Con un’operazione editoriale paragonabile solo a quella con cui Giovanni Paolo II diffuse per la prima volta i libri di un Pontefice regnante, in questi giorni è uscito simultaneamente in tutto il mondo, tradotto in diverse lingue, il volume di Stephen Hawking, Le mie risposte alle grandi domande (Rizzoli-Mondadori, Milano 2018). Lo scienziato, deceduto lo scorso 14 marzo, offre in questo testo la sua visione del mondo su temi particolarmente importanti come il rapporto fra scienza e progresso umano, il futuro dell’uomo e della vita sulla terra, l’esistenza di Dio. Anche se non siamo nuovi a questo tipo di riflessioni dello scienziato inglese, presenti nei suoi maggiori libri di divulgazione scientifica sotto forma di considerazioni fugaci ma significative, il volume ha destato e desta comprensibile interesse. E ciò per vari motivi. Le riflessioni filosofiche di Hawking, erano state finora piuttosto frammentarie – poco più che aforismi – spesso mediate e sviluppate da colleghi e amici che avevano presentato le sue opere al grande pubblico. Emblematica, al riguardo, la lettura che Carl Sagan offrì del pensiero di Hawking nell’Introduzione che firmò alla nota opera Dal big bang ai buchi neri. In varie altre occasioni i libri in cui si sottoscrivevano posizioni atee o agnostiche, o talvolta polemiche nei confronti della religione, erano stati scritti a 4 mani, come nel caso de Il grande disegno, firmato insieme a Leonard Mlodinow. Chi, come lo scrivente, ha avuto la possibilità di incontrare e ascoltare Stephen Hawking, sa bene che lo scienziato inglese, quando interagiva con il pubblico lo faceva attraverso un sintetizzatore vocale, uno strumento che, se non usato per convertire vocalmente un testo già digitalizzato, ma impiegato invece per tradurre in parole il pensiero dell’autore mediante i movimenti del suo capo, poteva impiegare anche due minuti per costruire e trasmettere una frase di poche parole. Per di più, nei giorni immediatamente successivi alla sua scomparsa si erano succedute diverse interpretazioni del pensiero di Hawking sui “temi forti”: chi metteva in luce la coerenza di un ateismo che lo accompagnò dall’inizio alla fine della sua carriera, chi, invece, sosteneva la sua apertura al mistero ed una visione del pensiero scientifico non totalmente autosufficiente ed esaustiva dell’intera realtà. Per tutti questi motivi, un libro intero di Stephen Hawking dedicato alle risposte alle “grandi domande” non poteva che suscitare sorpresa e attenzione.
La post-fazione della figlia Lucy ci informa che questo libro rappresentava «uno dei progetti su cui [l’autore] ha lavorato in quello che sarebbe stato il suo ultimo anno sulla terra. L’idea era quella di raccogliere i suoi scritti più recenti in un unico volume» (p. 197). Possiamo dunque ritenere di trovarci di fronte a riflessioni autografe di Hawking, anche se la figlia Lucy ringrazia ben 24 diversi scienziati e conoscenti di suo padre per averla aiutata nella redazione del libro. Non è forse superfluo notare, ai fini dell’esatta collocazione dello scritto entro il pensiero dell’autore, che alcune delle considerazioni raccolte fanno riferimento ad avvenimenti e ad articoli datati solo poche settimane prima della sua morte, aprendo forse l’interrogativo sul contesto in cui Hawking abbia fornito e consegnato tali riflessioni. I capitoli di cui è formato il libro non recano date di composizione, né riferimenti ad eventi od occasioni in cui i discorsi (se di discorsi si tratta) sono stai pronunciati. Non abbiamo informazioni circa la forma in cui questo materiale sia stato rinvenuto, organizzato o composto. Comunque stiano le cose, siamo di fronte a 10 diversi capitoli preceduti da una significativa Introduzione. Buona parte dei capitoli (dal 7 al 10) riguarda le preoccupazioni di Hawking circa il futuro della nostra specie, gli scenari futuri della nostra vita sulla terra, le direzioni che intraprenderà il progresso scientifico e tecnologico. Già in alcune conferenze degli anni 2014 e 2015 Hawking aveva fatto presente la necessità di una riflessione seria sul futuro, specie in merito al rapporto fra intelligenza umana e intelligenza artificiale, mettendo in guardia circa i rischi della delega tecnologica. Questa parte del libro offre riflessioni assai pertinenti e largamente condivisibili. Potrebbero forse ricordare il testamento spirituale consegnato da Einstein a Bertrand Russell nel 1955 relativo ai timori di una possibile guerra nucleare su scala planetaria. I toni sono qui meno accesi e radicali, ma ugualmente importanti: l’essere umano sarà chiamato a scegliere il proprio futuro e dalle decisioni che prenderà dipenderà il domani dell’intero pianeta. I capitoli dal 2 al 6 riprendono alcune idee essenziali su elementi scientifici cari al grande pubblico (i viaggi nel tempo, la fisica dei buchi neri, le possibili civiltà extraterrestri), esponendo in semplici frasi cosa la scienza può dire o non può dire su tali temi.
