Universo

Anno di redazione
2002

I. Il nome di universo - II. La nozione metafisica comune di universo - III. L’universo nella prospettiva scientifica - IV. L'universo come questione filosofica - V. Dio e il cosmo.

I. Il nome di universo

Il termine «universo» serve per indicare abitualmente l’insieme fisicamente ordinato di tutte le realtà materiali della natura. L’etimologia latina del vocabolo allude al fatto che l’universo è costituito da molte cose diverse cioè da un unum in diversis, il che vuol dire che è un’entità collettiva, ovvero quella che comprende tutte le cose materiali esistenti nella natura. Questa nozione non va confusa con quella logico-matematica dell’insieme di tutte le cose, la quale nasce dalla semplice estensione del concetto di «cosa» tramite l’operatore quantificazionale «tutto» («tutte le cose»). Il concetto di universo quindi non è un caso limite della logica insiemistica e di conseguenza non è sottoposto ai noti paradossi dell’idea dell’insieme di tutti gli insiemi (che comprende e non comprende se stesso). In altre parole, l’universo non è semplicemente «il tutto», ma «il tutto fisicamente ordinato», dove l’accento è posto particolarmente sull’ordine fisico aperto (non puramente logico) osservato nella realtà tra i diversi quadri della natura (questo concetto verrà meglio precisato nella sezione II).

A tale ordine allude il sinonimo «cosmo», d’origine greca, racchiudente una connotazione di ordine, bellezza e armonia. I latini tradussero il termine greco kósmos col vocabolo mundus, mondo, il quale suggerisce l’idea di una realtà ordinata, pulita e bella. Mentre il concetto di «mondo» acquistò preferenzialmente un significato umanistico (il mondo come realtà dei rapporti sociali in generale o in particolare, cui sono associati termini quali «mondano», «secolare», spesso legati a un significato morale o religioso), «cosmo» e «universo» in generale ritennero un significato più naturalistico. Dato che il cosmo si presenta al primo sguardo umano sotto l’apparenza della volta celeste, se tralasciamo la realtà della terra o il “nostro mondo”, in pratica cosmo o universo significano l’insieme dei corpi celesti, ciò che costituisce l’oggetto dell’astronomia o, più ampiamente, della cosmologia, mentre si adopera il termine «macrocosmo» per il cosmo dalle massime dimensioni e quello di «microcosmo» per gli oggetti microfisici, che non sono alla portata della percezione ordinaria. I termini «natura» e «creazione» sono da considerarsi vicini al significato di cosmo ed universo. Nella Bibbia l’universo è spesso nominato con l’espressione «i cieli e la terra».

II. La nozione metafisica comune di universo

La nozione di universo come totalità fisicamente ordinata delle cose naturali corrisponde alla conoscenza comune di ogni persona, una conoscenza sensibile ma anche metafisica e di portata ontologica. Tutte le altre nozioni di universo poggiano su questa base originaria. L’uomo percepisce con i sensi e con l’intelligenza l’esistenza di cose o di entità naturali, una delle quali è lui stesso. Così come egli avverte l’esistenza di particolari insiemi ordinati di cose, quali una città, un’isola o una foresta, tramite la sua esperienza intelligente egli impara a poco a poco che tutte le cose sottoposte alla sua esperienza sono sempre in relazione reciproca (relazione spaziale, temporale e causale), arrivando così in una maniera molto naturale alla nozione di universo sopra indicata. L’universo in qualche modo “è visibile”, in quanto si manifesta nello spettacolo della natura terrestre e del cielo astronomico. Soltanto l’uomo lo “comprende” come universo, vale a dire come una totalità di enti in reciproco rapporto. Questo concetto quindi è collegato alle prime nozioni metafisiche della realtà, come ente, ordine, relazione, causa, spazio e tempo, anche se nelle diverse persone esso è arricchito da altre idee di natura mitologica, religiosa, scientifica o filosofica, da cui provengono le sfumature culturali proprie dei diversi ambiti geografici e storici.

L'idea di universo rimane sempre “aperta”. Noi ne percepiamo soltanto una parte, quella direttamente accessibile alla nostra esperienza, e non possiamo presumere di esaurire l’osservazione diretta o indiretta del cosmo, neanche a livello scientifico. Non possiamo sapere con certezza quanta parte dell’universo rimane inosservata. Questo fatto, del tutto normale a causa delle limitazioni della nostra capacità osservativa, non toglie validità alla nozione considerata. Per capire che cosa è l’universo e per percepirne l’esistenza non abbiamo bisogno di conoscerlo in ogni suo dettaglio, né di sapere ad esempio se sia finito o infinito, neppure di accertarne la precisa struttura. L’esperienza comune ci dà un’idea metafisica dell’universo, imperfetta ma sufficiente perché abbiano senso e possano essere vere le proposizioni cosmologiche della filosofia e delle scienze, nonché quelle della religione. Oggi siamo certi che le più sofisticate teorie cosmologiche nulla tolgono al carattere aperto del cosmo conosciuto da noi (“aperto” nel senso che potremmo conoscerne sempre più aspetti e più parti). Si può superare così l’apparente paradosso che porta talvolta a parlare di “altri universi” o di “altri mondi”, i quali in realtà, se sono in rapporto al “nostro cosmo”, sia pure in grado minimo, allora costituiscono tutti insieme il vero universo, di cui quello più direttamente conosciuto non ne sarà che una parte. Non si può escludere l’esistenza di altri cosmi completamente scollegati dal nostro, ma tale ipotesi resta per noi del tutto superflua.

A questo punto si comprende meglio una peculiarità spesso segnalata della nozione di cosmo, il fatto cioè che “ne conosciamo un unico caso” ovvero che esso sia un concetto universale con una sua unica realizzazione possibile (per noi). L’ordine e la struttura dell’universo potrebbero essere diversi da ciò che sono, e nessun motivo a priori consente di concepire l’universo conosciuto come esauriente tutte le possibilità strutturali o come includente tutte le forme possibili dell’ordine naturale (idea spesso denominata «principio di pienezza»). La nostra conoscenza dell’universo è empirica e a posteriori, e possiamo sempre pensare ad altre leggi del cosmo o della natura, da noi sconosciute sia a livello teorico che osservativo. Dal punto di vista teologico, l’idea che Dio, in quanto Creatore onnipotente, è sempre in grado di creare altri infiniti universi del tutto diversi da quello che conosciamo serve per affermare un’Onnipotenza che non si esaurisce nella creazione del nostro mondo. Questa tesi è tradizionale nella teologia: l’idea che Dio non possa creare che il nostro cosmo è legata ad un’ottica razionalistica e compromette la libertà e la trascendenza di Dio.

