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L’espansione dell’Universo

Georges Eduard Lemaître
1966

 Revue de Questions Scientifiques. Actualité, histoire et philosophie des sciences

Risposte ad alcune domande poste da Radio-Canada il 15 aprile 1966, Predisposte da Mons. G. Lemaître

   

È con piacere che rispondo all’invito ricevuto da Radio Canada a dire qualche parola sul tema della teoria dell’Espansione dell’Universo che ho sviluppato a partire dal 1926.

Lo faccio tanto più volentieri nella misura in cui serbo un ricordo molto piacevole dei miei numerosi soggiorni nel vostro bel Paese risalenti nel tempo, precisamente all’epoca in cui il piroscafo che mi aveva condotto dal Belgio risaliva lentamente il San Lorenzo dal Québec a Montréal, nella cornice di un tramonto indimenticabile sul fiume e sulle isole. Questo Paese, dove ho parecchi amici e pure parecchi cugini, per cui diventa un’occasione di rifarmi vivo con loro, se saranno all’ascolto quando andremo in onda, riandranno a quei bei ricordi. Desidero altresì salutare i membri della Camera di Commercio di Montréal e i numerosi illustri ascoltatori che mi hanno accolto quattro anni orsono.

Nella prima domanda che mi è stata posta mi si chiedeva di dare un quadro dello stato dell’arte delle teorie cosmogoniche quale esso si presentava al momento in cui iniziai nel 1926.

Esse erano dominate dalla personalità e dai lavori di Jeans, che dipendevano a propria volta dalle Ipotesi Cosmogoniche di Henri Poincaré, che si riallacciavano, infine, al ricordo del grande Laplace.

Si trattava di immaginare un’origine dell’Universo a partire dalla Nebulosa di Laplace, qualcosa di simile al Caos della Genesi, e di vedere come, per instabilità gravitazionale o per qualche procedimento di tal genere, la nebulosa uniforme si fosse potuta differenziare in parti distinte, che avevano dato luogo a stelle diverse costituenti l’unico elemento dell’universo allora noto.

A quei tempi non si aveva pressoché idea della dimensione dell’Universo e lo si limitava con facilità alla nostra Galassia, ovverosia all’insieme di qualche miliardo di stelle di cui fa parte il Sole.

Non è che a partire dal 1925, quando Hubble scoprì le variabili cefeidi nella nebulosa di Andromeda e riuscì a dedurne una stima della distanza da questa galassia, che le idee hanno assunto contorni più precisi e ci si è resi conto, come avevano soltanto intuito alcuni antichi quali Kant, che l’universo era formato di un gran numero di galassie simili alla nostra, le nebulose extragalattiche, raccolte in ammassi più o meno vasti ed che si estendono per miliardi, forse centinaia di miliardi di anni luce.

È in tale gigantesco sistema che si produsse l’espansione dell’universo sulla quale dobbiamo soffermarci più a lungo.

Si può anche aggiungere, da un punto di vista puramente teorico, che la teoria sviluppata dal fisico russo Friedman era assai poco nota. Infatti, non la conoscevo nemmeno io ed essa non aveva avuto alcuna ripercussione nel mondo scientifico, soprattutto perché lo stesso Einstein aveva per qualche tempo gettato un dubbio sul suo valore.

È stato dunque necessario riconcettualizzare l’idea di uno spazio di raggio crescente, tenendo conto dello spostamento verso il rosso dello spettro delle nebulose extragalattiche – è il titolo del mio articolo del 1927 – e ciò in conseguenza delle equazioni sulla relatività di Einstein, utilizzando, ben inteso, la costante cosmologica.

Non ci si era ancora ben resi conto, a quell’epoca, dell’importanza della possibilità, introdotta da Einstein sulle orme di Riemann, che lo spazio nel quale viviamo sia uno spazio definito ellittico, uno spazio finito e senza limite.

È pertanto tale concezione che permette di scartare le difficoltà a prima vista invalidanti, presentate in maniera tanto netta nelle famose antinomie kantiane, che sembrano opporsi d’amblée a ogni teoria cosmologica soddisfacente.

Se rimaniamo ancorati alla concezione dello spazio come spazio come uno spazio euclideo, allora una regione vicina che siamo in grado di osservare, spazio prossimo che a quell’epoca non aveva un’estensione che di alcuni milioni di anni luce, che prolunghiamo ora serenamente ad alcune decine o centinaia di milioni di anni luce, non è [e non era] di per se stesso che un frammento prossimo, che un campione nell’insieme dell’universo, il quale restava sempre inaccessibile, ammesso che fosse realmente infinito.

La sola speranza esistente di disporre di un fondamento serio per conoscere l’universo sta proprio nel fatto che lo spazio coincida con questo spazio ellittico, lo spazio di Riemann, potenzialmente coperto da un numero finito di spazi prossimi. È quanto i matematici moderni esprimono dicendo che questo spazio potrebbe essere compatto.

