È un’immagine che rimane impressa: un giovane papà che si vede mettere tra le braccia un fagottino minuscolo che piange, appena venuto alla luce. Nei gesti goffi e commossi di quell’uomo vi è tutta la cura e tutto il timore che il bimbo che ha in mano “si possa rompere”. Si rivela in quei gesti uno dei paradossi della condizione umana: siamo qualcosa di estremamente prezioso e al tempo stesso estremamente fragile.
Si sta come d’autunno, sugli alberi, le foglie. Nella sua poesia, Giuseppe Ungaretti non esprime solo la drammatica situazione dei soldati al fronte, ma anche, in qualche modo, la consapevolezza della precarietà dell’esistenza di ogni essere umano. Quasi la stessa immagine ha impiegato l’autore del salmo 103: L’uomo: come l’erba sono i suoi giorni! Come un fiore di campo, così egli fiorisce. Se un vento lo investe, non è più. La fragilità è condizione dell’umanità, fa parte del tessuto stesso del suo essere. Non è un vestito che puoi toglierti per indossarne uno più resistente. E te ne rendi conto con tanta più drammaticità quanto maggiore è la consapevolezza di te stesso, della preziosità della tua vita e di quella di coloro che ami.
“Fragilità” è parola che ha assunto nel nostro tempo una connotazione sempre più legata all’umano. È più frequente parlare di fragilità a proposito delle persone e delle loro relazioni che di fragilità come caratteristica di cose, oggetti o materiali. Forse perché, rispetto al passato, noi, uomini e donne di oggi, abituati al pensiero che ormai tutto (o quasi) si può risolvere grazie alla tecnica o alla medicina, avvertiamo più vivo il senso di fragilità quando ci imbattiamo in situazioni che sfuggono al nostro controllo. O forse perché la nostra sensibilità moderna ci rende più consapevoli del valore singolare della persona e del suo mondo di relazioni. Oggi siamo più sensibili e ci sentiamo più esposti al rischio di perdere la salute fisica, ma anche alla possibilità che qualcosa si incrini nel nostro animo, nella nostra sfera affettiva; constatiamo la fragilità delle relazioni, anche di quelle più fondamentali e arriviamo ad aver paura anche solo di sognare la felicità per non vivere nuove frustrazioni.
A ben vedere, però, il significato della parola fragilità non è vicino solo a quello di debolezza, di precarietà, di fallimento, ma confina anche con quello di sensibilità, di gentilezza, di aiuto e di cura, di condivisone e, in fondo, di amore. La fragilità, il pericolo in cui può trovarsi qualcuno che ami, ti può far vivere momenti strazianti. Ma è anche vero che talvolta è proprio il rischio di perdere qualcuno ad aprirti gli occhi e a trafiggerti il cuore facendo maturare in te un amore più profondo, strappandoti al tuo egoismo. In un libro di Fabio Rosini intitolato San Giuseppe. Accogliere, custodire e nutrire (2021) ho letto dell’esperienza di un padre il cui amore per la figlia appena nata si è acceso nel momento in cui la piccola, a pochi giorni di vita, ha avuto un attacco serio di pertosse. Egli, che fino a poco prima si sentiva, con suo rammarico, poco coinvolto nei confronti di quella bimba che era sua figlia, annota: Volai al Pronto Soccorso… Stavo lì, nella notte. E piangevo… Era in pericolo. Potevo perderla. Tutte quelle ore in bilico, lì, con il cuore straziato per questa piccolina. Per il suo dolore, per il suo pericolo. All’alba mi dissero che la crisi era superata. Stava male, ancora, ma era fuori pericolo… La presi e tornai verso casa. Mentre varcavo la porta di casa era fra le mie braccia come l’altra volta; ma stavolta era mia figlia. Era il mio cuore. Valeva tutta la mia vita. In un dolore pazzesco, ero diventato suo padre.