Com’è noto, Kant avanzò delle obiezioni all’idea “trascendentale” di cosmo, ritenendone problematico l’impiego scientifico o filosofico in un senso realistico (cfr. Critica della Ragion Pura, Bari 1989, vol. II, pp. 342-451). Mancherebbe all’idea di cosmo l’intuizione sensibile, la quale è sempre limitata ai fenomeni particolari della natura. Preso in un senso realistico, il concetto di universo produce secondo Kant le antinomie cosmologiche, per cui è possibile dare prova, ad esempio, tanto del fatto che l’universo sia finito quanto infinito, sia nel tempo che nello spazio (prima antinomia), o dimostrare che esso sia composto da parti semplici e al contempo da parti divisibili all’infinito (seconda antinomia). Cade in questo modo la possibilità di distinguere i processi cosmici naturali, contrassegnati dal determinismo, dalla libertà umana, e cade soprattutto la validità delle argomentazioni cosmologiche in favore dell’esistenza di Dio (conclusioni a partire dalla terza e quarta antinomia). L’idea di cosmo semmai dovrebbe avere secondo Kant un uso regolativo ed euristico nelle scienze e un impiego soltanto polemico-dialettico nella filosofia (oggi si direbbe: un uso “debole”, vale a dire caratterizzato da una razionalità debole) (cfr. Sanguineti, Scienza aristotelica e scienza moderna, 1992, pp. 190-199).

La critica di Kant è tutta basata su un’idea razionalistica di cosmo, da lui inteso come una “totalità chiusa” di cose. In verità la percezione naturale del cosmo di cui abbiamo parlato, pur essendo aperta, come abbiamo spiegato, contiene un valore metafisico e realistico (Kant, pur consapevole dell’apertura ad infinitum della percezione del cosmo, non vi scorge un valore gnoseologico realistico e così la riduce al piano puramente fenomenico). Veramente la nozione comune di universo gode di un adeguato sostegno empirico, pur sapendo che nessun aspetto intelligibile della realtà sensibile può essere esattamente tradotto nella sola percezione sensibile. Conseguentemente non c’è bisogno di risolvere la questione del carattere finito o infinito del tempo e dello spazio, né tanto meno di arrivare a una soluzione definitiva su questioni quali l’esistenza degli ultimi costitutivi della materia o delle ultime leggi della natura, affinché l’idea di cosmo goda di una portata metafisica realistica. Il cosmo come ordine aperto tra tutte le cose conosciute esiste veramente, e noi ne abbiamo una notizia imperfetta ma sufficiente per accertarne le caratteristiche metafisiche, ulteriormente aperte alle argomentazioni sull’esistenza di Dio come sua causa universale (cfr. Jaki, 1993; Sanguineti, 1986, pp. 178-181; Sanguineti, 1994, pp. 368-376).

III. L’universo nella prospettiva scientifica

Lo studio scientifico del cosmo quale sistema universale dei corpi in interazione, suscettibile di una descrizione fisico-matematica, è competenza della cosmologia, una disciplina collegata all’astrofisica e più ampiamente a tutte le altre branche della fisica. Sulle difficoltà critiche per poter pensare all’universo come oggetto scientifico, si veda E. Agazzi (1991) The Universe as a Scientific and Philosophical Problem. In prospettiva filosofica, abbiamo risolto tali difficoltà nel senso spiegato nella sezione II. Certamente lo studio scientifico del cosmo è in un particolare collegamento con la filosofia: «Lo stesso concetto di universo è un concetto tipicamente filosofico, e il fatto che la scienza lo abbia portato al suo campo di esame conduce necessariamente la scienza a quella interazione con la filosofia da essa conosciuta agli inizi e ritenuta cancellata in tempi più recenti» (Agazzi, 1991, pp. 33-34).

Prima della rivoluzione scientifica moderna galileiana e newtoniana, lo studio scientifico dell’universo (in un senso lato di scienza) corrispondeva alla astronomia. In particolare va tenuta presente la rappresentazione greca di stampo aristotelico e tolemaico che finì per imporsi nella cultura ellenistica e che venne trapassata nel mondo medievale, per essere alla fine scavalcata dall’astronomia di Copernico, Keplero e Galilei e dalla meccanica di Newton. La concettualizzazione greco-medievale del cosmo era incentrata sul geocentrismo e sulla grande divisione tra mondo celeste e terrestre. L’universo veniva concepito come una serie di sfere rotanti sovrapposte, cui appartenevano gli astri, con la terra al centro. Il mondo celeste era fatto da una materia eterea indistruttibile e inalterabile, soggetta a moti locali descriventi circoli perfetti a velocità uniforme, mentre la terra immobile restava il luogo degli enti soggetti a generazione e corruzione, secondo cicli naturali perpetui (ma l’insieme era considerato creato da Dio presso gli autori cristiani). La causa dei moti celesti, nella visione aristotelica e neoplatonica, era collegata a influssi non meccanici di natura intellettuale (intelligenze astrali, anima del mondo), al di sopra dei quali Dio agiva come Prima causa. Nonostante l’arbitrarietà di questa spiegazione, dovuta alla carenza di una dinamica dei corpi celesti, la descrizione cinematica dei loro moti nel modello tolemaico risultava parzialmente accomodata ai fenomeni noti in quell’epoca e perciò era da ritenersi discretamente scientifica. Nel suo insieme dunque l’universo antico era concepito come una grande sfera rotante finita. Il suo centro, la terra, non era il luogo più importante ma piuttosto il contrario, dal momento che era il posto degli enti soggetti alla mortalità. La visione cristiana invece introdurrà il primato dell’uomo, non solo nel senso del suo dominio sulla terra ma anche a causa della superiorità della persona umana su tutte le creature irrazionali.

