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Sul concetto di Antropocene

Giugno 2021
Ivan Colagè
Assistente alla direzione Centro DISF e Docente di Logica e Filosofia della Scienza presso la Pontificia Università Antonianum

    

Siamo nell’Antropocene! O forse no? In ogni caso, cosa significa? È oggi in corso un dibattito specialistico in seno alla comunità geologica internazionale sulla opportunità di introdurre una nuova epoca geologica per il nostro pianeta, e sul fatto che questa nuova epoca debba essere denominata “Antropocene”.

 La scelta di questo termine (la cui prima parte deriva dal greco ‘anthropos’, ‘umano’) indicherebbe che essa sarebbe definita dall’influsso della presenza e dell’attività umana sullo stato del pianeta terra su scala geologica, globale. L’Antropocene costituirebbe dunque l’epoca geologica successiva all’ultima che è stata formalmente definita: l’Olocene (che inizia quasi 12.000 anni fa).

Il termine “Anthropocene” (in inglese, naturalmente …) fu proposto per la prima volta nel 2000 in un articolo sulla Global Science News Letter a firma di Paul J. Crutzen (1933-2021, Premio Nobel per la chimica nel 1985) e Eugene F. Stoermer (1934-2012, biologo marino) proprio con quel titolo: The “Anthropocene”.

Il processo per la formalizzazione di questa nuova epoca geologica non è ancora concluso. Anche se esiste un Anthropocene Working Group che già dal 2016 ha raccomandato la sua formalizzazione, né la International Commission of Stratigraphy né la International Union of Geological Sciences hanno ufficialmente dichiarato questa nuova epoca geologica per il nostro pianeta. Quindi, non siamo nell’Antropocene!

Tuttavia, è oggi cronaca quasi quotidiana quella riguardante la “questione ecologica”: riscaldamento globale, scioglimento dei ghiacciai, eventi metereologici violenti e imprevedibili, inquinamento atmosferico, idrico e del suolo, desertificazione, deforestazione, perdita drastica di biodiversità. E poi: crescente urbanizzazione, mancanza di acqua potabile, migrazioni climatiche, sovrappopolazione; fino ad arrivare alla pandemia! Tutto questo ha il forte sapore di un impatto molto profondo della presenza e attività umana sullo stato del pianeta terra. Impatto, peraltro, prevalentemente negativo, non solo per “l’ambiente”, ma anche per noi stessi. Quindi, sembrerebbe proprio che, di fatto, siamo nell’Antropocene!

Cerchiamo però di mettere un po’ d’ordine, proprio sul “concetto” di Antropocene e sulle sue implicazioni a trecentosessanta gradi, e non solo per la stratigrafia e la geologia. Attorno a questa nozione, infatti, esiste una questione tecnico-specialistica e una questione più culturale. Inoltre, al termine possono essere date accezioni inesorabilmente negative o perfino catastrofiche, oppure accezioni speranzosamente positive e “progressive” (vale a dire: legate al progresso dell’umanità e del suo ambiente, della sua “casa”).

Per quanto riguarda la questione tecnica, per definire un’epoca geologica è necessario che esista un segno chiaro a livello stratigrafico che identifichi l’inizio della nuova epoca. Per fare un esempio, l’inizio dell’Olocene a 11.700 anni fa è identificato dal brusco cambio di concentrazione del deuterio che dipende dal cambiamento climatico che sancì la fine dell’ultima era glaciale. Inoltre, nello specifico dell'Antropocene, questo segno stratigrafico deve essere chiaramente riconducibile alla presenza e attività umana. Sono state fatte diverse proposte per l’inizio dell’Antropocene, alcune risalenti a oltre mezzo milione di anni fa (il che coinciderebbe con la capacità di controllare il fuoco da parte di nostri antenati ominidi), altre di fatto coeve all’inizio dell’Olocene e coincidenti con il diffondersi dell’agricoltura, altre ancora in tempi storici recenti come la rivoluzione industriale (ca. 1850) o l’inizio dell’era atomica (ca. 1950). 

La proposta che sembra attualmente più condivisa è quella di far iniziare l’Antropocene alla metà del secolo XX. L’attività umana che contrassegnerebbe questo momento sarebbero proprio le esplosioni nucleari iniziate con i test del 1945 (il primo dei quali svoltosi ad Alamogordo, New Mexico, e noto con il nome in codice “Trinity”…) e il segno stratigrafico principale sarebbe la presenza di radionucleotidi come il carbonio-14 e il plutonio-239. A questo si accompagnerebbe la presenza di altri elementi (plastica, metalli pesanti come il piombo, pesticidi, etc.) tutti derivanti da attività umane.