La fragilità può essere il terreno di crescita e di sviluppo dell’amore. Essa può generare sì insicurezza, paura, o addirittura angoscia. Ma può anche aprire in noi la “porta di comunicazione” con l’altro; può convertirsi in spinta alla cura, alla solidarietà, alla comunione. Se hai il coraggio di fare i conti con la tua fragilità, è più difficile che tu ti faccia incantare dai miti dell’individualismo e dell’efficienza (‘devi sempre essere vincente!’). Queste idee vanno molto di moda ma, chiediti: sono veramente capaci di fondare un’esistenza autenticamente umana, una convivenza amichevole e solidale? Non il rifiuto o la negazione della fragilità, ma la maturazione personale e sociale nella difficile arte di essere fragili sembra un cammino più adeguato alla dignità della persona e più capace di custodire e valorizzare le sue relazioni. Di fronte al superuomo di Nietzsche che tenta di sconfiggere la consapevolezza del nulla che minaccia l’esistenza umana affermando la propria volontà di potenza, non possiamo evitare di domandarci se non si tratti di uno sforzo titanico e disperato. L’esperienza concreta della fragilità sembra smentire un simile tentativo, rivelando che il bisogno di senso della vita, la ribellione di fronte alla sofferenza innocente, il desiderio che le persone che amiamo non ci vengano sottratte dalla morte, non possono essere acquietati o tacitati per un decreto arbitrario della nostra volontà. L’esperienza della fragilità pare piuttosto suscitare in noi la consapevolezza che esprimeva Gabriel Marcel dicendo che amare significa dire all’altro: tu non morirai.
Di fronte alla manifestazione più estrema della fragilità umana, quella della morte, non ci si può riparare tuttavia in alcuna facile consolazione. Anche la Bibbia, pur pervasa dalla sicurezza che la vita dell’uomo non è in balia di un destino cieco ma custodita da un Dio che ama e provvede, non nasconde la drammaticità dell’enigma che si apre all’uomo di fronte alla morte: Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità (Qoelet, 3,19). La morte – dice Qoelet – sembra drammaticamente assimilare il nostro destino a quello degli esseri non razionali, che non decidono, non progettano, non costruiscono e soprattutto non amano come fa l’uomo. Non è un caso che il pensiero filosofico e la riflessione religiosa siano attraversati, lungo tutta la storia, dalla domanda sul perché della sofferenza, del male e della morte. La percezione del senso di dipendenza creaturale, il bisogno di protezione, il desiderio di salvezza al di là della morte, sono indubbiamente tra le principali motivazioni del senso religioso fin dalle sue prime manifestazioni agli albori della storia umana. Segno, questo, che l’esperienza della fragilità è capace di spalancare nel cuore dell’uomo “porte” aperte non solo verso gli altri, ma anche verso l’Altro in senso trascendente.
Dal rituale per propiziare una buona caccia o un generoso raccolto, all’invocazione di protezione dalle malattie, alla preghiera per la fecondità, fino ai riti funebri che esprimono speranza in una sopravvivenza al di là della morte, sono innumerevoli le testimonianze di un senso religioso che sorge dalla propria condizione di fragilità e che si protende, invocando salvezza, verso quel Mistero che solo può donarla. Anche nell’uomo di oggi, sebbene consapevole che sono le leggi fisiche e biologiche e non esseri sovrumani a presiedere ai diversi fenomeni naturali, l’esperienza della fragilità e del limite mantiene la sua capacità di provocazione e di appello religioso. Talvolta nella forma di domanda angosciosa e incerta, di negazione o protesta sdegnata, talvolta in quella di un affidamento sofferto e fiducioso, l’uomo, anche quello di oggi, pensa o si rivolge a Dio quando si trova nella sofferenza e nella paura.
Il cristianesimo considera la fragilità della condizione umana in tutta la sua serietà. Una serietà di cui Dio stesso si fa carico, assumendola su di Sé nel momento in cui, volendo l’incarnazione del Suo Figlio, si fa uomo. L’Emmanuele (uno dei nomi di Gesù, che vuol dire “Dio-con-noi”) è frutto dell’amore solidale di Dio con la sofferenza umana. Nel dolore innocente del Figlio di Dio, ad ogni uomo è offerta consolazione nel proprio dolore; nella Sua accettazione della condanna e della morte di croce, il perdono per ogni forma di peccato e di male commesso; nella Sua “pasqua”, passaggio dalla morte alla vita della risurrezione, la promessa del superamento di ogni fragilità e la pienezza di vita nella comunione con Dio e con gli altri uomini, ormai al riparo da ogni minaccia di male e di morte. Dio non risponde al nostro interrogativo sul male e sul dolore offrendoci una spiegazione fatta di discorsi; non sale in cattedra ad insegnarci dove abbiamo sbagliato. Sceglie di essere fragile anche Lui, di soffrire come noi perché ognuno di noi possa farlo con Lui, e non più da solo. Tu e io possiamo avere Gesù di Nazaret, come compagno di viaggio nella nostra fragilità. L’annuncio cristiano che al mattino del primo giorno dopo il sabato proclama quel crocifisso come adesso Risorto, è per molti oggetto di fede, per altri un mito, o forse solo un’ipotesi. In fondo al nostro cuore sentiamo che è il fondamento di una speranza, quella che la nostra costitutiva fragilità è destinata ad essere trasfigurata, nella fiducia che l’amore e la vita siano più forti del male e della morte.