La storia delle scienze ci ha regolarmente documentato come ogni buona metodologia e ogni modello che dia buona prova di sé, fino a giungere al livello di una vera e propria “sintesi teorica”, tenda – per un periodo più o meno prolungato nel tempo – a divenire un “paradigma”. Una dinamica tipica dei paradigmi consolidati è che vengano utilizzati per la comprensione di un numero di fenomeni del mondo naturale ben più vasta dell’ambito nel quale sono stati formulati e verificati. Oggi chiamiamo “riduzionismo” questo modo di procedere degli uomini di scienza e ne vediamo particolarmente i limiti. In sé, tuttavia, un certo riduzionismo non solo è legittimo, ma è addirittura necessario e le sue crisi sono sempre un “motore” che fa progredire la conoscenza scientifica: con esso si cerca di ricondurre ciò che ci è “meno noto” (nel senso di non spiegato) a ciò che ci è “più noto” (in quanto già spiegato e meglio compreso). Così è accaduto ad esempio nella fisica: all’interno dalla sintesi della meccanica newtoniana gli scienziati si sono impegnati a cercar di comprendere ogni aspetto della natura in termini meccanici. L’universo e l’uomo stesso sono stati pensati come “macchina” e il “meccanicismo” è divenuto una “metafisica” che si è spinta fino a considerare Dio stesso come il “grande meccanico” o il “grande orologiaio” dell’universo; con tutti gli evidenti limiti di una visione così materialista.
Allo stesso modo oggi, nel tempo dell’informatica e della programmazione, si tende vedere un’istruzione e un programma di computer un po’ dappertutto, soprattutto in biologia, e a pensare a Dio come “il grande programmatore” dell’universo (cfr. G. Chatin, Teoria algoritmica della complessità, Giappichelli, Torino 2006, p. 36). Questo modo di procedere, che estrapola un modello anche oltre l’ambito disciplinare nel quale è nato e ha dato buona prova di sé con ampie verifiche sperimentali, se condotto con rigore scientifico finisce per scontrarsi, prima o poi, con paradossi e nuove evidenze che lo mettono in crisi. E così anche può divenire, in positivo, il “motore” per superarle verso un mutamento qualitativo del metodo scientifico, con l’emergere di nuovi paradigmi più ampi e meno univoci. Così è successo con la scoperta di Maxwell delle leggi dell’elettromagnetismo, irriducibile ad una comprensione meccanicistica, con la Relatività e la Meccanica Quantistica, con l’emergere della Complessità in tutte le discipline. Anche le matematiche hanno conosciuto qualcosa di simile quando sono incappate in paradossi e contraddizioni. Quando ci si scontra con un paradosso/contraddizione logica lo scienziato non cade in un pessimismo rinunciatario, ma cerca un ampliamento della sua razionalità, della sua logica e metafisica.
A cento anni dalla morte di Georg Cantor (1845-1918) dobbiamo principalmente a lui se, anche nell’ambito delle discipline matematiche è successo e sta tuttora accadendo qualcosa del genere: l’istinto scientifico verso “l'ampliamento dell’oggetto” considerato fino a quel momento dalla matematica (numeri, relazioni, funzioni, equazioni, ecc.), grazie alla sua opera (la “teoria degli insiemi”), ha portato a scoprire orizzonti di indagine dell’“ente” che un tempo erano solo riservati alla metafisica e che hanno riconquistato una piena dignità scientifica (cfr. la voce Cantor, §IV in questo Portale). Come ogni grande uomo di pensiero e di scienza – a partire dagli antichi pensatori greci, tra i quali non possiamo non avere presenti almeno Platone e Aristotele, fino a quei pensatori più vicini a noi che furono insieme scienziati e filosofi come, ad esempio Pascal e Leibniz – Cantor fu affascinato dall’idea di poter trattare con rigore logico questioni di matematica che erano nel contempo questioni filosofiche e teologiche.