Tuttavia, al di là della questione tecnica sussiste una questione culturale più ampia e profonda. Questa affiora anche nella letteratura geologica specialistica quando, ad esempio, si sottolinea come “il riconoscimento formale dell’Antropocene come epoca segnerebbe un cambiamento fondamentale nelle relazioni tra umanità e sistema terrestre”, aggiungendo che “una più ampia consapevolezza che le azioni umane stanno inducendo cambiamenti dalle molte conseguenze sull’infrastruttura terrestre che supporta la vita probabilmente avrà crescenti implicazioni filosofiche, sociali, economiche e politiche nei prossimi decenni”[1].

La questione, dunque, si impone anche a proposito delle relazioni dell’essere umano col suo ambiente (ormai evidentemente un ambiente “globale”) e, più in profondità, a proposito del ruolo dell’essere umano nel mondo (natura, cosmo o creazione che lo si voglia intendere). Una simile profondità emerge anche dalla proposta originale di Crutzen e Stoermer, i quali riconoscono le radici storiche del concetto di Antropocene in Antonio Stoppani (1824-1891, geologo e sacerdote) il quale riconobbe l’umanità come una “nuova forza tellurica” comparabile con le altre forze geologiche e che, conseguentemente, chiamava l’epoca attuale “antropozoica”. Altra radice spesso riconosciuta del concetto di Antropocene è Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955, geologo e paleontologo gesuita) che propose la nozione di “noosfera”, il “mondo del pensiero umano”; con l’emergenza della noosfera si giungerebbe, secondo Teilhard de Chardin, alla terza fase dell’evoluzione (dopo “geosfera” – la fase della materia inanimata – e “biosfera” – la fase delle vita).

Queste radici concettuali fanno intravedere la portata qualitativamente innovativa e profondamente efficace della presenza e attività umana. Non se ne rinviene, invece, la sfumatura negativa oggi spesso attribuita al termine Antropocene. Certo, questa sfumatura è oggi ben motivata da una moltitudine di dati e fatti circa lo stato del nostro pianeta e dell’ambiente (e queste motivazioni erano assai meno evidenti a Stoppani e Teilhard). Tuttavia – lo ribadiamo – essa non è necessariamente implicata dal concetto di Antropocene. È possibile attribuire anche un senso positivo al riconoscimento della portata non più trascurabile su scala planetaria (e dal punto di vista geologico) della presenza e attività umana? Vi sono alcune considerazioni che aprirebbero in maniera interessante a questa prospettiva.

In primo luogo, la nozione di “niche construction” (costruzione di nicchie) che va facendosi sempre più spazio nella biologia contemporanea. L’idea è che ogni organismo e ogni popolazione di organismi di una certa specie biologica modifica sempre in maniera non trascurabile l’ambiente in cui si trova a vivere, e lo fa in modi che molto spesso smussano quegli aspetti e fattori ambientali più problematici (o tendenzialmente avversi) alla sopravvivenza propria e delle future generazioni. Da questo punto di vista, gli effetti pervasivi dell’attività umana sullo stato del pianeta sono stati considerati come un “monumentale processo di costruzione di nicchia”[2]. Dal punto di vista biologico è quindi inevitabile che “organismi e popolazioni umane” impattino sul loro ambiente. Data, poi, l’enorme e densa diffusione della nostra specie sul pianeta, è chiaro che gli effetti non possono che essere globali.

C’è un secondo punto rilevante: la tecnologia. La nostra “forma di vita” ha una incidenza enorme sul proprio ambiente perché si è dotata di tecnologie potenti, efficaci, invasive. Anche questo, però, è in certo senso connaturale all’essere umano. Sin dagli albori del genere Homo (2,5 milioni di anni fa) la tecnologica – all’epoca nella forma di strumenti di pietra – ha accompagnato l’evoluzione biologica e culturale. Come condannarla tout court, dunque: “siamo fatti così”. D’altra parte, non mancano segni positivi dello stesso sviluppo tecnologico, soprattutto laddove applicato alla medicina o anche nel rendere possibile una maggiore interconnessione e relazionalità per l’umanità (come tratteggiato nel nostro editoriale di gennaio 2021 – per non parlare di sviluppi dal profondo sapore antropologico come ospedali o università, anch’esse … sempre più tecnologiche (come discusso nel nostro editoriale di febbraio 2021).