Se, in tali condizioni, lo spazio prossimo che osserviamo rappresenta una parte di cosmo davvero significativa, se ne sono sufficienti qualche migliaia o qualche milione, per giungere davvero a coprire tutto lo spazio, ebbene allora diventa possibile, a partire dall’osservazione del nostro spazio prossimo, farsi un’idea significativa dell’universo nel suo insieme.

Purtroppo, non è così facile rappresentarsi questo spazio finito ma illimitato. Inoltre è davvero un peccato che negli ambienti scientifici moderni la tendenza non sia quella di farne conoscere le proprietà, né che l’insegnamento si orienti in tal senso.

Ben inteso, questo spazio è assai noto ai matematici, ma a causa dell’orientamento in voga tra i matematici moderni, quanti lo conoscono bene non vi legano alcun significato fisico e quanti potrebbero darvi importanza e potrebbero scorgerne la portata per la fisica ne conoscono assai male le proprietà.

Il punto essenziale è ben noto. È stato detto e ripetuto da lungo tempo: un medesimo oggetto si trova contemporaneamente nelle due direzioni opposte, davanti e dietro di noi, con distanze la cui somma costituisce una costante associabile a questa curvatura dello spazio, distanze che fermerebbero i nostri due raggi visivi opposti, seguendo i quali è possibile raggiungere questo punto remoto. Questa curvatura dello spazio definisce una lunghezza detta “raggio dell'universo”.

L’elemento essenziale consiste nel fatto che tale raggio dello spazio aumenta con il tempo, rappresenta l’espansione dell’Universo, e che esiste un fenomeno, lo spostamento verso il rosso delle nebulose, la cui interpretazione pressoché inevitabile è che esso misuri la variazione del raggio dell’universo.

Tale espansione non va vista come un’espansione in qualcosa, non essendoci, infatti, altro che lo spazio; essa rappresenta, piuttosto, un’espansione interna, una separazione progressiva uniforme in tutti gli oggetti ivi presenti: costituisce una variazione della grandezza dello spazio.

Ciò mi conduce molto lentamente a rispondere alla seconda domanda che mi è stata posta: dare nella maniera più semplice possibile un’idea delle teorie cosmogoniche che ho proposte.

Tale teoria è essenzialmente fondata sul fatto che, per una delle soluzioni dell’equazione di Friedmann, il raggio dell'universo, che attualmente aumenta, ha potuto avere un valore nullo e, in secondo luogo – circostanza ancor più importante – che nell’aumento del raggio dell'universo si possono distinguere tre periodi: un periodo di espansione rapida, un periodo di rallentamento nel quale l’universo si è trovato in maniera molto marcata nella condizione descritta da Einstein nel 1915 di un universo in equilibrio instabile, secondo l’espressione di Eddington, tale che quest’instabilità ha conseguenze che si è ben lontani dal conoscere in dettaglio; il terzo periodo è quello caratterizzato dalla ripresa dell’espansione nella quale ci troviamo ora.

È durante il periodo intermedio che si sono potute formare le nebulose e, per quanto riguarda lo studio dal punto di vista degli astronomi, è questo il periodo più importante, quello più interessante

Ciò che invece interessa maggiormente la gente comune è il periodo primitivo cioè quello in cui l’universo parte da zero, ed è proprio a tale argomento che si riferiscono le varie domande che mi sono state poste attraverso Radio-Canada; perciò è soprattutto su questo che debbo focalizzarmi.


Ci si può effettivamente domandare se il momento in cui il raggio dell'universo sarebbe partito da zero rappresenti davvero un principio dell’esistenza della materia o se, al contrario, essa non sia consistita in una sorta di rimbalzo, nella misura in cui l’espansione attuale sia stata preceduta da una contrazione precedente. Ho dato a una tale eventualità il nome di un universo “fenice”, poiché al momento del rimbalzo ogni struttura antecedente sarebbe stata polverizzata nel fuoco e, rimbalzando, l’universo rivivrebbe in qualche modo una nuova partenza, riprenderebbe una nuova vita, come la fenice della leggenda che, pare, rinasceva dalle proprie ceneri.

Una simile eventualità pone interessanti problemi filosofici. Ogni struttura del pre-universo è stata distrutta e quest’universo è dunque essenzialmente inosservabile, metafisico, nel senso peggiore che questo termine possa avere.

Eppure la domanda conserva un certo significato sul piano fisico, poiché potrebbe sussistere una grande differenza tra lo stato della materia in un universo che inizia una nuova vita, intendo dire una nuova espansione, con della materia danneggiata che è già servita precedentemente, e un universo vergine, formato di materia nuova. Nel primo caso, la materia è completamente degradata, vi si verifica l’equilibrio statistico, termodinamico, in uno stato di entropia molto elevata.