Il problema dell’“infinito” era una di queste e lo attrasse fin dall’inizio delle sue ricerche. La matematica si scontra continuamente con l’infinito: i numeri “naturali” (1, 2, 3, …, n,…) sono un infinità; in mezzo a questi si sono aggiunti altri numeri “razionali” (1/2, 1/3, 1/4,…, m/n,…) e poi i numeri irrazionali e i trascendenti i quali non sono riconducibili a frazioni (la radice di 2, la radice di 3, π, e,…) che sembrano “accrescere” ulteriormente quell’infinità. Sono paragonabili tra loro, con un metodo logico rigoroso, un metodo matematico, tutti questi infiniti? E che cosa ha a che fare tutto questo con il concetto filosofico e teologico di “infinito”? I metafisici e i teologici dicono che Dio stesso è infinto… Tutte queste domande appassionarono il giovane Cantor che, tra l’altro aveva avuto un’educazione cristiana da una madre cattolica e, pur vivendo in un ambiente prevalentemente protestante, aveva sempre avuto un particolare «amore per il Papa e la santa Chiesa Cattolica romana» (A.R. THOMAS-BOLDUC, Cantor, god, and inconsistent multiplicities, §5). Così egli ebbe modo di accostarsi e conoscere anche alcuni testi di san Tommaso d’Aquino sui temi dell’infinito potenziale, dell’infinito attuale e dell’infinità divina (cfr. ivi, §1). Per poter paragonare gli infiniti occorreva mettere a punto un “modo di contare”, e di “confrontare” il numero di elementi delle collezioni di oggetti qualunque, compresi quelli che si possono estendere ad un infinito numero di oggetti, anche senza poterli, evidentemente, elencare uno per uno (saranno la tecnica della “corrispondenza biunivoca” e il “metodo diagonale” da lui ideato ad aiutarlo in questo), perché come sapevano bene già gli antichi (come Aristotele e Tommaso) «l’infinito non si può attraversare» (In Physic., lib. 6 l. 13 n. 4), se non altro perché occorrerebbe un tempo infinito per poterlo fare. Occorreva allora poter trattare una collezione di un infinito numero di oggetti come “un tutto” (in questo senso si tratta di un “infinito attuale”, in quanto è colto come un ente “uno” nella sua interezza), nella sua unitarietà, definita da una “forma”, da una “legge” che regola il modo in cui i suoi elementi possono essere definiti e messi a confronto con gli elementi di altre collezioni di oggetti, anche infinite, senza dover essere elencati uno per uno.
Questa sfida, non facile, porterà Cantor a scontrarsi con quello che dopo di lui diverrà noto come il “paradosso dell’insieme universale” (l’insieme di tutti gli insiemi), che lo condurrà a distinguere tra “molteplicità consistenti” (oggi chiamate “insiemi” o “classi improprie”) e “molteplicità inconsistenti” (oggi chiamate “classi proprie” secondo la terminologia di Gödel). L’idea fu comunicata a Dedekind in una lettera del luglio 1899. Queste ultime classi, come la “classe universale” e la “classe di Russell” non possono appartenere ad alcun’altra classe (che dovrebbe essere più vasta di esse), pena l’insorgere di una contraddizione logica. Cantor non fu aiutato dai filosofi e teologi dell’epoca a rendersi conto che stava, in qualche modo, con la sua indagine logico-matematica riscoprendo l’analogia entis di aristotelico-tomista memoria (cfr. J. Bochenski, La logica formale, Einaudi, Torino 1972, vol. 1, p. 77). Attraverso lo studio delle collezioni di oggetti qualsiasi (non necessariamente solo numeri) si stava accorgendo che una collezione di enti, per essere universale, non può essere a sua volta elemento di una collezione ancora più ampia, perché se lo fosse cesserebbe di essere universale, essendocene una più ampia ancora. Così come la nozione di “ente”, che include in sé qualunque cosa, non ne ammette una più universale, perché ogni cosa ricade comunque nell’essere un ente.
