Chimica

Anno di redazione
2002

I. Introduzione - II. La specificità della chimica - III. La chimica come arte e come tecnologia - IV. Chimica e filosofia della natura - V. La chimica e la natura della vita - VI. Chimica e alchimia.

I. Introduzione

Nel XVII secolo, il meccanicismo rappresentava lo schema mentale dominante nell’approccio alla conoscenza della natura, e ad esso si deve la nascita della fisica moderna. Nel XIX secolo, questo schema si era trasformato addirittura in un “dogma”, per cui tutte le spiegazioni che non era possibile ricondurre ad un meccanismo di parti interagenti con altre parti, come in una sorta di orologio, venivano considerate inadeguate e deludenti. Non a caso, l’elettromagnetismo di Maxwell incontrò non poche difficoltà per essere compreso e accettato. Questo riduzionismo meccanicista, o “fisicalismo”, per cui si riteneva che tutto il mondo sensibile sarebbe stato spiegato, prima o poi, in termini di “atomi e quanti”, divenne un vero e proprio “credo” per molti scienziati e filosofi della scienza. Questa posizione era stata superata, di fatto, quando Kekulé ed altri scoprirono la struttura molecolare (vedi infra, III.1), ma la filosofia della scienza ha cominciato a riconoscere il superamento solo con la nascita della moderna biologia.

Poiché la chimica, lungi dall’essere un capitolo della fisica, è la scienza che coglie la natura strutturata degli enti sensibili al livello di costituzione submicroscopica della materia ordinaria (i materiali naturali e artificiali), essa è perciò la disciplina che più si presta a riconoscere le relazioni materia-forma e potenza-atto, di origine aristotelica, che la scienza meccanicista ha del tutto ignorato. Oltre a questo aspetto, la chimica ha fornito le basi per la comprensione dei meccanismi della vita e per lo studio della sua possibile origine dal non vivente. Infine, il suo ruolo centrale nell’agricoltura, nella medicina, nelle scienze ambientali e negli armamenti ne fa la disciplina che pone probabilmente i problemi più complessi e più urgenti alla riflessione sulle responsabilità della scienza e della tecnica.

 

II. La specificità della chimica

1. Chimica e fisica. L’affermazione che «la chimica è un capitolo della fisica» risulta essere un truismo se i termini «fisica» e «scienza» vengono identificati. La cosa è però tutt’altro che ovvia. Il filosofo della scienza Mario Bunge (1973) aveva già sottolineato che la chimica aveva un proprio “campo di indagine” diverso da quello della fisica, ma si può andare più in là, affermando che i quattro principali “ingredienti” della fisica e della chimica — campo di indagine, oggetto caratteristico, programma e metodo — hanno in comune soltanto il fatto che oggetto di entrambe le discipline è la natura della materia, e che la chimica accetta, così come fanno tutte le altre scienze naturali, i princìpi generali scoperti e studiati dalla fisica. Il fatto che fisica e chimica rappresentino risposte diverse a categorie di problemi differenti è già comprovato dal loro stesso sviluppo storico: basti ricordare che Newton, padre fondatore della fisica matematica, si interessò molto di alchimia, ma pare non abbia mai pensato che si potesse fare per quest’ultima lo stesso lavoro che si era fatto per la fisica. Solo con l’avvento della meccanica statistica e della meccanica quantistica i fisici avevano nutrito la convinzione — soprattutto per quanto riguarda la chimica-fisica, più che la chimica organica — che la chimica sarebbe stata ricondotta a un capitolo della fisica. Una posizione meno radicale fu quella di Heisenberg, che sostenne che la fisica e la chimica, insieme, avevano condotto alla meccanica quantistica, in quanto la chimica aveva dato a questo processo, attraverso la sua concezione dell’atomo, un suo contributo originale. Questo è senz’altro vero per quanto riguarda i rapporti tra chimica e meccanica quantistica, ma forse egli dimenticava che la chimica non è propriamente la scienza degli atomi, bensì la scienza delle molecole.

La fisica viene considerata, di norma, la “regina delle scienze”, in quanto va alla ricerca delle leggi naturali fondamentali e ha offerto la base teorica ad altre scienze, come l’astrofisica e la cosmologia. All’estremo opposto troviamo la biologia, il cui metodo e oggetto sono completamente differenti: essa studia gli organismi in quanto viventi, le loro diversità e i loro incredibilmente complicati modelli di comportamento; ne studia le parti costituenti, arrestandosi nel suo cammino analitico alle grandi molecole della vita, la natura chimica delle quali non è di sua diretta pertinenza. La chimica si è trovata a fornire il collegamento tra la fisica e la biologia, quando ha scoperto che non solo la vita possedeva una rete coordinata di reazioni chimiche, organizzata e finalizzata, ma addirittura i caratteri ereditari dell’organismo vivente erano scritti all’interno di un tipo di molecole assai speciali, quelle del DNA. Tuttavia è stato ancora un chimico — il premio Nobel Ilya Prigogine (n. 1917) — a scoprire che l’enigmatica differenza tra i viventi e i sistemi non viventi non risiede in una misterioso principio (come volevano i vitalisti) o in uno speciale campo di forze, quanto nel fatto che i viventi sono sistemi auto-organizzati in una condizione di “non equilibrio” termodinamico, capaci di preservare un’individualità propria, in virtù di una rete di reazioni chimiche interdipendenti, mediante un continuo scambio di materia, energia e informazione con l’ambiente.

