È ben noto come Pascal sia da annoverarsi tra le personalità scientifiche di primo piano del XVII secolo, ma poi, in generale, dell’intero corso della storia. Il suo contributo alle scienze matematiche (studi sulle coniche, teorema di Pascal, triangolo aritmetico, studi sulla cicloide), fisiche (studi sui fluidi e la pressione atmosferica) e meccaniche (realizzazione della prima macchina calcolatrice, detta pascaline) rimane un fatto acquisito, e spesso egli è conosciuto soltanto per questo lato, ad esempio in chi, avendo percorso studi tecnico-scientifici, o non avendolo mai sentito trattare in filosofia, al liceo (dove è sovente omesso da non pochi insegnanti), si trova, in età matura, a sorprendersi, per l’inaspettata densità e ricchezza della sua riflessione filosofica e religiosa.
Dobbiamo però osservare che anche la conoscenza del solo Pascal scienziato è in sé mutila e comporta una comprensione impoverita delle sue scoperte e contributi scientifici, il cui senso pieno è restituito adeguatamente soltanto nella considerazione integrale di un Autore che, come pochissimi altri nella storia del pensiero, manifesta una solida compattezza delle molteplici prospettive esplorate e percorse nella sua polimorfica riflessione, e una trama così fitta di intrecci e riferimenti tra le questioni trattate nelle singole e diverse discipline, che possiamo veramente affermare che in lui tutto si riconnette a tutto, e attesta il senso di una profonda unità d’esperienza, nel vissuto pur così breve dell’arco di appena trentanove anni d’età.
Indubbiamente uomo di scienza, infatti, Pascal fu anche uomo di fede, e di fede profondamente pensata; questo fa di lui un autore di fondamentale importanza e un ineludibile riferimento per la considerazione dei rapporti tra scienza e fede e, quale suo sfondo teorico, tra ragione e fede e tra filosofia e teologia. Fu proprio non concependo in alcun modo la compossibilità di queste due dimensioni dell’esperienza, e men che meno una loro sintesi, che esponenti di spicco dell’Illuminismo come Condorcet e Voltaire si adoperarono nel proporre e veicolare la rappresentazione di un Pascal scisso – sino alla psicopatologia – tra le esigenze della ragione “forte” delle scienze matematiche e naturali e le istanze di quanto essi consideravano espressione dell’irrazionale per eccellenza quale la fede cristiana, per di più assunta da Pascal stesso in una dedizione totalizzante, sino all’abbandono della pratica delle prime, negli ultimi anni della sua vita. Questa scissione tra un secondo Pascal in netta rottura con lo scienziato finì poi per essere confermata, a schema capovolto, con l’interpretazione romantica, e come tale ha avuto ampia circolazione rimanendo veicolata ancora ai giorni nostri, soprattutto in ambienti extra-accademici e fuori dagli studi a carattere specialistico sull’autore, ragione per cui, grazie anche alla divulgazione di alcuni testi maldestramente estrapolati dal contesto, è ancora diffusa l’idea di un pensatore del “cuore” e della dimensione sentimentale dell’umano contro e oltre quelle che ci si rappresenta caricaturalmente come le rigide e sterilizzanti restrizioni della razionalità.
Tali interpretazioni sembrano del resto avere buon gioco sul fondamento di alcune affermazioni, presenti nei testi pascaliani e divenute, una volta estrapolate come massime citabili, tra le più note in assoluto dei suoi Pensieri. Una tra tutte: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce» (Pensées, L II/423) [1]. Ora, il cuore, secondo Pascal, ha ben altro significato che quello di un’emozionalità extrarazionale spesso attribuitogli e che risponde piuttosto a una proiezione retrospettiva influenzata dalla cultura sentimentalistica tardomoderna. Innanzitutto, vi si riconosce il significato classicamente biblico di baricentro intellettuale e morale della persona, nonché ricettacolo della grazia, luogo dell’incontro con Dio nell’intimo della coscienza. È una densa accezione antropologica “sintetica”, sul fondamento della quale Pascal può innestare quella gnoseologica, di facoltà intuitiva, espressione della razionalità nella sua esperienza di immediatezza nell’apprensione dei primi principi e delle verità fondamentali, che precede e fonda la razionalità discorsiva, cui riserva il termine di “ragione”. Da questa densità, sì, il cuore pascaliano viene anche a sollevarsi al grado di centro focale della sentimentalità profonda dell’uomo, persino dell’amore, e dell’amor di Dio e del prossimo quale massima espressione della sua costituzione relazionale intersoggettiva, ma questo cade fuori da ogni intendimento emozionale e irrazionalistico. Si potrebbe, anzi, in tal senso, affermare che il cuorerappresenta in Pascal l’espressione più pura della razionalità umana – operante nell’immediatezza dell’atto intellettivo puro –, dove vige ancora, limpida e riconoscibile, l’impronta e la partecipazione del Logos di Dio, e la ragione (discorsiva) una sua espressione seconda, o derivata.
