordare che l’epoca moderna è stata segnata da innumerevoli sviluppi sul piano del progresso umano, tecnico e civile, si constata al tempo stesso che diverse correnti di pensiero filosofiche e ideologiche screditano l’adesione alla fede e conducono a un sospetto su Dio, un sospetto che rimbalza sull’uomo stesso, privandolo di una piena coscienza della ragione di vivere: l’uomo contemporaneo viene così tentato dal dubbio sul senso della vita, dall’angoscia e dal nichilismo (cfr. Insegnamenti, VIII,1 (1985), p. 1582). Si fa dunque strada la domanda più importante: perché hanno storicamente aderito all’ateismo proprio le culture di quei paesi europei che sono state permeate dalla luce del Vangelo? Non si può non riconoscere che «le crisi dell’uomo europeo sono le crisi dell’uomo cristiano. Le crisi della cultura europea sono le crisi della cultura cristiana»; anzi: «ancor più profondamente, possiamo affermare che queste prove, queste tentazioni e questo esito del dramma europeo non solo interpellano il Cristianesimo e la Chiesa dal di fuori, come una difficoltà o un ostacolo esterno da superare nell’opera di evangelizzazione, ma in un senso vero sono interiori al Cristianesimo e alla Chiesa. L’ateismo europeo è una sfida che si comprende nell’orizzonte di una coscienza cristiana» (Insegnamenti, V,3 (1982), p. 693). Siamo qui di fronte ad una svolta interessante nell’interpretazione dell’ateismo da parte del magistero ecclesiale: non più come fenomeno esterno, ma come fenomeno interno alla stessa storia del cristianesimo. L’ateismo viene considerato come una tentazione tipicamente cristiana, in quanto appartenente non solo alla filosofia, ma alle prove esistenziali del cammino spirituale del cristiano e della Chiesa nel mondo e nella storia: «Scopriremo, forse non senza meraviglia, che le crisi e le tentazioni dell’uomo europeo e dell’Europa, sono crisi e tentazioni del Cristianesimo e della Chiesa in Europa […]. Se l’ateismo è una tentazione della fede, sarà con l’approfondimento e la purificazione della fede che esso sarà vinto» (ibidem, p. 694). L’ateismo appare qui come la grande prova spirituale nel cammino non dell’uomo pagano, ma del cristiano. È questo forse il punto più avanzato dell’interpretazione del fenomeno dell’ateismo da parte della Chiesa: una grande prova spirituale, riservata alla cristianità soprattutto europea, per purificarla e condurla ad un incontro più autentico e vivo con il Dio di Gesù Cristo.
L’enciclica Fides et ratio (1998), infine, nella sua analisi della storia della filosofia moderna e contemporanea, individua il fondamento teorico della non credenza nella «separazione tra la fede e la ragione filosofica» (cfr. nn. 45-48). Dopo aver stigmatizzato gli errori dell’eclettismo, dello storicismo, dello scientismo e del pragmatismo (cfr. nn. 86-89), dedica maggiore attenzione al rapporto fra ateismo e nichilismo, aspetto anch’esso della perdita simultanea di Dio e della verità sull’uomo (cfr. n. 90). Pur riconoscendo l’impossibilità di ridurre ad un quadro unitario le visioni filosofiche moderne e contemporanee, l’enciclica afferma che «le correnti di pensiero si richiamano alla post-modernità meritano una adeguata attenzione» (n. 91). Tali correnti infatti spingono non verso l’autonomia della ragione, resa impossibile dall’esito fallimentare del razionalismo moderno, ma verso il recupero di un rinnovato rapporto della ragione filosofica con la fede, in un circolo ermeneutico tra ragione e fede che permetta alla ragione filosofica di essere fecondata dalle verità della Rivelazione. Applicando queste analisi all’ateismo, che è stato il frutto più emblematico della ratio separata della modernità, la Fides et ratio propone come terapia la retta comprensione della Rivelazione, che ancora oggi è la stella di orientamento verso la verità di Dio, per le filosofie e le culture di Oriente e di Occidente, oltre l’“eclissi di Dio” nella modernità.