2. Il linguaggio della chimica. Ogni disciplina scientifica ha un linguaggio proprio. Una persona che non sia esperta nel linguaggio della propria attività di ricerca difficilmente potrà fare scienza andando al di là di un mero compiere esperimenti che poi altri utilizzeranno ed interpreteranno, in quanto il linguaggio è uno strumento essenziale anche per poter descrivere correttamente un’osservazione scientifica. Ogni disciplina necessita di un proprio sistema di “parole” e di “frasi”. La fisica, in particolare, utilizza, in luogo di “frasi”, delle equazioni matematiche che contengono dei “simboli” che rappresentano, direttamente o indirettamente, delle quantità misurabili. Se la chimica fosse un capitolo della fisica sarebbe certamente suscettibile di “formalizzazione” secondo il linguaggio matematico. Questa fu, in effetti, la convinzione del grande chimico russo del Settecento (che fu anche filologo e poeta) L. Lomonosov (cfr. Elementa chymiae mathematica, 1741), che fu fra i precursori della teoria cinetica dei gas. La posizione di Lomonosov non deve sorprendere in quanto egli visse ben prima della nascita e dello sviluppo della chimica organica. Anche al giorno d’oggi la chimica quantistica, che è un ramo della chimica teorica, ha a che fare con le equazioni matematiche della meccanica quantistica, ed è un ramo della fisica-chimica, la quale a sua volta si poggia su equazioni matematiche precisamente perché rappresenta quel campo della chimica che si sovrappone alla fisica.

Qual è allora la chimica “autentica”? A modo di risposta si può menzionare la posizione di una grande chimico teorico, Crystofer K. Ingold (1893-1970). In una sua nota opera, egli espone brevemente il trattamento quantistico delle molecole, poggiandosi così sulle equazioni matematiche della fisica (cfr. Ingold, 1962); ma quando passa allo studio delle reazioni chimiche, il suo formalismo cambia completamente. Invece di utilizzare simboli che rappresentano i valori misurati di determinate quantità (e dunque suscettibili di essere trattati come numeri o insiemi di numeri), l’autore usa le “formule di struttura” delle molecole, impiegando dunque un formalismo creato dai chimici organici come estensione di quello della stechiometria classica. Cos’è dunque in realtà la “chimica”, in senso proprio? È un’arte, o una metodologia tecnica, o che cosa?

 

III. La chimica come arte e come tecnologia

1. La chimica come arte. Oggi noi chiamiamo «arte» un’attività che cerca di realizzare qualcosa che “piace”, il cui valore estetico è generalmente indipendente dal suo possibile utilizzo. Ma originariamente non era così, come suggerisce ancora la parola «artigiano»: si chiamava arte l’attività del fabbricare qualcosa, che richiedeva abilità ed esperienza accumulata nel corso di anni. Un esempio che ancora rimane vivo è l’arte della ceramica, che ha prodotto anche dei veri capolavori, ma il cui intento primario consisteva nel produrre vasi, giare e recipienti di uso quotidiano. Una certa tecnica è poi necessaria anche nell’arte come l’intendiamo oggi: regole provenienti dalla tradizione, acquisizioni dovute all’esperienza, ecc. In questa prospettiva, una scienza sperimentale — il cui programma comprende la fabbricazione di oggetti diversi, a partire da uno stesso “materiale”, attuando le potenzialità di quest’ultimo, secondo un’idea che è nella mente dello scienziato — è arte tanto quanto quella che si occupa di produrre oggetti belli da guardare. Così come gli artigiani hanno saputo produrre oggetti esteticamente pregevoli, anche nelle teorie della scienza e nella chimica, in particolare, possiamo riconoscere una sorta di bellezza (cfr. Hoffmann, 1990). In questo senso, la chimica è proprio un’arte: essa produce milioni di specie di molecole; è l’arte di costruire edifici di atomi secondo una sapiente e spesso assai difficile sequenza di procedure. La fisica ha scoperto e riprodotto le trasformazioni della materia che la natura compie nelle stelle, ma la chimica fa qualcosa di diverso: essa produce innumerevoli forme di materia che fino ad un dato momento solo la natura poteva realizzare, facendole diventare parte dell’ambiente della vita quotidiana. Ancor più, i chimici mettono insieme gli atomi e, operando in un normale laboratorio, mediante le regole della valenza chimica che applicano secondo ricette “misteriose”, ottengono le molecole più incredibili. Con gli elementi più insoliti, quali il renio, il palladio, il vanadio, il titanio, ecc., eguagliano o perfino sorpassano in bellezza molte delle più ricercate pietre preziose: topazi, rubini, ametiste, smeraldi..., che la natura produce direttamente. Acquisendo una simile arte del fabbricare molecole i chimici sono giunti a livelli molto elevati, fino a riprodurre non pochi aspetti di quelli delle molecole impiegate dalla natura negli esseri viventi. Questa caratteristica, che emula la natura a livello atomico con metodi scientifici, è forse unica nell’ambito delle scienze naturali. Non va però dimenticato che la “creatività” della chimica ha reso possibile anche lo sviluppo di alcuni degli ambiti più inquietanti delle manipolazioni biologiche. Operazioni chimiche possono alterare il codice genetico del DNA fino a generare in nome della scienza delle autentiche mostruosità.

La chimica si occupa dunque delle molecole, che sono degli oggetti dalla natura particolare, ed è stata così costretta, in qualche modo, a riscoprire una dimensione dimenticata della realtà sensibile: quella della complessità intesa come problema delle parti e del tutto (vedi infra, IV.4). Le molecole vennero inizialmente definite come il prodotto ultimo di una suddivisione ripetuta, mediante operazioni fisiche, delle sostanze chimiche “pure”; dove per “operazioni fisiche” s’intendono quelle che comportano energie dell’ordine di quella che serve per far bollire l’acqua, e per sostanze “pure” quei materiali omogenei che non possono essere separati, con operazioni fisiche, in altri materiali omogenei. Di fatto, le molecole sono risultate così piccole da non poter essere osservate, neppure grazie all’ingrandimento dei più potenti microscopi che utilizzano la luce ordinaria (microscopi ottici). Così, alla condizione di non essere separabili con operazioni fisiche si è sostituita quella di essere strutture “stabili in condizioni ordinarie”, ma la definizione è rimasta sostanzialmente la stessa. Ciò che è emerso, infine, è il fatto che queste minutissime parti di una sostanza chimica hanno una proprietà fondamentale che le caratterizza, cioè, appunto, la loro “struttura”.