Le conoscenze cosmologiche basate sulla fisica newtoniana e sull’astronomia dei secoli XVII-XIX prospettano un universo costituito da stelle disperse nello spazio infinito (cfr. Koyré, 1988). Soltanto la teoria einsteiniana della relatività generale consentì allo stesso Einstein di proporre nel 1917 un primo modello del cosmo in grado di dar ragione dell’unità complessiva del campo gravitazionale, reso identico alla geometria di uno spazio-tempo curvo nel quale è distribuita la materia-energia. D’allora in poi si sono succeduti numerosi modelli cosmologici basati sulla relatività di Einstein, i quali hanno la caratteristica di prendere in una maniera abbastanza rigorosa il cosmo come oggetto di descrizione scientifica, al punto di poter individuarne, tramite la soluzione delle equazioni gravitazionali, delle proprietà quali il volume, la curvatura e la massa. La scoperta della recessione delle galassie, interpretata come espansione dell’universo, rese evolutivi questi modelli cosmologici. In questo senso si può dire che oggi disponiamo di un’immagine scientifica unitaria e assai precisa della struttura evolutiva del cosmo, basata sia sull’osservazione che sulla teoria fisica. Gli studi termodinamici e le diverse scoperte relative alle particelle elementari (nuclei atomici e successivamente modello standard delle particelle) sono in buona sintonia con la descrizione scientifica dello sviluppo del cosmo a partire dal cosiddetto Big Bang, con la successiva apparizione delle particelle, ovvero con la separazione delle quattro forze fondamentali della natura (gravitazionale, elettromagnetica, nucleare debole e nucleare forte), susseguita dalla formazione dei nuclei, degli atomi, delle prime aggregazioni atomiche e della posteriore formazione delle strutture galattiche e stellari. La scoperta della «radiazione cosmica di fondo» (1965) consentì di tracciare anche l’evolvere della radiazione nel cosmo, dopo la sua separazione dalla materia al tempo usualmente denominato “del disaccoppiamento tra materia ed energia” (circa 300.000 anni dopo il Big Bang, secondo la stima abituale) (cfr. Coles e Lucchin, 1995; Dallaporta, 1986; Gratton, 1992; Lucchin, 1990; Masani, 1980 e 1996).

Il modello standard del Big Bang, maturato negli anni ’70 del XX secolo, ha fornito un’immagine abbastanza coerente sia della struttura di fondo del cosmo, a base particellare e radiativa, sia della sua evoluzione, specialmente nei primi momenti della sua vita. Il cosmo si manifesta quindi unitario, in linea di principio finito, originatosi nel lontano passato ed evolvente verso situazioni macroscopiche che consentono la comparsa della vita sotto certe condizioni, quali si conoscono oggi con sicurezza soltanto nel nostro pianeta. Dal punto di vista gravitazionale il cosmo si manifesta in espansione e si discute se nel lontano futuro la sua sorte sarà l’indefinita espansione o la contrazione col conseguente collasso gravitazionale. Nella prospettiva termodinamica il futuro del cosmo appare caratterizzato da un progressivo e irreversibile incremento di entropia, il che non lascerebbe spazio nel lontano futuro all’organizzazione della materia propria delle strutture stellari e delle realtà organiche.

Le teorie quanto-gravitazionali, al giorno d'oggi molto speculative, cercano di spiegare il Big Bang nel quadro di un’unificazione della gravitazione con le altre tre forze fondamentali, oppure della correlativa unificazione tra la teoria della relatività, competente per la gravitazione, e le teorie quantistiche. Queste ultime teorie sono state finora applicate, sul piano del formalismo matematico, alle forze forte, debole ed elettromagnetica, ma dal punto di vista sperimentale ne è stata trovata conferma finora nell’unificazione della forza elettrodebole (forza elettromagnetica e debole), mentre si è ancora in attesa dell’unificazione tra l’interazione elettrodebole e l’interazione forte (Grand Unification Theory, GUT). Il problema dell’unificazione delle forze è una sfida per la fisica teorica del futuro e avrà conseguenze per l’immagine del cosmo in evoluzione (cfr. Isham, 1993; Castagnino, 1995, in La cosmologia come problema scientifico e storico-filosofico).

L’immagine di un cosmo espansivo che evolve sin dal Big Bang e manifesta a poco a poco la potenzialità di venir strutturato in un determinato modo è un quadro limpido e lineare, benché soggetto a certi dubbi e perplessità oggi discussi, come ad esempio la determinazione più precisa della costante di Hubble (H0, ritmo espansivo del cosmo), un problema collegato alla misurazione delle superdistanze cosmiche e all’età del cosmo, nonché alla questione dell’accertamento preciso della sua densità. Una contraddizione tra dati osservativi e calcoli teorici relativi al cosmo in generale, come pure una mancata coerenza tra i parametri numerici che intervengono nelle teorie cosmologiche, porterebbe a una crisi di certe versioni della teoria del Big Bang. Più problematica è la questione dei primissimi momenti dell’evento espansivo, dove intervengono i «modelli di inflazione» e alcuni tentativi parziali di unificazione quanto-gravitazionale. In linea di massima le tesi per ora molto speculative di un universo nato da un evento quanto-gravitazionale, denominato spesso, in sede scientifica, «creazione dal nulla», o dal vuoto quantistico, o altre ipotesi che parlano di una proliferazione di universi, uno dei quali sarebbe il nostro, rimangono ancora scientificamente poco collaudate, per cui non appare prudente avanzare al riguardo troppe speculazioni filosofiche. Il terreno di discussione è a questo livello ancora un cantiere aperto e sono da aspettarsi delle novità nei prossimi anni, le quali potrebbero sconvolgere la ricerca cosmologica in una maniera imprevedibile.

In definitiva, nell’odierna prospettiva scientifica il cosmo si potrebbe definire come «il sistema universale dei corpi in interazione, sottoposto a identiche leggi scientifiche». Il quadro della sua struttura ed evoluzione fino a un certo punto ci è ben conosciuto. Le questioni che concernono invece la sua origine ultima, il suo ultimo destino e le ultime leggi che ne comandano unitariamente la dinamica restano incerte. In altre parole, manca appunto la “conoscenza scientifica ultima” del cosmo, il che, d’altra parte, è caratteristico di tutta la conoscenza scientifica. Un’altra forma di esprimere questo concetto è l’affermazione della radicale incompletezza del sapere scientifico, un punto situato agli antipodi della concezione razionalistico-riduttiva della scienza.

IV. L'universo come questione filosofica

Le difficoltà critiche della nozione metafisica comune di universo, considerate nella sezione II, non sono un ostacolo per l’elaborazione di una teoria filosofica del cosmo. Questa teoria, concezione metafisica o come altro la si voglia denominare, ordinariamente non manca negli approcci culturali dell’uomo, almeno a un certo livello speculativo. La ricerca scientifica, le esplorazioni geografiche o spaziali, le interpretazioni filosofiche predominanti nelle culture nonché le dottrine religiose contribuiscono alla definizione di una concezione del cosmo. Inoltre, il cosmo si proietta sulla natura come uno sfondo dell’ambito quotidiano in cui si svolge la nostra vita. Domandarsi che cosa sia il cosmo e quale sia al suo interno il ruolo dell’uomo (cfr. Scheler, 1997) corrisponde allo stesso nucleo della filosofia, la quale non per nulla cominciò quasi sempre come cosmologia. Questa domanda appartiene essenzialmente alla dignità dell’uomo e lo contraddistingue dagli animali. Sin dai primi momenti della civiltà l’uomo adopera una cosmologia e la esprime nell’arte, nella religione, nella scienza e nella speculazione filosofica. La domanda sull’universo è anche parte della domanda dell’uomo su se stesso.