La matematica con lui incomincia ad ampliarsi dai numeri ad una “teoria degli enti” che nella fattispecie erano le collezioni. Fu un passo verso la metafisica e quella che ai nostri giorni sta divenendo l’“ontologia formale”. Si preparerà così, da lì a pochi anni, la strada al teorema di incompletezza di Gödel (1931), alla scoperta della non computabilità di tutti i numeri, al problema dell’arresto delle “macchine di Turing” e a tutte quelle problematiche sulle quali si sta lavorando ai nostri giorni, anche con l’ausilio del computer e dell’informatica. Cantor aveva compreso la classica distinzione tra a) “infinito potenziale” (quello di una collezione finita che può essere potenzialmente sempre incrementata, come lo è un insieme finito di oggetti ai quali se ne può sempre aggiungere un altro: così è, ad esempio anche un insieme finito di numeri naturali come {1, 2, 3,4 ,…, n} al quale se ne può sempre aggiungere un altro ottenendo {1, 2 , 3, 4,…, n, n+1} e così via), b) infinito attuale “transfinito” (quello di una collezione infinita considerata nella sua totalità, come quella di tutti i numeri naturali, N={1,2,3,…, n,…}, o dei “numeri reali” R, considerata nella sua unitarietà come un unico ente, per i quali Cantor aveva inventato anche una teoria per stabilire come un infinito possa dirsi “più grande” di un altro (teoria dei numeri transfiniti) e c) “infinito attuale assoluto” che egli identificava con l’infinità di Dio, inafferrabile, trascendente e non riducibile ad una quantità, come il numero transfinito degli oggetti di una collezione.
Questo suo spingersi verso un tema tanto delicato quanto difficile gli procurò delle incomprensioni da parte di alcuni filosofi e teologi contemporanei che vedevano in tutto questo uno sconfinamento dall’ambito scientifico, con il pericolo di incappare in una sorta di “panteismo matematico” in cui anche Dio è un numero. Vi era anche la difficoltà della trattazione tecnica non facilmente accessibile ai non matematici. Ma ci fu, tra i teologi, chi comprese la correttezza e legittimità anche teologica dei lavori di Cantor. Tra questi va ricordato il card. Franzelin, che fu teologo pontificio al Concilio Vaticano I, il quale sostenne che «la teoria degli insiemi transfiniti non si opponeva in alcun modo alla dottrina cattolica» (Cantor, god, and inconsistent multiplicities, §3). Cantor dimostrò, tra l’altro anche un riverente affetto verso il romano Pontefice inviando in dono a Leone XIII una copia della Confessio fidei di Francesco Bacone, quasi in segno di una sua personale confessione di fede, con una lettera di accompagnamento che in chiusura riportava prima della firma la formula: «Di Vostra Santità umilissimo e devotissimo servo» (ivi, §5). A lui dobbiamo quell’ampliamento della matematica che l’ha trasformata da una “teoria dei numeri e delle funzioni” ad una “teoria degli insiemi e dell’infinito”, aprendo la strada a svilupparsi ulteriormente in una “teoria degli enti”, della quale l’odierna “ontologia formale” sembra proporre un primo tentativo. E da questa progressiva trasformazione potrà magari, in futuro, beneficiare la stessa indagine teologica. Forse Cantor aveva già intravisto, almeno nel suo modo di fare ricerca matematica, qualche possibile apertura in questa direzione. Ed è significativo riportare, in chiusura, che scrivendo a padre Thomas Esser, a proposito della sua esperienza scientifica, collocatasi in una prospettiva che oggi chiameremmo interdisciplinare e di unità del sapere, Cantor annotava come «Ogni ampliamento della nostra indagine in ciò che nella creazione è possibile conduce necessariamente ad un ampliamento nella conoscenza di Dio» (ivi, §5). Possiamo considerarlo anche come il filo conduttore che scorre lungo l’intera impresa del progetto del Centro DISF.