In linea di principio la possibilità di esistenza e le proprietà delle molecole possono essere “predette”, nei loro aspetti quantitativi a partire dalle proprietà delle particelle costituenti (atomi, ovvero nuclei ed elettroni di opportuno numero); questo ha spinto a ritenere che le molecole non siano altro che un insieme di nuclei ed elettroni e che, quindi, il riduzionismo fisicalista sia in fondo corretto. Ma la situazione non è così semplice. L’idea che le molecole siano degli aggregati di atomi fu introdotta, com’è noto, da John Dalton (1766-1844) nel 1808 e per i successivi cinquant’anni si pensò che fosse sufficiente richiedere che tali aggregati obbedissero alle leggi allora conosciute come «leggi delle proporzioni», nonostante che Amedeo Avogadro (1776-1856) avesse scoperto nel 1811 che, in molti casi, si trattava di particelle dotate di individualità, capaci di permanere da sole nel vuoto. In questa prospettiva Dalton non era particolarmente interessato alla possibilità che gli atomi degli elementi costituenti fossero disposti in un certo ordine o secondo una certa configurazione geometrica. Ma cinquant’anni dopo, la nascita della chimica organica costrinse a fare un passo in più.

Fu il chimico organico Friedrich August von Kekulé (1829-1896) a scoprire la “struttura” molecolare: la molecola è analoga a un insieme di sferette (gli atomi) collegate secondo una configurazione caratteristica da delle asticciole (i legami), il cui numero è proprio di ciascun tipo di atomo (la valenza) e la cui lunghezza dipende dalla coppia di atomi in questione (cfr. Del Re, 1996). L’analogia con il modello a “sferette e asticciole”, naturalmente, non è strettissima: la sua principale conseguenza sta nel consentire di attribuire ad una molecola delle caratteristiche che corrispondono a quelle della struttura del suo modello; così che un diverso modo di collegare tra loro gli atomi, e una loro diversa disposizione nello spazio, corrispondono a molecole diverse e quindi a sostanze differenti (isomeri). Sembra evidente, perciò, che la chimica ci offre una visione completamente nuova della materia, introducendo fatti, regole e concetti del tutto nuovi che non si possono ricavare come semplici deduzioni dalle equazioni della fisica (anche se queste le contengono, per così dire, in potenza).

2. La chimica come tecnologia. La chimica non presenta semplicemente le caratteristiche di un’arte, ma anche quelle di una vera e propria tecnologia in senso moderno, con diversi tipi di ricadute che, inevitabilmente, presentano aspetti positivi come aspetti negativi. Possiamo menzionarne qualcuno. Se non vi fossero fertilizzanti chimici e pesticidi l’intera agricoltura ripiomberebbe ai livelli di cento anni fa; molti prodotti come i lubrificanti artificiali e la maggior parte dei medicinali non sarebbero disponibili; le stesse comunicazioni e la distribuzione dell’energia ne risentirebbero irreparabilmente non disponendo dei materiali necessari per i cavi elettrici, i magneti, i dispositivi elettronici, e non sarebbe possibile la purificazione di sostanze naturali indispensabili alla medicina e alla stessa sopravvivenza. D’altro canto, l’uso irresponsabile di certe sostanze chimiche, a cominciare dal DDT, ha prodotto effetti negativi gravi come l’inquinamento dell’ambiente, la produzione di esplosivi, di gas venefici e armi chimiche, di droghe. Ciò ha spesso condotto i mass media a fornire una visione di questa disciplina scientifica nella quale l’aggettivo «chimico» è divenuto sinonimo di «innaturale», pericoloso per la salute e per l’ambiente. In realtà, oltre ai vantaggi già ricordati, la chimica è anche necessaria per porre rimedio a molti danni che l’uomo può causare all’ambiente e a se stesso, fino al restauro di dipinti e di monumenti, o alla produzione di cosmetici.

La chimica, come altri ambiti della scienza, pare trovarsi dunque di fronte ad un’aporia, ad una situazione contraddittoria: la simultanea possibilità di dare origine a qualcosa di buono o di cattivo. Si tratta di una problematica che rientra propriamente nell’ambito di una etica del lavoro scientifico e, più in generale, in quello che alcuni chiamano umanesimo scientifico. Ci limitiamo a segnalare che tale ambivalenza rimanda sempre alla responsabilità dello scienziato, la cui attività non può considerarsi impersonale o neutra: una responsabilità di fronte alla comunità scientifica, di fronte alla società, di fronte a Dio. È, in fondo, come se il Creatore avesse voluto, per qualche ragione, che gli uomini, a partire da preciso momento storico, scoprissero le leggi che regolano le invisibili trasformazioni che avvengono nella materia. È come se, grazie a ciò, l’uomo avesse ricevuto il potere di “imitare” il Creatore, giungendo a conoscere ed utilizzare con successo quanto gli antichi (forse non a torto) consideravano essere le ricette ed i procedimenti segreti di un Divino Artefice. Ma il Creatore non ha posto limiti — nel rispetto della nostra libertà — all’uso dei poteri che la scienza ora mette a nostra disposizione: la capacità di “imitarlo” reca con sé la responsabilità di compiere il bene e di evitare il male.

 