Documenti della Chiesa Cattolica correlati:
Concilio Vaticano I, DH 3021-3025; Pio XI, Divini Redemptoris, EE 5, 1197-1280; Giovanni XXIII, Mater et magistra, EE 7, 426-436; Paolo VI, Ecclesiam suam, EE 7, 810-816; Gaudium et spes, 19-21; Segretariato per il Dialogo con i non credenti, Il dialogo con i non credenti, 28.8.1968, EV 3, 619-657 e Studio dell'ateismo e formazione al dialogo, 10.7.1970, EV 3, 2640-2667; Giovanni Paolo II, Discorso al Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, Roma, 6.10.1982, Insegnamenti V,3 (1982), pp. 689-695; Redemptor hominis, 15-17; Dominum et vivificantem, 56; Centesimus annus, 13-14; Fides et ratio, 45-48, 60, 90-91.
Bibliografie sull'ateismo sono presentate in G. GIRARDI (a cura di), L'ateismo contemporaneo, 4 voll., SEI, Torino 1967-1970: I: L'ateismo nella vita e nella cultura contemporanea; II: L'ateismo nella filosofia contemporanea: correnti e pensatori; III: L'ateismo nella filosofia contemporanea: i grandi problemi; IV: Il Cristianesimo di fronte all'ateismo; E. CORETH, J.B.LOTZ (a cura di), Atheismus kritisch betrachtet. Beitrage zum Atheismusproblem der Gegenwart, Wewel, München-Freiburg 1971; P. VANZAN, G. BASSO, Bibliografia italiana della teologia della secolarizzazione e della "morte di Dio", "Rassegna di Teologia" 2 (1970), pp. 120-141; 3 (1972), pp. 195-213; 4 (1972), pp. 264-287; G. STEIN, God pro and con: a Bibliography of Atheism, Garland, New York 1990; M. WINIARCZYK, Bibliographie zum antiken Atheismus, R. Habelt, Bonn 1994.
Aspetti storici dell'ateismo e studi su autori: A. DRACHMANN, Atheism in Pagan Antiquity, London-Copenhagen 1922; H. LEY, Studien zur Geschichte des Materialismus im Mittelalter, Berlin 1959; H. PFEIL, Atheistische Humanismus der Gegenwart, München 1961; G. SIEGMUND, Storia e diagnosi dell'ateismo, Paoline, Roma 1961; H. LEY, Geschichte der Aufklärung und des Atheismus, 5 voll., Deutscher Verlag der Wissenschaften, Berlin 1966-1989; A. CAPIZZI, Dall'ateismo all'umanesimo, Ed. dell'Ateneo, Roma 1967; R. COFFY, Dio degli atei: Marx-Sartre-Camus, Paoline, Modena 1967; M. DANSEREAU, Freud et l'athéisme, Desclée, Paris 1971; P. MICCOLI , Il problema del male e dell'ateismo in A. Camus, Paoline, Alba 1971; R. CAPORALE, A. GRUMELLI (a cura di), Religione e ateismo nelle società secolarizzate. Aspetti e problemi della cultura della non credenza, Il Mulino, Bologna 1973; A. ALESSI, L'ateismo di Feuerbach. Fondamenti metafisici, LAS, Roma 1975; O. TODISCO (a cura di), Marx e la religione, Città Nuova, Roma 1975; P. EVDOKIMOV, Dostoevskij et le problème du mal, Desclée, Bruges-Bruxelles-Paris 1978; P. MICCOLI, Sul sentiero degli atei, L.I.E.F., Vicenza 1981; G. COTTIER, L'ateismo del giovane Marx: le origini hegeliane, Vita e Pensiero, Milano 1981; R. GUARDINI, La fine dell'epoca moderna (1951), Morcelliana, Brescia 1984; B. WELTE, Dal nulla al mistero assoluto, Marietti, Torino 1985; M.J. BUCKLEY, At the origins of modern atheism, Yale Univ. Press, New Haven 1987; P. VALADIER, Nietzsche e la critica radicale del cristianesimo, Augustinus, Palermo 1991; G. MINOIS, Storia dell'ateismo, Editori Riuniti, Roma 2000; R. BODEI, I senza Dio. Figure e momenti dell'ateismo, Morcelliana, Brescia 2001.