Nell’altro caso, quello di un autentico inizio, la nuova materia potrebbe essere dall’inizio più differenziata, non darebbe più necessariamente luogo a una distribuzione gassosa iniziale, quale la nebulosa di Laplace, che è così difficile sezionare, una volta che si sia formata, per giungere alle galassie e alle loro stelle.

Con della materia nuova, non si sarebbero date le condizioni per produrre l’uniformità del gas di Laplace. Dal momento che il  plasma primitivo ha potuto dar luogo a del gas, tale gas si è trovato distribuito in globuli o nugoli distinti e una delle difficoltà principali delle cosmogonie antiche svanisce da sola.

Queste idee assumono una forma ancor più marcata quando le si interpreti dal punto di vista della teoria dei quanti, secondo la quale l’energia esiste in un numero finito di pacchetti distinti, di quanti d’energia. Grosso modo si può affermare che l’entropia è il numero dei quanti e che la degradazione dell’energia altro non è che la sua inevitabile polverizzazione: «le cose si rompono più facilmente di quanto non si riparino». Quando l’energia è concentrata in quanti forti (i quanti della luce violetta sono due volte più grandi di quelli della luce rossa), quest’energia ha in sé delle possibilità più grandi. All’occorrenza, essa si degrada e tende fatalmente verso una dispersione totale, un pareggiamento perfetto di ogni temperatura in una condizione in cui non può più accadere nulla. Si tratta senza dubbio della condizione finale del mondo, per quanto la si possa immaginare.

Al contrario, il principio del mondo può rappresentare uno stato di entropia minimo, uno stato in cui l’energia non è presente che in un numero molto ridotto di quanti. Allora, l’inizio dell’estensione metrica dell’universo per un universo vergine, un universo che non costituisce un rimbalzo, può rappresentare un avvio della molteplicità quantica, uno stato in cui l’energia non esiste che in un solo pacchetto, e diviene espressione dell’idea di atomo primitivo che ho concepito nel 1931.

Non voglio esaminare qui quanto è possibile affermare dal punto di vista astronomico, in tema di plasma primitivo, del suo agglomerarsi in nubi gassose separate ed infine dell’ordinarsi di tali nubi in galassie formate di stelle e raggruppate in ammasso grazie al lento passaggio attraverso l’equilibrio instabile di Einstein-Eddington, né della possibilità che una parte del plasma primitivo sia sopravvissuto fino ai giorni nostri e che ci giunga nel fenomeno complesso denominato raggi cosmici.

Ritengo più conforme alle attese dei miei ascoltatori canadesi e alle domande che mi sono state poste a loro nome insistere sull’aspetto filosofico della teoria e sui suoi rapporti con il problema della creazione.

Se la materia è parte di un raggio di spazio nullo che coincideva con un avvio della molteplicità, la materia si trovava inizialmente in uno stato estremamente diverso da quello in cui essa è attualmente.

Molte delle considerazioni che ci potrebbero venir in mente sono essenzialmente fondate sulla nostra intuizione attuale e possono perdere ogni valore quando le si applichi ai primi stadi dell’evoluzione dell’universo.

Determinati problemi che hanno preoccupato i filosofi, e penso nuovamente alle antinomie kantiane, sarebbero infatti problemi ormai inesistenti, problemi malposti. Lo stesso varrebbe per il problema della creazione, non tanto in ciò che tale nozione ha in sé di propriamente ontologico nell’esprimere la dipendenza di ogni essere finito, nella sua essenza e nella sua realtà propria, di fronte a un essere Superiore. Da tale punto di vista, la creazione è essenzialmente continua, poiché, se tale dipendenza potesse cessare, l’essere finito non potrebbe continuare a esistere.

Tuttavia, questo termine può essere usato, in un senso meno profondo, per designare il principio, l’inizio dell’esistenza.

La difficoltà che si pone da questo punto di vista sta nel comprendere l’affermazione secondo cui un essere sia creato dal niente, invece di risultare dall’evoluzione naturale, a partire da stadi inferiori capaci di produrlo.

Si nota come la difficoltà risieda essenzialmente nell’intuizione attuale del mondo fisico, secondo la quale passato e futuro si espandono simmetricamente. Essa non si presenta più per un inizio del tipo di quello che stiamo discutendo qui. La materia si divide in frammenti e proviene da frammenti, meno numerosi, ma, se non esiste più di un quanto, non ci si può ragionevolmente attendere che essa proceda da uno stato più semplice.

L’inizio dello spazio (del suo raggio) e l’inizio della molteplicità rappresenta un avvio naturale; se se ne analizza la natura, si comprende che non si può dare passato, che non esiste uno stato anteriore, che occorrerebbe escludere affermando che esso è creato dal nulla.