IV. Chimica e filosofia della natura

1. La questione dell’esistenza di atomi e molecole. In questa sezione vogliamo dare maggiore spazio ad alcune questioni propriamente epistemologiche. In questo senso, un problema rilevante nell’ambito della chimica è quello che si può condensare nella classica domanda: «gli atomi e le molecole esistono o sono una pura ipotesi?». È legittimo dubitare dell’esistenza di particelle così piccole da non risultare visibili neppure con un potente microscopio ottico. Oggi la loro esistenza è data per scontata, ma nel passato illustri scienziati non la accettarono come reale. Ernst Mach (1836-1916), il grande fisico austriaco, negò per molto tempo l’esistenza degli atomi e Wihlelm Ostwald (1853-1932), grande chimico-fisico tedesco, ebbe lo stesso atteggiamento nei confronti delle molecole. Entrambi erano d’accordo sul fatto che tutto avveniva “come se” atomi e molecole esistessero, ma questo non costituiva una prova sufficiente della loro reale esistenza. Al giorno d’oggi pochi scienziati si riconoscerebbero nella loro posizione, dal momento che abbiamo acquisito un numero sempre maggiore di nuove informazioni in proposito e siamo in grado di dire molte cose sulle proprietà delle molecole, a cominciare dalla loro forma, dal loro peso, dalle possibili deformazioni che possono subire, ecc. Tuttavia, resta vero, in fondo, che si tratta di entità che non è possibile toccare con mano… Questa difficoltà ha rappresentato a volte una tentazione nei confronti di varie “scienze dello spirito”, favorendo un’impostazione poco acconcia del dialogo fra pensiero scientifico da parte, e filosofia o teologia dall’altra. Alcuni autori hanno provato un certo compiacimento (soprattutto parlando delle differenze tra esseri viventi e non viventi) nel sostenere che, quando si scende a livello dei processi sub-microscopici, che sono causa delle trasformazioni della materia, tutta la scienza si riduce ad una pura costruzione mentale. Questo atteggiamento può rappresentare una posizione di comodo, quella di evitare di mettere a punto con rigore e profondità una questione epistemologica complessa.

Tra gli uomini di scienza (fatta però eccezione di non pochi matematici) il consenso sull’esistenza di atomi e molecole è ormai praticamente universale. Non avrebbe senso continuare a mantenere una posizione ancorata alla clausola del “come se” data l’evidenza schiacciante delle prove oggi disponibili. Eppure, la realtà di alcuni fatti nel mondo atomico e molecolare viene ancora rifiutata anche da alcuni studiosi, e uno di questi è proprio la struttura molecolare. Il problema merita qui un approfondimento, perché la sua risoluzione comporta un punto di vista generale sul modo di concepire l’intero universo fisico, che una scienza elaborata con mente aperta è in grado di offrirci.

Per la grande maggioranza degli scienziati la scelta più soddisfacente consiste nell’ammettere come un assioma il “realismo forte”, secondo il quale esistono cose, eventi e processi indipendenti dalla nostra esistenza e volontà, che possono essere da noi conosciuti, entro i limiti imposti dai nostri sensi e dal nostro cervello, come esistenti e distinti da altri oggetti. È conveniente aggiungere a questo assioma la concezione classica secondo la quale gli ordinari giudizi intuitivi di esistenza devono essere considerati come i referenti propri dell’analisi critica, sempre necessaria per determinare, quando occorra, a che cosa si stia applicando il giudizio di esistenza e se questo sia corretto o meno. Per parlare dell’esistenza delle molecole è essenziale una duplice classificazione delle entità in gioco. La prima riguarda la distinzione tra “enti di prima categoria” (chiamati «sostanze» nel linguaggio aristotelico), cioè oggetti capaci di esistere di per sé (lat. per se, come un albero o una molecola) ed “enti di seconda categoria” che richiedono un “portatore”, anche se, entro certi limiti, se ne può trattare come se fossero della prima categoria. Un esempio oggi familiare di enti di seconda categoria è offerto da un programma per computer. Esso esiste senza dubbio: tuttavia, molti ricercatori scientifici non lo ammettono, perché un programma non può essere separato dal suo supporto e sottoposto ad esperimenti come una cosa a sé stante. La sua esistenza indipendente, tuttavia, è dimostrata dal fatto che può essere trasferito da un computer a un altro, scritto sulla carta o su un materiale magnetico, ecc. Ci sono però degli enti appartenenti alla seconda categoria che non possono essere nemmeno copiati da un supporto a un altro, ma sono ugualmente così somiglianti al programma di un computer da non esservi alcun dubbio che abbiano un tipo di esistenza simile. Si tratta di casi particolari di “informazione”, che ricordano da vicino il rapporto che c’è tra la forma di un vaso d’argilla e l’argilla informe, o quello che esiste tra la molecola e i suoi atomi. La seconda distinzione riguarda gli enti direttamente o indirettamente accessibili all’esperienza dei sensi, che Rom Harré (1986) chiama enti di tipo R1 e R2. Con R1 egli intende quegli enti che possono essere percepiti direttamente e con R2 quelli che si ritiene esistano sulla base di un’evidenza logica e analogica, simile a quella che permette a un giudice di condannare un uomo come colpevole di un crimine, anche se non viene colto in flagrante.

2. La scoperta della struttura molecolare. Nel XVII secolo Robert Boyle (1627-1691) rilevò come, una volta accettata l’ipotesi atomica di Democrito, fosse conveniente accettare anche l’idea che debba esserci una sorta di principio architettonico operante fin dall’inizio dell’universo (cfr. The sceptical chemyst, 1661, cap. 6). Dal momento che egli si riferiva alla chimica, è chiaro che aveva l’impressione che gli atomi fossero sistemati come dei mattoni che strutturano un edificio. Ma solo dopo duecento anni, e tra accese dispute, la struttura molecolare venne riconosciuta dalla chimica, quando Kekulé si rese conto che le proprietà degli idrocarburi si potevano spiegare con l’assunzione che le loro molecole fossero analoghe a delle catene di atomi di carbonio. Dopo parecchi anni di discussioni, solo recentemente è emersa una linea di pensiero chiara in merito ai due punti seguenti.

Il primo riguarda la “realtà” della struttura molecolare. È stato riconosciuto, fin dall’inizio della filosofia, che, anche se ciò che conosciamo di una cosa è almeno una parte della sua realtà, la nostra conoscenza comporta delle rappresentazioni elaborate dalla nostra mente; e anche oggi che la scienza e la tecnica hanno condotto le nostre conoscenze al di là dei limiti del mondo direttamente accessibile ai nostri sensi, le analogie con gli oggetti del mondo sensibile continuano ad avere un ruolo fondamentale. Sembra, dunque, che dal punto di vista del realismo si debba accettare questa conclusione: quella che chiamiamo «struttura molecolare» è, in linea di principio, un’entità di seconda categoria inerente alla realtà molecolare e quindi è reale essa stessa. Si riescono poi a conoscere addirittura — per analogia e con la mediazione di un modello macroscopico al quale la nozione di struttura si applica propriamente — anche proprietà non presenti nel modello, che vengono aggiunte per ragioni logiche e in base a congetture.