L’accennata distinzione dei ruoli complementari di coeur e raisonè chiaramente espressa nelle Pensées, allorché Pascal ad esempio afferma che «conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche col cuore. È in quest’ultimo modo che conosciamo i primi principi ed è invano che il ragionamento, che non vi ha parte, tenti di combatterli». E precisa, poco oltre: «Il cuoresente che vi sono tre dimensioni nello spazio e che i numeri sono infiniti e la ragione dimostra in seguito che non vi sono due numeri quadrati di cui l’uno sia il doppio dell’altro», e concludere, infine: «I principi si sentono, le proposizioni si concludonoe il tutto con certezza, sebbene per vie diverse» (L 6/110 – corsivi nostri). Ci troviamo, di fatto, nel solco della distinzione scolastica di intellectuse ratio, e ancora in un altro frammento l’ordine proprio dello spirito (esprit) è detto procedere «per principio e dimostrazione» (L 23/298), dove il termine dimostrazioneci riporta all’epistemologia dell’opuscolo De l’esprit géométrique, e a un’interessante Lettera a Le Pailleur, in cui Pascal aveva schematizzato il procedimento argomentativo paradigmatico nella sequenza di definizioni, assiomi e dimostrazioni, dove le prime due categorie logiche riguardano i principi quali dati indimostrabili ed evidenti.
Il binomio dinamico cuore - ragioneviene a restituire in tutta la sua ampiezza di spettro quello che Pascal designa col termine di pensiero, in cui fa consistere la «grandezza dell’uomo» (cfr. L 6/113; 6/114; XXVI/759). Questa proposta si pone in interessante alternativa al modello della razionalità cartesiana e postcartesiana che, incoraggiata dai successi conseguiti nei progressi tecnoscientifici, finirà per essere sempre più ristretta alla razionalità come calcolo, sino alla totale identificazione con essa, generandone l’assolutizzazione nota come razionalismo, con la contropartita di una totale de-razionalizzazione dei sentimenti e degli affetti, che al calcolo non possono essere certo riportati, ma che è pure deleterio dissociare dalla razionalità tout-court. Rispetto al paradigma moderno della razionalità postcartesiana, spinto sulla china di una sempre più marcata restrizione razionalistica, Pascal sembra così venire a rappresentare il capostipite di una modernità alternativa il cui paradigma, di riconoscibile ascendenza classico-scolastica, coltiva l’idealità di una razionalità sapienziale, e nell’alveo della quale si svilupperanno, tra Otto e Novecento, le riflessioni dello spiritualismo e personalismo francese e, in Italia, della metafisica personalista di Antonio Rosmini.
Il binomio coeur - raisoninforma, inoltre, le modalità conoscitive designate da Pascal col termine esprit (spirito): i ben noti esprit de géométrie ed esprit de finesse, accanto ai quali non va dimenticato il meno noto esprit de justesse. Si tratta di forme di razionalità diversificate e parallele (tutte articolantesi in un momento intuitivo sviluppato in quello discorsivo, per cui in tutte entrano nel processo tanto il cuore che la ragione), proporzionate ad ambiti diversi d’indagine: rispettivamente quello delle scienze matematico-geometriche, l’ambito variegato e sfumato della realtà umana che richiede una “finezza” capace di misurarsi con contenuti di grande complessità, e quello della fisica sperimentale, in cui la “giustezza” è riferita all’esatta commisurazione di relativamente pochi principi.
In questo assetto gnoseologico ed epistemologico diversificato, è evidente che per Pascal il “metodo geometrico”, formulato nell’opuscolo De l’esprit géométrique, assume il significato di un ideale regolativo, in quanto rappresenta nella forma più adeguata il «vero metodo di condurre il ragionamento in tutte le cose», e ad esso è tenuta a guardare l’applicazione della razionalità in qualsiasi ambito disciplinare.
Ora, negli scritti filosofico-teologici degli ultimi anni, tra i quali si distinguono in particolare le Lettres Provinciales (1656), gli Écrits sur la grâce e soprattutto le Pensées (1656-1662) – che come sappiamo sono per la gran parte le note preparatorie di un’incompiuta Apologie–, troviamo ampio riscontro di una costante estensione e applicazione della strumentazione logica e dell’impianto epistemologico maturato da Pascal nella sua esperienza di matematico e fisico.