Le pagine del libro che fanno riferimento, almeno nei titoli, alle “grandi domande” sono in realtà solo le prime, quelle raccolte dall’Introduzione, intitolata appunto “Perché dobbiamo porci le grandi domande” e quelle presentate dal capitolo 1, “Esiste un Dio?”. È significativo che Hawking difenda, come deve, la capacità dello scienziato di formulare oggi delle domande che fino a pochi decenni fa parevano essere solo territorio del filosofo: da dove vengo, dove vado, come si è formato il mondo? Hawking, e molti con lui, non distinguono però se il soggetto che le formula sia il metodo scientifico o lo scienziato in quanto persona. Pare logico che la matematica o la fisica non si pongano domande di carattere esistenziale, ma lo faccia solo lo scienziato che maneggia il formalismo di tali discipline. Hawking ha ragione a sostenere la liceità di queste domande e il loro diritto di cittadinanza nei laboratori scientifici, semplicemente – noi aggiungiamo – perché in questi laboratori ci vivono persone in carne ed ossa e non tutto è affidato ai computer. Sono domande umane, forse religiose, che l’essere umano non può non farsi.
Tuttavia il riferimento alle “grandi domande” resta più nel titolo che nel contenuto dell’Introduzione, che è invece una lunga ricostruzione biografica delle principali tappe scientifiche e umane dell’autore. Non vi sono, nel testo dell’Introduzione, affermazioni dell’autore che sostengano come la scienza abbia o meno la capacità di rispondere esaustivamente a tali domande, né riferimenti al fatto che esse spiazzino la fede in un Dio creatore. Ritroviamo invece, stranamente, una composizione virgolettata in quarta di copertina che sembrerebbe affermare tale autosufficienza ma che, in realtà, gioca con un cambio di soggetto. Ciò che Hawking nel testo attribuisce alle persone – «Il problema è che molti credono che la scienza sia troppo complicata e fuori della loro portata» (p. 20) – incoraggiando dunque tutti ad occuparsi di scienza, nella quarta di copertina sembra invece riferito alla scienza, alla cui portata sarebbero le grandi domande, proponendo un virgolettato che, come tale, non esiste all’interno del testo pubblicato che abbiamo fra le mani.
Leggendo il capitolo intitolato “Esiste un Dio?”, capiamo che Hawking si imbatte con la datità delle leggi di natura, ovvero sulla loro esistenza come punto di partenza per poter fare scienza, e non ha difficoltà a riconoscere che si tratta di questione di definizione: chi vuole indentificare Dio con le leggi di natura è libero di farlo. Conoscere le leggi di natura è conoscere la mente di Dio. Il modo in cui Hawking parla in queste pagine di Dio, sobrio e senza radicalismi, ricorda l’immagine di un Dio tappabuchi, invocato per dare spiegazione di qualcosa che avviene a livello dell’analisi empirica, sul piano fisico. Da tale nozione di Dio egli vuole prendere giustamente le distanze. Non solo lui, ma è quello che dovremmo fare tutti, aggiungo. Hawking ha lavorato e operato nel clima del naturalismo filosofico attualmente in voga a Cambridge ed Oxford e non sorprende che abbia mutuato proprio da questa corrente un’immagine di Dio che, in sostanza, non esiste. Al tempo stesso egli non intende usare la scienza contro Dio: «Non voglio che si pensi che il mio lavoro miri a dimostrare o confutare l’esistenza di Dio: il mio obiettivo è trovare una cornice razionale che ci permetta di comprendere l’universo che ci circonda» (p. 37).
In sostanza, è bene attribuire alla scienza ciò che le spetta, senza sostituirvi un Dio tappabuchi. Hawking chiude il capitolo sostenendo, come uomo, di non credere in Dio, ritenendo che l’orizzonte della nostra esistenza si limiti alla materialità della nostra esperienza terrena. Non può fare però a meno di concludere con l’affermazione del suo sincero stupore per l’esistenza del mondo e del disegno che esso contiene: «Abbiamo solo questa vita per apprezzare il grande disegno dell’universo, ed è una possibilità per cui sono estremamente grato» (p. 48). La filosofia incomincia proprio dallo stupore, come ci insegnavano Platone e Aristotele, lo stesso stupore che Hawking sperimenta considerando l’intero universo con un solo colpo d’occhio, con un solo pensiero della mente. Peccato che non abbia avuto la possibilità di percorrere questo itinerario sulla terra, ma lo abbia solo intravisto al termine della vita. La vera avventura della scienza, meglio dello scienziato, sarebbe cominciata proprio qui.