Il secondo punto riguarda l’“aspetto geometrico della struttura molecolare”. Questo, a prima vista, sembrerebbe distinto, in quanto geometrico, dall’aspetto propriamente chimico, e ciò nonostante l’inevitabile accettazione delle considerazioni geometriche, quando si tratta di argomenti specifici come la teoria della tensioni di Bayer o il meccanismo dell’idrolisi alcalina. Si ha l’impressione che tale distinzione sia generalmente presente nei libri di testo classici. In effetti, come risulta chiaro dal precedente riferimento a Kekulé, l’organizzazione spaziale è stata inclusa nell’idea stessa di struttura fin dalla sua prima apparizione. Il punto di vista secondo il quale esisterebbero dei legami, simili ad asticciole, con un orientamento ben preciso nello spazio, circolava già prima del 1874, anno in cui J.H. Van’t Hoff e A.J. Le Bel fecero della configurazione spaziale delle molecole un oggetto esplicito della loro riflessione. A partire da quel momento si scoprì che, con una formula scritta, non solo si poteva descrivere la topologia molecolare — il cui corrispondente grafico era una rappresentazione della realtà, piuttosto che un semplice strumento mentale —, ma che nell’idea di struttura c’era molto di più. Si potrebbe obiettare che, in fondo, tutto quello che abbiamo in mano è solo un modello macroscopico, il modello delle “sferette e asticciole” (stick-and-ball) o delle “molle e sferette” (spring-and-ball), ma si dovrebbe, allora, rispondere, con rigore scientifico ed evidenza sperimentale a questa domanda: «perché tutti gli esperimenti danno dei risultati in accordo con l’ipotesi che le molecole abbiano una struttura corrispondente al modello, nel senso analogico appena discusso?».

3. Implicazioni filosofiche. T.F. Torrance (1992, cap. VII) ha osservato come la scienza dei nostri giorni offra degli esempi di oggetti che non si possono né vedere né toccare, a cominciare dallo spazio-tempo di Einstein. La chimica, a sua volta ci offre una ricca serie di esempi di questo genere. Conoscere l’esistenza di atomi e molecole è possibile solo attraverso una catena di inferenze. Inoltre, le molecole hanno una struttura, sebbene questa non sia visibile e tangibile non solo a causa delle piccole dimensioni delle molecole, ma anche perché la struttura molecolare non si può sottoporre agli esperimenti come un’entità separata. Tutto questo solleva seri dubbi sulla validità di una visione scientista della realtà. L’asserzione secondo cui «gli scienziati non pensano, ma osservano», come affermato ironicamente da qualcuno, si è rivelata in realtà assai poco pertinente. Quanto si è detto a proposito dell’esistenza delle molecole e della loro struttura rappresenta uno dei tanti suggerimenti alla prudenza e un invito alla revisione di certi miti, a tutto beneficio sia della scienza sia delle altre forme di conoscenza con cui la scienza intende dialogare. Riferendoci, in particolare, alla struttura molecolare, il fatto che essa esista e caratterizzi la molecola rispetto alla semplice collezione dei suoi atomi componenti, è di importanza filosofica capitale, in quanto, mutatis mutandis, dà un’indicazione per individuare ciò che distingue gli esseri viventi dai non viventi: si ha a che fare con entità di seconda categoria e con un principio che li caratterizza come sistemi integrati unitari.

Vediamo brevemente come si possano utilizzare queste considerazioni per costruire una visione del mondo fisico non riduzionista e capace di dare agli atomi e alle molecole una cittadinanza nel mondo reale. L’espressione tradizionale «mondo reale» comprende tutto quello che si può rivelare direttamente o indirettamente con i nostri cinque sensi. Come abbiamo cercato di far vedere, la chimica mostra, ad un livello del tutto elementare, che l’affermazione che tutto il mondo fisico non è altro che un insieme di “atomi e quanti” è insostenibile quanto lo è quella che aeroplani, trattori, automobili, treni e ponti non sono altro che l’insieme dei materiali con cui sono stati costruiti.

4. Livelli di complessità. Gli oggetti altamente integrati, cioè gli insiemi di parti interdipendenti che conservano nel tempo la loro interdipendenza, presentano un carattere unitario e si possono trattare come “elementari” (indivisibili) rispetto ad oggetti più complessi. La chimica ci offre degli esempi molto semplici: per il chimico un atomo è essenzialmente un componente elementare della molecola. Altri esempi sono le cellule di un tessuto o gli organi di un corpo. Si può perciò costruire una scala di “livelli di complessità”, ciascuno dei quali corrisponde a un dato tipo di oggetti. Un certo oggetto, dotato di un grado sufficiente di unitarietà si può analizzare secondo vari livelli di complessità. Per esempio, si può studiare una molecola come insieme di atomi, come insieme di elettroni e nuclei, e così via fino ai quarks. Ma sarebbe corretto affermare che la sua “realtà” coincide con ciò che essa sembra essere a ciascuno dei livelli di complessità così definiti? Certamente no: la sua “realtà” comprende tutti insieme i livelli di complessità che le competono, da quello che la considera in se stessa come un oggetto elementare, a quello che la considera come un aggregato di particelle elementari. A mano a mano che si scende lungo la scala della complessità aumenta il numero di parti in cui si può suddividere un dato oggetto, mentre il numero di proprietà prese in considerazione diminuisce. Ancora una volta, la molecola è un buon esempio: a livello atomico è considerata come un insieme di atomi, scelti tra un centinaio di possibilità (gli elementi chimici); a livello delle particelle elementari è considerata come un insieme di elettroni, neutroni e protoni, e così via. Quanto al numero delle proprietà, la cosa è invece più difficile. In linea di principio esso diminuisce: per esempio, dal momento che con gli stessi atomi si possono costruire più tipi di molecole, deve esserci un certo numero di proprietà che “scompaiono” quando una molecola viene scomposta nei suoi atomi costituenti; inoltre, dal momento che gli stessi neutroni e protoni possono formare più tipi di nuclei devono esserci altre proprietà ancora che “scompaiono” quando la molecola viene considerata al livello di complessità in cui protoni, neutroni ed elettroni sono gli oggetti elementari. Che cosa intendiamo quando diciamo che certe proprietà “scompaiono”? Intendiamo che esse diventano puramente “potenziali”, una possibilità che diviene “attuale” (in termini moderni “emerge”) quando gli oggetti elementari vengono messi insieme in un modo opportuno. Ma non solo. Quando si sale la scala verso l’alto, sono alcune delle “proprietà delle parti” a divenire irrilevanti, o almeno trascurabili, in prima approssimazione: come nel caso delle molecole la maggioranza delle proprietà nucleari, o nel caso dei processi biochimici studiati dalla biologia molecolare alcuni aspetti della struttura molecolare degli enzimi stessi.