Fra i principali studi sull'ateismo: C. FABRO, Dio, Studium, Roma 1953; E. BORNE, Dieu n'est pas mort. Essai sur l'athéisme contemporain, Fayard, Paris 1959; J. LACROIX, Le sens de l'athéisme moderne, Tournai-Paris 1961; R. GUARDINI, Fenomenologia e teoria della religione, in Scritti filosofici, vol. II, Milano 1964; M.F. SCIACCA, Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale, Marzorati, Milano 1964; R. VERNEAUX, Leçons sur l'athéisme contemporain, Téqui, Paris 1964; J. GIRARDI, J.-F. SIX, L'athéisme dans la vie et la culture contemporaine, Desclée, Paris 1968; J. MARITAIN, Il significato dell'ateismo contemporaneo (1949), Morcelliana, Brescia 19672; N. DALLAPORTA, V. MATHIEU, V. MELCHIORRE (a cura di), Il senso dell'ateismo contemporaneo, Patron, Bologna 1967; J. LACROIX, Athéisme et sens de l'homme, Cerf, Paris 1968; C. FABRO, Introduzione all'ateismo moderno, 2 voll., Studium, Roma 19692; G. MORRA, Dio senza Dio. Ateismo, secolarizzazione, esperienza religiosa, Patron, Bologna 1970; M.F. SCIACCA (a cura di), Con Dio e contro Dio, 2 voll., Marzorati, Milano 1972; C. TRESMONTANT, I problemi dell'ateismo, Paoline, Roma 1973; C. FABRO, L'uomo e il rischio di Dio, Studium, Roma 1975; H. DE LUBAC, Il dramma dell'umanesimo ateo (1945), Morcelliana, Brescia 1978; A. GRUMELLI ET AL. (a cura di), Diagnosi dell'ateismo contemporaneo, Urbaniana University Press - Paideia, Roma-Brescia 1980; G. COTTIER (a cura di), L'ateismo, natura e cause, Massimo, Milano 1981; J. MARITAIN, Ateismo e ricerca di Dio, Massimo, Milano 1982; P. RICOEUR, Religione, ateismo e fede, in Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1982, pp. 455-482; E. GILSON, L'ateismo difficile (1970), Vita e Pensiero, Milano 1983; E. GILSON, Dio e la filosofia (1941), Massimo, Milano 1984; H. DE LUBAC, Ateismo e senso dell'uomo, in La Rivelazione divina e il senso dell'uomo, Jaca Book, Milano 1985, pp. 197-290; M. BUBER, L'eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia (1953), Edizioni di Comunità, Milano 1990; A. DEL NOCE, Il problema dell'ateismo (1964), Il Mulino, Bologna 19904; S. PALUMBIERI, L'ateismo e l'uomo, Dehoniane, Napoli 1986; A. TORNO, Senza Dio? Due secoli di riflessioni tra speranza e negazione, Mondadori, Milano 1995; L. KOLAKOWSKI, Se non esiste Dio (1982), Il Mulino, Bologna 1997; A.M. TRIPODI, L'ateismo verso il Terzo Millennio, Urbaniana Univ. Press, Roma 2001.
Dialogo con l'ateismo ed altri studi: P. VEUILLOT (a cura di), L'ateismo, tentazione del mondo, risveglio dei cristiani?, SEI, Torino 1965; M. LELONG , Pour un dialogue avec les athées, Cerf, Paris 1965; G. DE ROSA , Il dialogo con gli atei, Stella Matutina, Roma 1965; G. GIRARDI, Credenti e non credenti per un mondo nuovo, Firenze 1969; L. BOGLIOLO, Ateismo e Cristianesimo. Confronto dialettico, Paoline, Roma 1971; C. NIGRO, Ateismo, teologia e dialogo, Pont. Univ. Lateranense - Città Nuova, Roma 1971; J. GALOT , Il mistero della sofferenza di Dio, Cittadella, Assisi 1975; ISTITUTO SUPERIORE PER LO STUDIO DELL'ATEISMO (a cura di), Evangelizzazione e ateismo, Pontificia Università Urbaniana, Roma 1981; SEGRETARIATO PER I NON CREDENTI, Scienza e non credenza, "Ateismo e dialogo" 16 (1981), n. 3-4; P. POUPARD (a cura di), La Chiesa davanti alla sfida dell'ateismo contemporaneo, Piemme, Casale Monferrato 1984; V. ARAUJO ET AL., Il problema dell'ateismo. Per un acomprensione del fenomeno, Città Nuova, Roma 1986; A. BAUSOLA ET AL., Esperienza religiosa oggi, Vita e Pensiero, Milano 1986; P. POUPARD (a cura di), Scienza e fede, Piemme, Casale Monferrato 1986; A. ARDIGÒ, F. GARELLI, Valori, scienza, trascendenza, 2 voll., Fondazione Agnelli, Torino 1989-1990; G. PENZO, R. GIBELLINI (a cura di), Dio nella filosofia del Novecento, Queriniana, Brescia 1993; GIOVANNI PAOLO II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994.