Che cosa significa filosofare?

Pubblicato originariamente con il titolo Wass heisst philosophieren, il saggio è la traduzione italiana del testo di quattro conferenze tenute da Josef Pieper (1904-1997) a Bonn nel 1947. Scritto con stile e chiarezza, è dedicato alla natura della filosofia – e quindi dell’atto di filosofare. Si noti che, per l’A., affermare qualcosa sulla filosofia e sull’atto del filosofare significa fare asserzioni sull’essenza dell’uomo stesso.

Pieper, filosofo cattolico tedesco e ordinario di antropologia filosofica a Münster, considerato uno dei maggiori neotomisti del ‘900, accetta e difende espressamente la teologia dogmatica cattolica, ma è filosofo e non apologeta; il suo pensiero vive grazie alla ricezione della tradizione classico-cristiana, soprattutto di Tommaso d’Aquino, Platone e Aristotele.

Il testo è completato dall’introduzione di Franco Bosio, dal saggio di T. S. Eliot Scienza e saggezza nella filosofia (originariamente l’introduzione all’edizione inglese del 1952 di Masse und Kult e Was heisst philosophieren, intitolata Leisure, the basis of culture) e da una breve sinossi.

Nel saggio, Pieper, pur dichiarando apertamente l’impossibilità di rispondere esaustivamente e definitivamente alla domanda sulla natura dell’atto filosofico, per comprenderlo intende chiarirne la fonte, che si rivelerà lo stupore (p. 75). Egli, infatti, individua il filosofare come una domanda fondamentale e primordiale che nasce dallo stupore dell’uomo davanti all’esistente, espresso in modo emblematico nel quesito: «perché c’è qualcosa piuttosto che niente?». La filosofia ha così a che fare con il mirandum.

Dunque, la filosofia, contemplazione teoretica e disinteressata, è «trascendimento del mondo del lavoro» (p. 34); il quale, pur connaturato al mondo umano e necessario all’esercizio della filosofia stessa, è finalizzato al perseguimento dell’«utilità generale» (p. 32). La speculazione filosofica, connaturata al bonum commune, non riceve la sua legittimità dal suo uso o utilità, ma trova il suo fine in se stessa (la sua libertà è assenza di soggezione a scopi): è incommensurabile col mondo del bonum utile. In tal modo, data l’odierna minaccia dell’utile di signoreggiare su tutto il bene, su tutto il nostro mondo (si parla di indebita espansione delle pretese del mondo del lavoro nei confronti di quelle attività che esigono la più assoluta libertà spirituale), la problematica del significato della filosofia diviene estremamente attuale. Si noti che anche le scienze particolari sono libere – e la libertà accademica risulta salvaguardata – solo fintantoché sono esercitate con spirito filosofico e non sono subordinate ad uno scopo particolare. Il trascendimento del mondo del quotidiano e dell’ambiente strettamente inteso (il mondo umano è la realtà totale, in quanto e perché l’uomo è spirito: l’uomo, pur insediato in un ambiente, ha un mondo e vive per essenza al cospetto della totalità) non significa disinteresse nei loro confronti. Non si danno due realtà separate, ma una sola. Filosofare è allontanarsi dalle valutazioni consuete, ma non dal mondo stesso. Il carattere della domanda filosofica è convenire cum omni ente: non può essere risolta (nei limiti in cui è possibile) senza chiamare in gioco Dio e il mondo, cioè la totalità di tutto ciò che è.

Ora, lo stupore è principium costante della filosofia, accoglimento della realtà che ci predispone a cogliere l’universale delle cose nella vita quotidiana. Esso appartiene alle più alte possibilità dell’anima umana, che per Tommaso d’Aquino è fondato nell’ordinamento a e orientato alla contemplazione di Dio, è il primo passo verso la visio beatifica. Lo stupore sorge solo grazie ad un profondo scuotimento, in virtù dell’esperienza della non definitività del mondo del «quotidiano», ma il suo senso più profondo è positivo e da esso sgorga la gioia. All’origine della filosofia, che pur nasce dal non-sapere, infatti, non c’è il dubbio, modo in cui invece hanno inteso lo stupore i moderni, ma il fatto che il mondo è più profondo e più ricco di quanto appaia nell’esperienza quotidiana. Il suo senso, dunque, è ridestare la conoscenza e spingere alla ricerca, è intrecciato alla speranza. Lo stupore si riempie del mistero: una realtà è inconcepibile proprio perché la sua luce è inesauribile.

Per Pieper, a ogni domanda filosofica è di per sé impossibile rispondere in modo completo ed esaustivo: al filosofante il suo oggetto «è dato nel mondo della speranza» (pp. 85-86). L’uomo non è saggio e sapiente (lo è Dio solo), al massimo è filosofo: colui che ama e cerca la sapienza. La filosofia, però, è anche sin dalle origini scienza divina, sapere che in senso pieno è solo di Dio ed è irraggiungibile dall’uomo: essa ha in sé un’originaria apertura alla teologia e si riconosce come incapace di essere da sola dottrina di salvezza. La vitalità della filosofia dipende quindi dal suo rapporto con la teologia, che non ne inficia l’autenticità filosofica, perché essa è sempre immersa in una tradizione: essa è originariamente e interiormente connessa alla teologia, da cui discende ma dalla quale rimane autonoma. L’opposizione alla teologia fa scadere la filosofia a mera accademia; laddove rimanesse comunque un filosofare vivo, in realtà rimane sempre una teologia nascosta, sia pure un’antiteologia. Ciò significa che oggi non si può filosofare al di fuori della teologia cristiana, perché essa è oggi in Occidente l’unica legittima tradizione a fondamento della filosofia. Non si può filosofare davvero senza oltrepassare i limiti della filosofia stessa.

Dopo aver accennato ai caratteri della filosofia cristiana (che non comporta avere già soluzioni preparate e neppure soluzioni definitive, ma un maggiore senso del mistero), l’A., fondandosi sulla distinzione tommasiana tra conoscere per cognitionem e conoscere per connaturalitatem, conclude affermando che sarà in grado di svilupparne la forma piena solo colui che la sa far diventare realtà, sviluppando esperienzialmente un’affinità con essa.