Presentiamo in questa sezione, a titolo di esempio, alcuni elementi fondamentali della filosofia dell’universo di un filosofo insieme classico e cristiano quale Tommaso d’Aquino, non in chiave storica, ma selezionati e semplificati allo scopo di una impostazione speculativa del problema (cfr. Sanguineti, 1986; Blanchette, 1992). D’altra parte i tratti su cui ci soffermeremo sono in buona misura comuni a tutta la tradizione filosofica cristiana, sia pure con sfumature diverse (Dionigi Areopagita, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Nicola Cusano). La visione del cosmo dei classici dell’Antichità non cristiana si potrebbe dire in termini generali “naturalistica” o, se vogliamo, “cosmologistica”, nel senso che l’uomo è subordinato al cosmo-natura, una visione che sarà capovolta dalla metafisica del cristianesimo, che è invece “creazionista” e “personalista” (primato della persona nel cosmo e sul cosmo). La cosmologia filosofica dei moderni segue ovviamente gli indirizzi propri delle diverse posizioni filosofiche — idealismo, razionalismo, materialismo, ecc. —, ma non di rado è contrassegnata dal dualismo coscienza-mondo oppure dall’abbandono della prospettiva metafisica. D’altra parte, la cosmologia nella filosofia moderna e contemporanea deve fare i conti con le scienze, concretamente con l'impostazione fisico-matematica emersa dalla rivoluzione scientifica. Inoltre la cultura e la tecno-scienza moderna sottolineano il ruolo attivo e non puramente contemplativo dell’uomo nel cosmo. Di fronte a queste posizioni, la concezione cosmologica dei classici cristiani, e in particolare quella dell’Aquinate, è caratterizzata da un “cosmocentrismo relativo” (l’uomo è implicato nel cosmo e la natura viene vista specialmente in termini di cosmo), da un “antropocentrismo relativo” (ruolo preminente dell’uomo nell’universo) e da un “teocentrismo radicale e assoluto” (il senso dell’universo, realtà contingente, sta in Dio Creatore). I riferimenti senza autore che seguiranno appartengono a Tommaso d'Aquino.

1. Unità molteplice ordinata. Il primo aspetto da rilevare nella concezione cosmologica metafisica di Tommaso è l’intuizione del cosmo quale unità ordinata del molteplice. Gli enti individuali non bastano a se stessi e quindi sono necessariamente ordinati gli uni agli altri. Essi si comunicano a vicenda le loro perfezioni e così sorgono naturalmente svariate strutture nei quadri della natura: ordine tra individui di un medesimo livello ontologico, ordine tra gruppi eterogenei (cfr. In de Divinis Nominibus, lect. VII-IX). Tali strutture possono essere basate sulla disposizione spaziale, sulla comunicazione causale e sulla successione nel tempo: tutte e tre sono collegate e danno luogo all’ordine diacronico dei grandi sistemi collettivi. Nell’ambito più universale, tale sistema è l’«universo», in definitiva la realtà materiale nella sua disposizione universale nel tempo e nello spazio, tenendo conto di tutte le differenze qualitative e ontologiche. Nessuna entità è totalmente isolata nel cosmo: ciascuna contiene rapporti mediati o immediati con tutte le altre, costituendo nell’insieme un’unità strutturata.

2. Cosmo e trascendentali. L’universo si può considerare alla luce dei cosiddetti «trascendentali dell’essere», concetti esprimenti in parecchi modi le perfezioni dell’essere. Nei paragrafi precedenti ci siamo messi nella prospettiva dell’unità: l’universo è uno, non in un banale senso numerico, ma in quanto tramite l’ordine esso integra in unità quanto di per sé sarebbe disperso ed isolato. Ci sono però molti modi di essere uno, poiché non è identica l’unità dell’organismo, di una macchina o di un’entità collettiva. Tutti i trascendentali, applicati all'universo o alle diverse entità che lo compongono, si realizzano «analogicamente» e non in maniera univoca. L’unità del molteplice è contrassegnata in ogni caso dall’ordine, e l’ordine richiama a un insieme di «relazioni». Le parti del tutto unitario sono collegate tra di loro e i diversi collegamenti non sono che intrecci reali tra gli uni e gli altri, dove a ciascuno spetta un suo ruolo. L’ordine non è monotono, ma svariato nelle sue modalità, poiché una cosa si rapporta alle altre secondo precise condizioni (questo rapporto nella filosofia di Tommaso d’Aquino si dice «proporzione»).

L’intelligenza umana coglie le relazioni (e ne introduce anche delle nuove), per cui l’universo, come ogni realtà dotata di ordine, possiede anche il trascendentale dell’intelligibilità. La comprensibilità del mondo costituisce la via razionale per ricondurre la contemplazione dell’universo ad una Intelligenza suprema e originaria. D’altra parte l’ordine complesso delle cose manifesta tratti contingenti ed è dosato in ogni forma di essere. La mancanza dell’ordine “dovuto”, cioè la privazione e non la semplice assenza dell’ordine, produce il “male”; per esempio il male fisico nei viventi è costituito dalla privazione di adeguate relazioni tra i costitutivi dell’organismo. In altre parole, il male nasce dalla mancanza di una dovuta proporzione, il che significa una privazione ontologica. Conseguentemente l'universo si rivela come “buono” (è il trascendentale del bene), ma, nella misura in cui manchi ordine nel mondo, il bene sarà minore e arriverà ad essere un male se si introduce un disordine contrario alla natura delle cose. Il bene o la concordanza ben proporzionata tra le cose dell’universo si dice anche «armonia» (termine preso dalla musica). Il bene, l’intelligibilità e l’unità del cosmo ne dimostrano la «bellezza», vale a dire la bontà e l’intelligibilità dell’essere in quanto si offrono alla contemplazione (bello è ciò che ci si compiace contemplare).

Infine l'universo in quanto «ente», il trascendentale principale, ne rivela le caratteristiche profonde nell'ambito dell'essere, ciò che esso è o quale tipo di entità è: si può dire in questo senso che l'universo non è una sostanza né un individuo, né un essere animato, né una persona, né un prodotto del pensiero umano, né Dio stesso, ecc. Il mondo è una grandiosa e universale «unità di ordine, naturale e collettiva, costituita da molti enti naturali in interazione causale e soggetta al divenire» (cfr. Summa theologiae, I, q. 47, a. 3), contenendo perciò molte potenzialità che si sviluppano nel tempo. Dal punto di vista quindi più rigorosamente metafisico (e anche teologico), l'universo si può vedere come «l'insieme ordinato di tutte le creature». La sua unità procede da Dio (l'Essere assoluto) e dalla sua partecipazione e comunicazione nell'essere.

