La scienza come professione

Il saggio di Max Weber intitolato La scienza come professione fu pubblicato per la prima volta nel 1919, un anno prima della morte dell’autore, ma costituisce in realtà la trascrizione di una conferenza tenuta a Monaco nel 1917. In questo testo il sociologo ed economista tedesco parte dalle condizioni ‘esteriori’ dell’interrogativo circa la vocazione alla vita dell’uomo di scienza, giungendo gradualmente alle condizioni ‘interiori’ che determinano tale scelta e finendo per problematizzare la questione fondamentale del rapporto tra scienza e presupposti extrascientifici, con particolare riferimento all’interrogativo circa la scientificità della teologia. La riflessione prende le mosse dal confronto tra il sistema universitario statunitense (‘burocratico’) e quello tedesco (‘plutocratico’), nei quali si osservano diversi equilibri tra le due componenti della vita dell’uomo di scienza, vale a dire l’insegnamento e la ricerca. La ricostruzione delle circostanze esteriori dell’ambiente universitario – riportate in maniera vivace e sorprendentemente attuale – lascia poi spazio agli atteggiamenti interiori che caratterizzano lo scienziato, che nel mondo contemporaneo si presente sempre più come specialista di un settore: passione, «idea geniale» (p. 77), dedizione costante e metodica, talento (inteso come porsi «al servizio della cosa stessa», p. 81) costituiscono altrettanti elementi indispensabili alla realizzazione della vocazione scientifica. Dopo una riflessione sulle condizioni soggettive, Weber si interroga poi su ciò che la scienza ha significato nel corso della storia e giunge alla conclusione che nella contemporaneità la scienza pretende di porsi come un «sapere senza presupposti» (p. 99), rinunciando esplicitamente a qualunque rivendicazione di senso o di valore. Ma in realtà, fa notare acutamente l’autore, ogni indagine scientifica deve – almeno implicitamente – ammettere alcune opzioni valoriali di fondo, per esempio circa l’importanza dello studio del proprio oggetto o la desiderabilità della conoscenza in un certo ambito. Se dunque è necessario e auspicabile che i docenti universitari si pongano come studiosi e non come guide morali, evitando di impartire ex cathedra giudizi del tutto personali e non fondati nella loro attività scientifica, è anche vero che la razionalità scientifica si sviluppa sempre a partire da scopi dati, ovvero da finalità che eccedono la stessa indagine scientifica.  Ciò è tanto più vero per alcuni saperi come la teologia che però, secondo Weber, non si limita come le altre scienze a presupporre il proprio oggetto o la desiderabilità del sapere, ma afferma il carattere rivelato di alcune verità, a partire dalle quali sviluppa la propria ricerca. E tuttavia il «sacrificio dell’intelletto» (p. 123) che si compie in ambito teologico (vale a dire la necessità di partire da un presupposto extra-teorico) non manca neanche in altri ambiti della ricerca scientifica e anzi secondo Weber è eticamente preferibile a qualsiasi atteggiamento ‘profetico’ assunto per motivi ideologici da chi siede in cattedra. Il testo di Weber invita lo studioso a «fare chiarezza sul proprio atteggiamento di fondo» (p. 131), al fine di riflettere sul mondo di valori che sorregge la dedizione alla scienza.

Autore scheda bibliografica tematica
Stefano Oliva