Niche construction e tecnologia, dunque, mettono bene in evidenza come “Antropocene” potrebbe anche avere un’accezione più “neutrale”: potrebbe cioè catturare gli esiti di caratteristiche costitutive dell’essere umano – l’una più biologica, l’altra più culturale.

Sennonché, questa “accezione neutrale” si collega ad alcuni temi che la teologia cristiana sviluppa da ben prima del dibattito intorno all’Antropocene, e dalle quali emergerebbe un’accezione positiva (almeno in prospettiva) di questa nozione. La comprensione dell’essere umano come “co-creatore creato” proposta da Philip Hefner[3] sottolinea l’idea che l’essere umano sia chiamato a collaborare alla creazione, facendone emergere potenzialità non ancora esplicitate proprio grazie alla tecnologia. Già Enrico Cantore aveva sottolineato come la scienza moderna (e la conseguente tecnologia) fossero in grado di amplificare la capacità umana di dar vita ad autentiche novità nel mondo, parlando così della “quasi-creatività” umana[4]. L’idea di collaborare alla creazione ha basi bibliche, persino vetero-testamentarie (come, ad esempio, in Gen 2,15, dove all’essere umano è dato il mandato di “coltivare e custodire” il giardino). È presente in molti luoghi del Magistero della Chiesa Cattolica – basterà qui menzionare il n. 38 della Costituzione Pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, dove si legge: “Ma i doni dello Spirito sono vari: alcuni li chiama a dare testimonianza manifesta al desiderio della dimora celeste, contribuendo così a mantenerlo vivo nell'umanità; altri li chiama a consacrarsi al servizio terreno degli uomini, così da preparare attraverso tale loro ministero quasi la materia per il regno dei cieli”. Ho sempre ritenuto interessante lo spunto proveniente da Karl Rahner quando sottolinea che “il cristiano è assolutamente giustificato e qualificato – ed in realtà in certa misura obbligato – a prendere parte attiva all’operare per il progresso della stirpe umana, e quindi del mondo, attraverso lo sviluppo delle sue potenze immanenti e di quelle del mondo”[5]. E ancora essenzialmente nella stessa linea è la concezione del lavoro “come partecipazione all'opera creatrice di Dio” sostenuta ancor prima da Josemaría Escrivá[6].

Questa prospettiva, dunque, apre la possibilità di attribuire alla crescente efficacia e diffusione delle attività umane nel mondo (ciò che il concetto di Antropocene comunque sottolinea) un potenziale valore positivo, di genuina crescita in umanità e di reale sviluppo del mondo. 

Anche lungo questa linea può essere letta la pressante insistenza del corrente Magistero sulla “cura della casa comune” – che evidentemente trova nell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco un punto notevole. Qui antropologia e ecologia (entrambi messe in gioco dal concetto stesso di Antropocene) si trovano intimamente connesse in una chiamata ad esercitare la potenza dell’essere umano per la cura responsabile del creato. Così, se l’Antropocene – quell’epoca geologica in cui la presenza e attività umane sul pianeta (e nel mondo) diventano fattore determinante – fosse caratterizzato proprio da quella cura responsabile, si potrebbe quasi sperare di esserci davvero!  



[1] S.L. Lewis, M.A. Maslin, “Defining the Anthropocene”, Nature 519 (2015): 171-178.

[2] A. Meneganzin, T. Pievani, S. Caserini, “Anthropogenic climate change as a monumental niche construction process: background and philosophical aspects”, Biology & Philosophy 35 (2020): 38.

[3] P. Hefner, The Human Factor: Evolution, Culture, Religion, Fortress Press, Minneapolis, MN 1993. 

[4] E. Cantore, “Umanesimo scientifico”, in. G. Tanzella-Nitti – A. Strumia (a cura di), Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, Urbanian University Press e Citta Nuova, Rome e Citta del Vaticano 2002, pp. 1399-1409 (https://disf.org/umanesimo-scientifico). Per le riflessioni più estese di Enrico Cantore sul significato umanistico della scienza, E. Cantore, Scientific Man: The Humanistic Significance of Science, ISH Publications, New York 1977 (trad. it., L’uomo scientifico. Il significato umanistico della scienza, EDB, Bologna 1987).

[5] K. Rahner, “Christianity and the ‘new man’», in Id., Theological Investigations, vol. 5, Darton, Longman and Todd, London 1966, p. 149.

[6] J. Escrivá, “Nella bottega di Giuseppe”, in Id., È Gesù che passa, Ares, Milano 2009, n. 49.