Abbiamo così accennato alle manifestazioni dell'essere del cosmo: unità, intelligibilità, bontà e bellezza, tutti aspetti ad esso immanenti, palesi dinanzi a qualsiasi livello dello sguardo contemplativo dell’uomo, sin dallo spettacolo del cielo stellato fino alle meraviglie della natura scoperte dalle scienze. In alcuni casi è più manifesto l’ordine statico del cosmo, come avviene nella contemplazione del cielo stellato, mentre in altri casi se ne mostra l’ordine dinamico, come quando si contempla lo spiegamento delle forze della natura e le grandi trasformazioni cui è sottoposta. Non occorre un particolare sviluppo scientifico per capire la realtà ontologica del cosmo, dal momento che qualsiasi livello di considerazione la rivela globalmente, benché sotto una determinata prospettiva. L’approfondimento scientifico allarga il materiale su cui tale contemplazione ricade, mentre la filosofia aumenta l’intensità della riflessione su ciò che è propriamente trascendentale, appunto perché la filosofia (o la metafisica) studia ogni cosa dal punto di vista dell’essere.

3. Gradi ontologici. Nella concezione di Aristotele e di s. Tommaso l'ordine interno dell'universo è costituito in una maniera stratificata: la natura presenta “strati” o “gradi di perfezioni”, progressivamente più complessi, un fatto ovvio ma anche confermato e ampliato dalle attuali conoscenze scientifiche. I gradi più alti sono dotati di qualità emergenti rispetto ai gradi più semplici ed elementari (cfr. Contra Gentiles, II, c. 68 e IV, c. 11). Gli elementi inorganici vengono meglio organizzati nelle sostanze organiche, poi si risale al regno della vita, nel quale si passa dagli organismi unicellulari a quelli pluricellulari, dai vegetali agli animali, fino ad arrivare agli animali superiori e finalmente all'uomo. Gli strati inferiori sono il supporto materiale di quelli più alti. Dai primi strati proviene l'unità materiale del cosmo, costituita dalla presenza di un identico materiale organizzato in forme sempre più complesse, per cui si può anche parlare di un'unità genetica del cosmo (eccettuandone lo spirito dell'uomo), dal momento che nella linea dell’evoluzione si osserva la progressiva comparsa di strutture più organizzate a partire da una base materiale potenziale preesistente. I gradi più alti aggiungono nuove perfezioni all'universo, in quanto ogni grado superiore (organismi, coscienza animale, autocoscienza umana) contiene sempre una maggiore unità, bontà, capacità operativa, in definitiva una maggiore densità ontologica. Il livello più alto incorpora a suo modo le proprietà degli strati inferiori, sia per quanto riguarda gli individui sia rispetto alle entità collettive (gruppo, macrogruppo, popolazione animale, comunità umana).

Per questo motivo l'uomo nella tradizione classica è stato visto come un «microcosmo» (cfr. Summa theologiae, I, q. 91, a. 1), in quanto egli concentra nel suo corpo, in una peculiare armonia, gli elementi fisici della natura inferiore. Ora, gli individui degli ambiti inferiori (particelle, atomi, ecc.) sono destinati a costituire la grandi composizioni macroscopiche dell'universo (stelle, galassie, pianeti), mentre l'individualità vivente acquista un valore proprio (maggiore autonomia nell'agire, finalismo più accentuato), il che risulta già ovvio nel caso degli animali ma è enormemente più accentuato nella persona umana. Anche la capacità di comunicazione tra gli individui di specie più alta è più elevata, fino ad arrivare alla persona umana, che comunica con gli altri non solo fisicamente bensì attraverso la conoscenza e l'amore. In definitiva, la perfezione dell'uomo comporta una capacità comunicativa profonda e universale, e così egli arriva al rapporto con lo stesso Dio mediante il proprio agire spirituale.

Come accennavamo prima, nel grande scenario dell'universo le perfezioni trascendentali — entità, unità, bontà, intelligibilità, bellezza — si realizzano analogicamente in ogni singolo grado della scala dell'essere. Ogni manifestazione dell'essere contiene un modo proprio di possedere l'unità, la bontà, la potenza attiva e causale, l'autonomia individuale o immanenza, l'apertura agli altri o trascendenza e il dinamismo teleologico. Ad esempio, i viventi cominciano a manifestare un finalismo più interiorizzato, e la persona si orienta al fine con coscienza e autodeterminazione.

L'ordine cosmico quindi non porta a pensare, come è abituale fare, al solo spiegamento dei corpi nello spazio celeste. Più importante ancora è considerarne i gradi ontologici (cfr. Sanguineti, Uomo e cosmo nella filosofia di s. Tommaso, 1992). Solo che i classici, prima dell'avvento della scienza moderna, pensavano in maniera spesso mitologica all'universo astronomico come se fosse un mondo superiore alla terra, quasi organico, disorientati com'erano dalla sua perfezione matematica, più apparente nel cielo che nei fenomeni terrestri. In realtà l'universo galattico e stellare, in quanto sistema non vitale costituito da radiazioni, particelle elementari ed elementi chimici, possiede un contenuto ontologico molto minore di quanto possiamo osservare sulla terra, il pianeta della vita e dell'uomo. Le energie dell'universo e le sue dimensioni straordinarie impressionano molto, ma niente tolgono alla superiorità ontologica della terra come luogo che ospita la vita intelligente, nonostante le sue insignificanti dimensioni e le sue modeste condizioni energetiche. Questo fatto ovviamente sarebbe ridimensionato se fosse scoperta l'esistenza di vita in altre regioni dello spazio, ma sarebbe in verità, sotto un certo aspetto, confermato anziché smentito. Ciò che conta infatti è la superiorità della vita, anzi della vita razionale. Tale superiorità della vita senz'altro è limitata, dal momento che ciò che è più alto, nel cosmo fisico, dipende materialmente dai livelli inferiori, ovvero concretamente dipende da essi per trovare le necessarie risorse energetiche e per avere l'ambito ecologico dove poter svolgere la propria esistenza. Sotto queste condizioni l'uomo, malgrado la sua piccolezza fisica, si dimostra superiore a tutto l'universo fisico, in quanto con la sua intelligenza egli è in grado di svelarne tanti segreti. L'atomo o la stella, ad esempio, presi come oggetti di studio scientifico, sono “al servizio” dell'uomo in quanto sono “naturalmente disponibili” per qualsiasi ricerca eseguita da un essere razionale e autocosciente. Ora, quanto si dirà in seguito sulla superiorità dell'uomo nell'universo non comporta un antropocentrismo ingenuo, dal momento che lo stesso discorso sarebbe applicabile a eventuali esseri razionali esistenti altrove nel cosmo.