Questi esempi semplici sono sufficienti ad illustrare come non sia possibile raggiungere una conoscenza completa di un ente complesso limitando la propria analisi ad un solo livello di complessità; e ciò significa, ancora una volta, che non si può accettare il riduzionismo. La scienza è un tutto unitario: le diverse discipline lavorano a livelli diversi di complessità, ma non possono ignorarsi reciprocamente. E ci sono buone ragioni per ritenere che neppure lo spettro completo delle scienze è sufficiente ad esaurire l’enorme ricchezza della realtà.

5. Livelli di grandezza. La “grandezza” è legata alla complessità, in quanto un alto grado di organizzazione, in un sistema fisico, richiede una struttura sufficientemente grande e articolata. Il ruolo epistemologico della “grandezza” si differenzia secondo tre livelli o gruppi di livelli. Anzitutto ci sono oggetti le cui dimensioni si collocano al livello dei sensi del nostro corpo che possono essere toccati e guardati (o odorati, uditi e magari anche gustati) senza l’ausilio di strumenti. Nel caso di un osservatore umano questi oggetti hanno grandezze variabili da quella di un corpo umano fino a quelle che sono piccole fino ai limiti del visibile. Chiameremo questo il livello della realtà di accesso diretto per l’uomo: è il livello dell’esperienza ordinaria, sulla quale si basano le nostre osservazioni immediate. Poi ci sono oggetti — come la Terra o le montagne — che ci sembra di conoscere direttamente, mentre in realtà non è così, perché ciò che percepiamo di essi (o di una parte di essi) e in modo diretto, è solo un’immagine remota intangibile, a partire dalla quale ricostruiamo il tutto. In maniera simile, pur con le debite differenze, possiamo pensare di avere una conoscenza diretta del fatto che la polvere è composta da piccoli granelli, mentre in realtà noi vediamo solo polvere. Questi sono semplici esempi di come ha proceduto la scienza moderna a partire da Galileo. Con l’ausilio del telescopio e del microscopio essa ha esteso il campo del livello di accesso diretto affidando i giudizi di realtà ad un’osservazione indiretta e all’inferenza per analogia. Ogni volta che l’analogia risulta immediata — come quella che paragona la Terra a una sfera — si suppone che un giudizio di realtà abbia lo stesso valore di uno formulato a partire dal livello di accesso diretto. Una montagna o un piccolo baco sono entità della prima categoria e non c’è bisogno di dimostrare la loro esistenza, che è considerata evidente dalla maggior parte degli scienziati e filosofi. Il caso delle entità per cui l’analogia non è immediata, è invece diverso: quando si ha a che fare con enti più piccoli il progresso scientifico ci ha abituati a considerarli come grandezze microscopiche, o sub-microscopiche, di prima classe, che agiscono come “cause”: per esempio, le malattie sono state ricondotte all’azione di particolari microrganismi. L’entusiasmo per le applicazioni di questa scoperta induce molto spesso ad allentare il rigore logico, facendo identificare questi organismi con la malattia stessa, di cui sono causa; mentre, propriamente, la malattia, anche oggi, si definisce in modo non diverso da come la definivano gli antichi Greci: un’alterazione della normale attività del corpo, cioè una modifica delle relazioni tra le parti del corpo, relazioni che, piaccia o no, esistono e sono entità di seconda categoria.

Se, come sembra, le nostre rappresentazioni mentali possono riconoscere la realtà esterna solo ad un livello diretto, la nostra conoscenza delle cose, degli eventi e dei processi ad un livello di grandezza di tipo R2 (vedi supra, n. 1), può essere solamente il risultato di argomentazioni inferenziali basate su analogie con il livello di accesso diretto, che includono sia entità della prima che della seconda categoria. Tutto ciò risulta molto evidente nel caso della chimica: quella della struttura molecolare, infatti, è stata la scoperta di un’analogia indispensabile per rendere la realtà delle molecole — che si colloca al di fuori del livello di accesso diretto — rivelabile e trattabile in termini di concetti e immagini gestibili dalla nostra mente. Dunque, ci si deve aspettare che esistano, nel mondo microscopico, degli insiemi coerenti di relazioni tra le parti di un oggetto (e in particolare una struttura) che possono essere pensate indipendentemente dal loro supporto materiale, mediante l’analogia. Ed è facile riconoscere come simili considerazioni si applichino anche ad altre realtà intangibili, come l’anima umana, considerata come «principio» (in senso aristotelico) a cui si riconduce il comportamento unitario del soggetto umano vivente nel suo insieme. Siamo in sostanza di fronte a casi in cui pare necessario supporre l’esistenza di un fondamento ontologico che favorisca la comprensione unitaria e completa di una determinata “realtà” e, nel caso della chimica, anche di ciò che comunemente viene chiamato «realtà molecolare».