Non si tratterebbe più di invocare un’azione ove Dio perderebbe il suo mistero ontologico, non rimarrebbe più, secondo la terminologia del profeta, il Dio Nascosto, ma s’abbasserebbe a una chiquenade iniziale ovvero, secondo l’espressione non meno spiacevole di Jeans, al “dito di Dio che agita l’etere” (a finger of God agitating the ether [in inglese nel testo francese]).

Il problema della creazione conserverebbe il suo significato metafisico, nel senso della dipendenza di ogni essere, nonché di noi stessi. «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui» [Col 1,16] e nulla di ciò che è stato creato è stato creato senza di Lui.  Ma tale problema sarebbe totalmente sganciato dalla cosmogonia, da tale singolare sfondo dello spazio-tempo in cui tutte le nozioni familiari svaniscono nell’assoluta semplicità.

Vengo ora all’ultima domanda che mi è stata posta: qual è il ruolo del caso in questa prospettiva?

È noto che il determinismo, ovverosia la negazione del caso, non è più ammesso dalla fisica quantistica. Nemmeno nelle applicazioni attuali di tale teoria, l’aspetto probabilistico dell’evoluzione entra in gioco nel mondo microscopico, dove sono determinanti i fenomeni quantistici. Nel mondo ordinario, macroscopico, i fenomeni quantistici non determinati sono così numerosi e così incoerenti che il gioco delle probabilità, la legge dei grandi numeri, ristabilisce praticamente una causalità, un determinismo altrettanto stringente quanto quello che poteva immaginare Laplace.

In seno alla teoria che vi ho descritto a grandi linee, accade la stessa cosa, almeno nella prima èra cosmica.

Ciò deriva dal fatto che, se nell’universo non sono presenti che un numero limitato di pacchetti d’energia, l’universo stesso diventa atomico. La distinzione tra macroscopico e microscopico è totalmente falsata.

Si può capovolgere la celebre espressione di Laplace e affermare che chi conoscesse l’atomo primitivo o i primi stadi della sua separazione non potrebbe in alcun modo dedurne le particolarità dell’universo incipiente.

Nel determinismo di Laplace tutto era scritto, l’evoluzione era simile allo srotolarsi di una banda magnetica registrata o delle spirali impresse sul disco di un fonografo. Tutto quello che si sentirà si sarebbe potuto leggere sulla banda o sul disco.

La situazione è del tutto differente nella concezione della fisica moderna e, nella teoria moderna, tale concezione si applica all’universo, almeno all’inizio della sua evoluzione.

Tale inizio è perfettamente semplice, indivisibile, indifferenziabile, atomico, nel senso greco del termine. Il cosmo si è differenziato nel corso della propria evoluzione. Non si tratta di uno srotolamento, della decodifica di una registrazione; si tratta di una canzone in cui ogni nota è nuova e imprevedibile. Il cosmo si crea e si crea a caso.

Questo è tutto quello che la fisica o l’astronomia sono in grado di dire. Non risulta comunque meno vero che fisica e astronomia non esauriscono tutta la realtà. Chi osservasse una macchina da scrivere in attività, potrebbe scoprire determinate leggi secondo le quali la battuta di un certo tasto causi l’impressione di un certo carattere attraverso l’impulso dato alla leva che lo porta. Nella misura in cui si limiti al punto di vista della fisica della macchina, l’osservatore dovrebbe ammettere che i tasti si abbassano senza alcun carattere di necessità fisica, dunque a caso sul piano fisico. Soltanto ponendosi su di un piano completamente diverso ed essenzialmente superiore, costui potrà desumere, dal funzionamento della macchina, se essa sia azionata da un poeta, da una scimmia, oppure da un pazzo.

La fisica non esclude la Provvidenza. Nulla succede senza il Suo ordine o il Suo permesso, anche se la dolcezza di tale azione non ha niente di miracoloso.

L’evoluzione, che sia quella dell’universo o del mondo vivente, si è potuta realizzare anche se lasciata al caso dei salti quantici o delle mutazioni. Ciononostante, tale caso, dal punto di vista superiore, si è potuto orientare verso uno scopo. Per noi cristiani, esso è stato orientato verso la manifestazione della vita. In ciò che è stato creato era presente della vita, dell’intelligenza e la vita era fatta di luce in seno all’uomo e poi in seno all’umanità tramite l’incarnazione dell’Uomo Dio: la luce vera che ha illuminato le nostre tenebre.

Il caso non esclude la Provvidenza. Forse è il caso a fornire i tasti azionati misteriosamente dalla Provvidenza.

     

(Traduzione dal francese di Paolo Zanna)

L'Espansione dell'Universo, (intervista) in Revue de Questions Scientifiques. Actualité, histoire et philosophie des sciences, tomo 138 n. 2, 1967, ripubblicata in tomo 183, n. 4, pp. 546-554