4. La situazione dell’uomo. Nella visione di Tommaso dell'ordine universale, indipendente dal geocentrismo astronomico, il cosmo contiene dunque un ordine “immanente” rapportato, in definitiva, a un ordine “trascendente”. L'ordine immanente o interno al cosmo è costituito, come dicevamo, dai rapporti reciproci tra tutti gli esseri dell'universo (cfr. Aristotele, Metafisica, XII, 10, 1075a; Tommaso d'Aquino, In XII Metaph., lect. 12). Questi rapporti delineano una “scala dell'essere”, flessibile ma reale, nel senso già spiegato, vale a dire che le cose più semplici ed elementari fungono da base materiale per le realtà più complesse e perfette. Però nell'arrivare all'uomo, essere razionale, si produce un salto all'infinito. L'uomo non è semplicemente l'animale più organizzato e meglio dotato. Con la sua intelligenza e la sua libertà egli si colloca in un rapporto diretto con l'essere del mondo intero, in quanto può comprenderlo speculativamente e può dominarlo con la tecnica, sia pure entro certi limiti fisici e morali. Inoltre l'uomo trascende l'universo e volge il suo sguardo contemplativo e il suo desiderio di amore verso Dio stesso, Creatore dell'universo («il fine dell'anima umana e la sua ultima perfezione è che essa, attraverso la conoscenza e l'amore, trascenda tutto l'ordine delle creature e raggiunga il suo primo principio, che è Dio»: Contra Gentiles, II, c. 87). L'uomo dunque appartiene intimamente all'universo e al contempo lo trascende del tutto. Nella visione di Tommaso, e in realtà di tutti gli autori cristiani, l'aspetto centrale dell'ordine interno dell'universo è il fatto che la sua parte materiale è ordinata alle creature intelligenti e che proprio “attraverso tale ordine” essa raggiunge come fine il suo Creatore: l'uomo è la finalità interna del dinamismo dell'universo (cfr. Contra Gentiles, III, c. 22).

5. Il primato della persona. L'ultimo punto poc'anzi indicato si riferisce non solo all'uomo come specie (o come umanità), ma soprattutto all'uomo come persona. In coerenza con quanto visto prima, l'individualità umana acquista un valore diverso di quella in vigore nel mondo irrazionale. Gli individui irrazionali, pur consistenti in se stessi, nel contesto dell'armonia cosmica sono destinati fondamentalmente all'utilità della loro specie, come se ne fossero quasi una parte, mentre le specie inferiori, pur col loro valore proprio, sono naturalmente in funzione di altre specie dell'universo. Questo punto può essere collegato al fenomeno dell'evoluzione, dal momento che così si può comprendere come una specie possa esistere per un periodo limitato di tempo in funzione di altri eventi e di altre perfezioni che emergeranno più tardi nello sviluppo della natura. Tuttavia considerare l'uomo esclusivamente sotto questo punto di vista sarebbe subordinarlo alla natura. Nella visione cristiana del cosmo, una visione che è anche filosofica, l'uomo vale come persona per se stessa e non solo in quanto parte della totalità universale (cfr. Contra Gentiles, III, cc. 112-113; si veda anche Gaudium et spes, 24). Il rapporto con gli altri simili e con il mondo nulla toglie alla dignità di ogni persona, anzi è proprio questo a realizzarla pienamente: l'uomo trova nel mondo fisico (inferiore a lui) una realtà “da contemplare” a causa della sua bellezza immanente, e “da usare” a causa del suo carattere non razionale (cfr. Contra Gentiles, III, c. 78: dominio naturale degli esseri intelligenti sulle altre creature), mentre egli scopre nei suoi simili dei soggetti con cui comunicare e convivere, in reciprocità di amicizia, alla fine di raggiungere insieme a loro le finalità proprie dell'esistenza umana.

Il primato della persona nell'universo non cancella il valore della natura e non la riduce a una pura funzione strumentale, come accade invece nelle ideologie tecnologistiche, oggi giustamente criticate da diverse istanze filosofiche, culturali ed etico-politiche (cfr. H. Jonas, Dalla fede antica all'uomo tecnologico, Bologna 1991; Sanguineti, 1998), anche dalla prospettiva del pensiero cristiano (cfr. Centesimus annus, 38). L'uomo non è un padrone assoluto della natura, ma piuttosto un amministratore del creato. Egli deve custodire e non distruggere la realtà naturale nella sua armonia e integrità. Il suo dominio tecnico sulle cose materiali si traduce nel lavoro, mediante il quale egli sviluppa le potenzialità della natura per sconfiggere, nei limiti del possibile, i mali fisici e per così superare, le ristrettezze dell'esistenza materiale. La tecnica comunque non esaurisce la “signoria” della persona umana sulla creazione materiale. L’uomo si mostra signore delle cose anche nell'uso sobrio dei beni materiali, non riponendo in essi un fine assoluto e incondizionato. In definitiva, di fronte all'universo, l'uomo esercita la sua capacità contemplativa, religiosa, morale, artistica e tecnica. L'universo rende all'uomo il servizio — in modo inconsapevole — di mostrargli la sua perfezione ontologica, le sue potenzialità, anche la sua contingenza e limitatezza. Fondamentalmente, il rapporto uomo-universo deve essere “sapienziale”, il che ha notevoli conseguenze anche sul piano etico. L'uomo trova nell'universo una strada naturale verso Dio.

6. Il finalismo nel cosmo. Sempre secondo l’Aquinate, l'ordine immanente dell'universo manifesta un finalismo interno alla natura. Anche il finalismo va concepito in maniera analogica. La teleologia interna al mondo non vivente sta nella sua meravigliosa e inesauribile strutturazione articolata e inoltre nella sua capacità di servire di sostegno alla vita. Si tratta di strutturazioni che non hanno necessariamente una forma “deterministica”, e che per questo possono avere a che fare con fenomeni casuali, eventi cioè non previsti dalla natura in modo determinista, che possono presentarsi entro certi margini di possibilità o che sono poco probabili o rari. L'esistenza della probabilità (non del puro caos) nell'universo comporta una teleologia soggetta alla “contingenza”, ovvero la possibilità di difetti oppure di semplici variazioni rispetto alla norma. Ora, nel mondo inorganico la variabilità e l’imprevedibilità non si presentano come un male, bensì come condizioni di potenzialità che rendono flessibili e più ricche le possibilità dell'agire fisico. Nei viventi, invece, la possibilità di varianti va compresa all'interno dei fini della vita stessa, la quale viene sempre sperimentata come un valore proprio, la cui affermazione (conservazione, crescita, propagazione) appare sempre come un bene, mentre la sua negazione (malattia, morte) è un male. Nella prospettiva dei gradi dell'essere, il disordine o il male (corruzione e morte) di solito si manifestano come una scomposizione dell'ordine superiore (predominio del caos o della pura accidentalità), fino alla caduta in un ordine inferiore (ove esiste pur sempre un minimo di ordine).