 

V. La chimica e la natura della vita

La chimica ci ha rivelato come, al livello di complessità degli atomi e delle molecole, la vita è spiegabile come una rete di reazioni chimiche estremamente complicate. E ciò ha condotto molti uomini di scienza a ritenere che la vita non sia altro che un insieme di processi fisico-chimici. Questo sarebbe un dato di fatto, ammesso da tutti, ma non pare del tutto sufficiente a spiegare completamente il fenomeno “vita”. Al contrario, è assai facile citare innumerevoli insiemi di processi fisico-chimici che non sono esseri viventi. Il punto, si direbbe sta nel fatto che coloro che ammettono una visione riduttiva della vita, come la precedente, si fermano al livello di complessità della chimica, ignorando i livelli superiori. Eppure, proprio un chimico-fisico come il premio Nobel Ilya Prigogine ha introdotto due concetti che sono stati di aiuto alla scienza per penetrare nel mistero della vita. Anzitutto, egli ha messo in evidenza come la vita non sia riconducibile ai concetti standard della fisica, secondo i quali tutto ciò che “perdura” si trova in equilibrio, cioè in una condizione di minimo (almeno relativo) di energia. Se questo è vero per le molecole, non può esserlo per ciò che cresce e si modifica pur mantenendo una propria identità. In secondo luogo, egli ha mostrato come ci sia una categoria di sistemi che conservano per un tempo abbastanza lungo le loro caratteristiche, pur essendo in una situazione di non-equilibrio: li ha chiamati «strutture dissipative» o «sistemi stazionari in non-equilibrio». Questi sopravvivono per il fatto che scambiano continuamente materia ed energia con l’ambiente esterno. Alcuni di essi emergono come risultato dell’auto-amplificazione di fluttuazioni statistiche spontanee, sotto l’azione di regolarità esterne (come ad esempio le strutture di Bénard), altre emergono da meccanismi più complicati, ma hanno la stessa caratteristica fondamentale: sono sede di processi che si alimentano in un ambiente caotico per recuperare la perdita di energia e di materia e comunicano a questo ambiente energia degradata, come calore o prodotti chimici con un contenuto energetico più basso (cfr. Prigogine, 1986; Nicolis e Prigogine, 1991).

La domanda «che cos’è la vita?» si può perciò far rientrare in un quadro interpretativo più soddisfacente senza restare intrappolati nel riduzionismo e senza rimettere in gioco i vecchi fluidi vitali e cose simili. Il punto di vista della complessità (nel senso ontologico qui adottato) serve anche a spiegare un altro enigma: com’è possibile che facoltà come la vista o la forma degli arti possano emergere dall’azione coordinata di semplici molecole o macromolecole? La risposta risiede in ultima analisi nel fatto che con il crescere della complessità di un sistema emergono nuove proprietà; nel caso di un sistema unitario fuori di equilibrio queste proprietà possono essere ricondotte all’organizzazione, ossia all’interazione dinamica coordinata delle parti. In questo senso, e solo in questo senso, il “fenomeno vita” non si può ridurre — come del resto abbiamo detto — ai singoli enti o processi fisici e chimici da cui emerge. Questa non riducibilità vale in particolare a livello ontologico, come ha fatto vedere magistralmente Nicolai Hartmann (cfr. Nuove vie dell’ontologia, 1942, tr. it. Brescia 1975), ma non giustifica posizioni, anche di illustri studiosi, che ritenevano che la vita (a parte l’uomo) non si potesse spiegare con le sole leggi della fisica e della chimica. Quelle posizioni sostanzialmente vitaliste derivarono dall’aver ignorato sia risultati tradizionali come la teoria dell’anima in quanto entelécheia di un “corpo capace di vita ma non vivo”, formulata da Aristotele e ripresa nel medioevo da Tommaso d’Aquino, sia il concetto di sistema in regime stazionario fuori di equilibrio, introdotto da Prigogine, e la sua applicazione nel quadro proposto da Bertalanffy nella sua teoria generale dei sistemi, che segnò la nascita della biologia organismica e integrazionista.

A quanto abbiamo appena detto si ricollegano le ricerche sulla possibile origine della vita dalla materia non vivente. Si tratta di un problema che riguarda soprattutto la chimica, perché implica la comparsa in ere remotissime di sistemi di molecole aventi capacità di replicazione e di persistenza in ambiente variabile. Prima di farne cenno, ricordiamo che, com’è noto, gli studi in questione hanno suscitato dispute che coinvolgono anche filosofi e teologi, soprattutto a causa di una grave confusione tra il senso scientifico e quello teologico del termine «vita». In proposito, sia pure con la necessaria cautela, Giovanni Paolo II è stato esplicito: «[…] La filosofia prende in considerazione i fenomeni così come la loro interpretazione. Pensiamo, a titolo d’esempio, all’elaborazione delle nuove teorie a livello scientifico per rendere conto dell’emergenza del vivente. Se si usa un buon metodo, [esse] non si possono interpretare immediatamente e nel quadro omogeneo della scienza. In particolare, quando si tratta dell’uomo e del suo cervello, non si può dire che queste teorie costituiscano di per sé un’affermazione o una negazione dell’anima spirituale, o ancora che forniscano una prova della dottrina della creazione, o che al contrario la rendano inutile» (Discorso alla Pontificia Accademia delle scienze, 31.10.1992, Insegnamenti, XV,2 (1992), pp. 457-458). È stato anche fatto osservare da illustri teologi che fino all’epoca di Francesco Redi (1626-1698) e Lazzaro Spallanzani (1729-1799) si credeva che le mosche, indubbiamente viventi, fossero generate dalla carne di un animale morto, cioè privo di vita; e questo non faceva problema né per s. Tommaso né per altri.

Ciò premesso, limitandoci al “quadro omogeneo della scienza”, ripetiamo anzitutto che l’ipotesi dell’emergenza “spontanea” della vita dalla materia non vivente chiama in causa la chimica, in quanto, se la vita è apparsa ad un certo momento della storia della Terra, stimabile in circa 4 miliardi di anni fa, i processi iniziali devono essere stati quelli della formazione, a partire dalle molecole semplici (CO2, H2O, NH3, ecc.), di quelle molecole che sono i mattoni di cui risulta essere composto ogni vivente, essenzialmente aminoacidi e purine. Dunque, devono essersi formati, in qualche luogo adatto nelle rocce, delle molecole capaci di auto-replicarsi, tra le quali solo alcuni tipologie hanno potuto conservarsi, ad esempio mediante un meccanismo di selezione darwiniana. Queste molecole devono avere formato dei sistemi in cui ciascuna di esse ha influenzato la formazione delle altre, e così si è costituito uno “spettro” capace di metabolizzare molecole più piccole, di moltiplicarsi per replicazione ed infine soggetto a morire.