La vita organica del cosmo risulta finalizzata a se stessa in un quadro di contingenza, in quanto resta limitata nel tempo ed è condizionata dalle circostanze ambientali. Nel suo insieme, l'universo della vita è armonioso, ma comporta la necessità di lottare contro gli ostacoli e di trovare le risorse indispensabili per la sopravvivenza. Nell'uomo la finalità naturale è avversata dal disordine volontario o morale (il peccato), il quale reca un danno all'armonia del creato, perché con esso l'uomo perde la sua amicizia con Dio. Non di rado l’ingiustizia e il male morale hanno conseguenze distruttive nell'ambito fisico. Il peccato comporta un rapporto sbagliato e antinaturale dell'uomo con l'universo, ovvero con le realtà create, da cui nasce una situazione di disordine o perfino di violenza.

Dando uno sguardo alla comprensione contemporanea dell'universo e della vita, si potrebbe dire che il fenomeno dell'evoluzione, così come oggi lo conosciamo, rende più trasparente il finalismo naturale nel suo sviluppo temporale. L'esistenza di un tale finalismo è stata recentemente invocata da alcune interpretazioni filosofiche del cosiddetto Principio Antropico: l'universo, sin dai suoi primi momenti appare dotato di certe condizioni iniziali, matematicamente molto strette, le quali sono le uniche in grado di consentire la comparsa della base chimica necessaria per la vita. In realtà la vita stessa, perfino nelle sue forme più semplici, richiede condizioni interne ed esterne altamente improbabili: il Principio Antropico estende di fatto la segnalazione di tale improbabilità all'ambito del cosmo stesso. L'azione di meccanismi auto-selettivi ed uno sfondo di “creatività” inerente alla natura (auto-organizzazione), ancora da approfondire scientificamente, sono al servizio di uno sviluppo del cosmo che vede il progressivo affermarsi, quanto meno in un luogo come la terra, di strutture vitali sempre più complesse e perfette, nonostante la radicale contingenza di questi processi (sottomessi sempre, ad esempio, al rischio di una catastrofe ambientale). Questa catena di forme ontologiche sempre più perfette evidenzierebbe un finalismo naturale, il quale appare di fatto orientato alla comparsa dell'uomo.

Ciò che da autori come Tommaso d'Aquino veniva affermato in una cornice stazionaria e da altri come Agostino era visto nel quadro di uno sviluppo temporale dell'universo, vale a dire l'orientamento teleologico del cosmo all'uomo, è ugualmente applicabile ad un'interpretazione filosofica dello sviluppo evolutivo della vita nella prospettiva scientifica attuale. Certamente i punti qui accennati ricevono una luce superiore dalla teologia cristiana: nel messaggio biblico esiste una diretta intenzionalità divina di creare l'uomo e la donna successivamante alla creazione dell'universo materiale e quasi come suo coronamento.

7. Il futuro dell’universo. Lo sviluppo temporale dell'universo porta inevitabilmente a pensare al futuro del cosmo. Oggi è praticamente esclusa sul piano scientifico la tesi di una ricorrenza ciclica eterna del cosmo, mentre pare maggiormente sostenibile quella di un universo in evoluzione che finirebbe col confluire in uno stato di degrado finale, secondo la previsione termodinamica della cosiddetta «morte termica» (a causa dell'incremento complessivo di entropia nel cosmo). La tesi secondo cui l’universo potrebbe continuare a manifestare una inimmaginabile creatività, anche mediante il contributo di nuove forme di vita, non è scartabile a priori, ma per il momento è priva di sostegno scientifico. Veramente né la scienza né la filosofia possono risolvere con certezza incontrovertibile il problema del destino “ultimo” del cosmo: la scienza a causa dei suoi noti «problemi di incompletezza» e la filosofia a causa dei suoi limiti gnoseologici e speculativi. Una distruzione completa e definitiva dell'ordine del cosmo, ovvero un suo decadimento verso uno stato sempre più semplice ed elementare, sarebbe una sorta di assurdo filosofico e contraddirebbe quella teleologia che pure pervade il cosmo e che cade sotto i sensi sia dello scienziato che del filosofo. Tenendo inoltre presente la dignità dell'uomo e il valore della persona, un annientamento totale della specie umana, nel quadro di una morte cosmica assunta a parola ultima, prescindendo da qualsiasi dimensione meta-fisica o meta-temporale, apparirebbe senza dubbio qualcosa di antropologicamente antinaturale. Ma la filosofia non può dire che cosa succederà all'uomo nel futuro del cosmo.

V. Dio e il cosmo

La filosofia ha visto tradizionalmente nell'ordine meraviglioso e insieme contingente dell'universo la manifestazione di una causa trascendente denominata «Dio». Le tradizionali “prove” dell'esistenza di Dio sono principalmente cosmologiche. Così come la ragione umana scorge nei fenomeni sensibili immediati l'esistenza di cause nascoste alla visione sensibile, ma vere ed operanti, appare logico interrogarsi sulla causa dell'universo, della sua unità, intelligibilità, bontà e perfezione, graduata e temporale, nell'essere.

La domanda non si riferisce ai singoli processi particolari del cosmo, né ai problemi concreti cui la scienza sul piano fisico non è ancora in grado di fornire una risposta. La scienza presuppone l'esistenza dell'universo e si limita ad accertare o ad ipotizzare altri elementi o condizioni del cosmo che ne spieghino lo stato attuale, oppure essa ne scopre le leggi che regolano l'andamento dei fenomeni fondamentali della realtà materiale (per esempio leggi gravitazionali, elettromagnetiche, ecc.). La domanda filosofica o metafisica sulla causa dell'universo si colloca in un'altra prospettiva, per cui è indipendente dallo stato delle scienze in una determinata epoca. A causa della radicale contingenza dell'universo — il suo essere non è assolutamente necessario —, la scienza non potrà mai arrivare ad una spiegazione ultima delle leggi fisiche, dal momento che sempre si potrà ignorare qualcosa di più totalizzante, che riveli la natura limitata e particolare delle leggi considerate relativamente ultime in un certo periodo della storia della scienza.

L'ultima risposta alla domanda sulla causa dell'universo quindi non è di tipo fisico, per cui le scienze della natura sono incompetenti per porsi tale domanda Se così fosse, reggerebbe l'obiezione mossa all'affermazione di Dio come causa del cosmo, e «allora qual è la causa di Dio?», citata talvolta da alcuni esponenti materialisti. Tale tipo di domanda mantiene la sua validità proprio nell'ambito fisico, dal momento che ogni causa fisica (entità o legge scientifica), come dicevamo, sarà sempre suscettibile della domanda circa un “perché?”che riguardi livelli di realtà sempre più profondi.

Le possibili risposte alla domanda radicale appena menzionata sono due: o l'universo materiale è incausato, oppure è causato da un principio non materiale, ma intellettivo. Ma la prima risposta è irrazionale: l'universo, con tutte le sue armonie e leggi, non è una realtà necessaria ma contingente, e quindi preso complessivamente non dà ragione di se stesso. La sua contingenza è evidente se consideriamo la sua distruttibilità (disorganizzazione), oppure il fatto che le sue leggi specifiche potrebbero essere state anche altre e che l'universo stesso potrebbe essere stato diverso da come è, anzi potremmo pensarlo “migliore” (per esempio senza la caducità inerente alla crescita complessiva dell'entropia). L'eventuale scoperta di nuove cause materiali della “genesi del cosmo” niente aggiungerebbe a quanto si è detto: per esempio se si venisse a scoprire che il Big Bang è solo un caso particolare di una legge più generale che coinvolge molti altri universi, o fosse dovuto a condizioni fisiche diverse da quelle oggi conosciute, comunque si rimarrebbe sempre sul piano fisico, il quale si manifesta complessivamente come una realtà che non dà una ragione ultima di se stessa.

Un'altra argomentazione in proposito fa leva sull'intelligenza umana. La mente dell'uomo si rivela superiore a tutte le strutture materiali, essendo capace di pensare a tutto l'ordine del cosmo, di scoprirne le leggi e di speculare anche sull’esistenza di infiniti possibili universi. Radicata nel cosmo perché sostanzialmente insediata nel corpo umano (nelle sue operazioni essa si serve delle strutture neurologiche), la nostra mente trascende il cosmo in quanto sta al di sopra di ogni realtà materiale. Il dominio tecnico dell'uomo sulla natura, per quanto limitato, dimostra anche la superiorità dell'intelligenza sulla realtà fisica. Di conseguenza sarebbe inconsistente pensare che l'universo fisico non intelligente sia incausato o che addirittura sia causa dell'intelligenza.

Per questo motivo, sul piano filosofico la causa dell'universo è stata vista tradizionalmente nell'Intelligenza. Autori antichi e moderni postulano a questo punto l'esistenza di un'intelligenza cosmica immanente o una sorta di anima intelligente dell'universo, in modo da renderla responsabile dell'evoluzione cosmica e dell'apparizione dell'uomo. Questa soluzione è usualmente denominata panteismo. Ma un'intelligenza intesa come “forma del cosmo” in realtà ne fa parte a sua volta e così dovrebbe essere soggetta al suo divenire e alle sue imperfezioni, per cui non sarebbe una vera spiegazione di tuttol'universo. Il cosmo stesso, se informato da una simile intelligenza, sarebbe un dio, sia pure imperfetto, forse un dio in evoluzione che acquisterebbe nell'uomo la sua piena auto-coscienza. Un simile modo di pensare non è lontano dalla mitologia. Infatti il pensiero religioso e filosofico in molte civiltà antiche ha divinizzato la natura e ha visto nelle forze materiali la manifestazione di occulte forze psichiche.

La risposta alla domanda filosofica sulla “causa dell'universo” è l'esistenza di un'Intelligenza trascendente il cosmo (Dio). Non è questo il luogo per sviluppare in dettaglio questo punto centrale della filosofia. Basterà ricordare che l'intelligibilità, l'unità, la semplicità e la consistenza dell'universo trovano una risposta alla luce di un Dio Creatore, trascendente ma anche presente nell'intimo del mondo in ogni momento del suo sviluppo temporale (cfr. Tanzella-Nitti, 1992, pp. 48-51). L'universo procede così da un Essere sommo, spirituale e personale, pienezza di essere, di intelligenza e di amore, non da una legge astratta o da un principio impersonale. Nella visione di Tommaso d'Aquino, Dio comunica liberamente l'esistenza al mondo per riempirlo in modo partecipato di perfezioni di cui Egli è la fonte assoluta e perfetta. Il Creatore dà un particolare senso all'universo collocando al suo centro la persona creata. L'universo fisico è donato all'uomo affinché questi ritorni a Dio contemplando la Sua presenza nel creato e completando l'opera della creazione mediante il lavoro, la cultura, le arti e soprattutto mediante il suo perfezionamento morale.

La teologia cristiana aggiunge aspetti maggiormente precisi al rapporto Dio-mondo e getta luce sul mistero del male nell'universo, introdotto a causa del peccato, e sanato dall'opera redentrice di Cristo (cfr. Maldamé, 1995). Grazie alla rivelazione cristiana comprendiamo meglio il disegno di Dio come Creatore dell'universo e il ruolo che spetta all'uomo nel creato. Alla luce della fede cristiana l'universo è conosciuto soprattutto come «il creato» che procede dall'amore divino ed è un riflesso delle perfezioni della Trinità. Senza essere condizionato dal mondo, Dio crea con tutta libertà e sapienza un universo consistente, dotato di cause seconde capaci di sviluppare delle potenzialità che completano l'opera creativa divina. Il Verbo di Dio, nell'assumere la natura umana, si colloca al vertice dell'universo. «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui [Cristo]. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui» (Col 1,16). Il progetto di Dio si comprende ancora meglio nell’orizzonte di un’opera della creazione destinata (e non semplicemente giustapposta) alla Redenzione in Cristo. «La creazione è il fondamento di “tutti i progetti salvifici di Dio”, “l'inizio della storia della salvezza”, che culmina in Cristo. Inversamente, il Mistero di Cristo è la luce decisiva sul mistero della creazione: rivela il fine in vista del quale, “in principio, Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1): dalle origini, Dio pensava alla gloria della nuova creazione in Cristo» (CCC 280). In questo senso lo sviluppo dell'universo non è ancora completato, anche se il suo compimento è già iniziato in Cristo risorto e glorioso. L'universo acquisterà il suo statuto finale soltanto alla fine dei tempi, quando riceverà nella gloria il suo definitivo compimento, non prevedibile dal sapere umano, ma oggetto della speranza cristiana. L'universo rinnovato sarà allora «i nuovi cieli e la nuova terra» (cfr. Is 65,17; 2Pt 3, 13; Ap 21,1).

 

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