La chimica è chiamata a pronunciarsi su un simile scenario. Ma dovrebbe essere chiaro a tutti un punto: la vita è un fenomeno così complicato, anche dal punto di vista della chimica, che la speranza di riprodurre in laboratorio quello che è veramente accaduto è a nostro avviso pressoché nulla. La ricerca, in tal senso, è diretta piuttosto all’accertamento della plausibilità delle ipotesi, cioè a mostrare che i processi che possono aver condotto all’emergere della vita, a partire da un “brodo primordiale” di molecole non viventi, sono perfettamente compatibili, in linea generale, con le conoscenze che la chimica possiede delle molecole e delle loro reazioni. In questo senso si è già trovato molto: per esempio, si conoscono delle molecole che si aggregano tra loro spontaneamente formando macromolecole in modo ordinato; sono state prodotte artificialmente delle “micelle” che simulano le cellule nell’assorbire selettivamente delle sostanze dalla soluzione in cui si trovano in sospensione e che crescono fino a generare, alla superficie, altre micelle più piccole, capaci di liberarsi ed iniziare una “vita”, cioè ripetere lo stesso processo, in modo autonomo. Tuttavia, le prove sperimentali e gli argomenti teorici non sono (e non c’è da aspettarsi che possano essere) decisivi. Basti pensare, ad esempio, al perché esista una sola ed unica struttura di base per la macromolecola del DNA, mentre ci si potrebbe attendere che esistano almeno un certo numero di strutture molecolari che svolgano la stessa funzione di codifica e di trasmissione dell’informazione dell’essere vivente, e di guida nello sviluppo dei suoi processi. Al momento, il carattere di “plausibilità” di tali ricerche, al di là di ogni dibattito sull’origine della vita, dovrebbe essere accettabile da tutti, come modo corretto per raccogliere informazioni sulle quali fondare ulteriori discussioni.

 

VI. Chimica e alchimia

Abbiamo visto come la chimica non sia una sorta di speculazione, un po’ distaccata, sulle leggi della materia: essa è piuttosto l’arte di produrre trasformazioni partendo dalla “stoffa” di cui la natura è intessuta, utilizzando quel materiale e quelle proprietà che l’uomo scopre nel mondo che lo circonda. Si tratta di un’arte impegnativa e ricca di problemi sempre nuovi: essa richiede un’attrezzatura scientifica fatta di concezioni e regole originali, e di una opportuna metodologia. La chimica appartiene alla ricerca di base, e coinvolge dunque aspetti interessanti in se stessi, ma mostra ugualmente un marcato carattere applicativo.

Com’è noto, molto prima della nascita della chimica moderna, quell’aspetto pratico della chimica che si occupava del trattamento dei metalli, della tintura dei tessuti, della preparazione dei cosmetici e delle droghe aveva dato luogo ad una scienza chiamata alchimia. Grandi alchimisti e studiosi — come fu ad esempio Alberto Magno (1200 ca.-1280) — erano mossi a questo tipo di ricerche dal desiderio di conoscere i misteri della materia; la “rivoluzione” metodologica di Galileo, che all’origine riguardò la meccanica e fu poi estesa a tutta la fisica, ebbe luogo più tardi anche in chimica, grazie soprattutto al contributo di Robert Boyle. Tuttavia, il cambiamento fu meno radicale di quello che si realizzò in fisica ed in astronomia. La chimica, infatti, si occupa tuttora, come già faceva l’alchimia, dei processi di trasformazione dei materiali, contribuendo alla costruzione del mondo in cui l’uomo vive. Tale attività rappresenta inoltre un elemento di continuità tra il mondo orientale e occidentale, probabilmente sconosciuto alle altre scienze sperimentali. In secondo luogo, mentre la fisica ha dovuto introdurre dei princìpi effettivamente nuovi e ha dovuto addirittura cambiare il suo “programma”, l’alchimia ha accettato lo spirito del metodo galileiano senza modificare necessariamente i suoi princìpi più generali e il suo programma. Ad esempio, il concetto di atomo o di elemento, già presenti nell’antichità, sono rimasti concetti fondamentali, pur se ridefiniti in termini dei nuovi criteri osservazionali.

Nondimeno, è pur vero che qualcosa si è “perduto” nel passaggio dall’alchimia alla chimica. La perdita più significativa è stata forse quella dell’analogia fra il progresso dello spirito verso la sapienza (intesa sia in senso filosofico che religioso) — che l’alchimista considerava un aspetto determinante del suo lavoro — e la modalità o l’efficacia con cui i vari processi di trasformazione alchemica conducevano ai loro risultati. Lo “spirito” dell’alchimia, infatti, suggeriva che le operazioni pratiche della scienza e della tecnica richiedessero un coinvolgimento totale dell’operatore e che i progressi ottenuti nei risultati scientifici camminassero parallelamente alla capacità che questi aveva di sacrificare il suo ego in vista di nobili ideali. E se non si può certo sostenere che i prodotti di una reazione chimica dipendono dal grado di virtù morale dello scienziato che la realizza, non si può tuttavia negare che una certa componente psicologica resterà pur sempre necessaria nella ricerca: una persona paziente e appassionata a ciò che sta facendo potrà ottenere risultati più accurati, se non altro perché sarà più precisa nelle operazioni che compie. Lo spirito della scienza più genuina e sinceramente interessata alla conoscenza della verità, così come lo era quello dell’alchimia, richiede anche un senso di rispetto verso il mondo che si sforza di conoscere e di trasformare, nonché una buona dose di umiltà ed una visione di servizio, necessarie affinché l’impresa scientifica e tecnologica restino un’impresa autenticamente umana.

 

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