Non dobbiamo, però, per questo, pensare con questo a un riassorbimento del complesso dottrinale ed esperienziale della fede nella sfera del sapere scientifico, operazione naturalmente illegittima e che l’avrebbe snaturata. Siamo piuttosto di fronte a un caso – e interessantissimo per la geniale originalità con la quale Pascal riuscì a concepirlo – di trasposizione, o traslazione del metodo delle scienze, tanto nella sua paradigmatica forma logico-geometrica quanto nella procedura dell’osservazione e determinazione del senso dei fenomeni naturali. Ne troviamo l’espressione più compiuta nel progetto della suaccennata Apologie, di cui si conservano, come si è detto, i materiali preparatori delle Pensées, e in cui Pascal avrebbe applicato il modello, già personalmente sperimentato nelle ricerche sul vuoto e la pressione atmosferica, all’indagine intorno all’uomo e alla sua esperienza. Pascal vi avrebbe condotto, infatti, innanzitutto una ricognizione fenomenologica dell’umano, assunto, senza sconti e scorciatoie, nella sua complessità, risultandone un quadro segnato dalla compresenza di elementi di miseria e di grandezza: è il momento (I) dell’osservazione del fenomeno in tutti i suoi aspetti. Vagliate poi le soluzioni prospettate nelle diverse filosofie e religioni e rilevatene la parzialità, avrebbe appuntato l’attenzione su come la Rivelazione giudaico-cristiana sembri offrire spiegazione adeguata della complessità osservata e descritta: momento (II) della formulazione dell’ipotesi. Di lì, con quella che possiamo considerare a tutti gli effetti una verifica “sperimentale” (III), Pascal avrebbe invitato l’interlocutore/lettore a praticare la fede e testarne così la veridicità non estrinsecamente, ma dentro la propria stessa esistenza. Il momento di “verifica” – vale a dire la parte “apologetica” in senso proprio – non si sarebbe determinata, quindi, nell’architettura progettuale pascaliana, nella forma di una semplice procedura argomentativa, e ciò in considerazione del fatto che è parte integrante della fede cristiana, è interno e inalienabilmente proprio all’organismo dei suoi stessi contenuti, di essere una relazione personale, e una relazione vissuta, in Cristo, e tale da trasfigurare l’intero dell’esistenza, e non da poter essere semplicemente assunta come un sistema teorico della cui veridicità convincersi o meno. Benché, infatti, sia anche questo, come complesso di contenuti dottrinali della cui veridicità è ben necessario essere persuasi – fides quae creditur–, la fede è un’esperienza che tocca le viscere della coscienza, per cui necessita di essere vissuta nella concretezza dell’esistenza, nell’atto stesso del suo porsi alla coscienza medesima, per essere compresa, e creduta – fides qua creditur. Così, come in fisica ogni esperimento richiede la messa in campo di tutti i dati costitutivi del fenomeno e dell’ipotesi testata per renderne ragione, per la fede cristiana l’esperimento non potrà in alcun modo riuscire se non contemplerà l’implicazione del proprio investimento personale esistenziale. Ed è questo principio che anima dall’interno il noto – e tanto ampiamente e variamente frainteso – argomento della scommessa, che in sé non ha alcuna funzione dimostrativa, bensì dispositiva.
Una tale trasposizione del metodo scientifico presuppone naturalmente una sostanziale fiducia nella ragione naturale, o meglio, nella continuità, almeno analogica, che essa è pur sempre in grado di cogliere, per l’essenziale, tra la condizione creaturale finita e l’essere assoluto e infinito di Dio. Sottende, in altri termini, la questione dei rapporti tra ragione e fede, ridisegnati in una temperatissima logica di eccedenza nella continuità, per cui Pascal scrive che «la fede dice ciò che i sensi non dicono, ma non il contrario di ciò che vedono; essa è al di sopra, non contro» (L 13/185), cosicché egli può ancora affermare che «l’ultimo passo della ragione è di riconoscere che vi è un’infinità di cose che la superano» (L 13/188). E a riconoscere opportuno, anzi, doveroso, questo superamento, è per Pascal la ragione medesima, giacché non può essere che la ragione a poter avvertire criticamente la propria limitatezza, in quanto non può che apparirle come parte del contenuto dell’evidenza, rispetto al quale è chiamata ad essere conseguente.
È questa precisa articolazione dei rapporti di ragione e fede, strutturata nella forma di un’eccedenza nella continuità, che può lievitare allora in una corretta definizione dei rapporti tra filosofiae teologia, e, di qui, tra scienza e riflessione teologica, lasciata intatta nella sua peculiarità da quella che si configura semplicemente come una trasposizione di modello, che alla ragione scientifica attinge l’essenza paradigmatica di una struttura, che altro non è che la forma della verità per come esperita nelle sue articolazioni logico-esperienziali al piano trascendentale della coscienza pensante dell’umano.
C’è, infatti, un cogito pascaliano, la cui principale differenza con quello del suo illustre connazionale a lui contemporaneo è di disporsi come un’originaria relazione presenziale all’essere, prima che a sé stesso, e all’essere colto nella luce intuitiva e oggettivante di un coeur in presa d’immediatezza con i prima principia e le verità prime, e con questo di dischiudersi alla complessa relazione al reale esperito, ma pur nel solco dell’orientamento destinale a compiersi e autenticarsi nella relazionalità intersoggettiva che, addestrata nel campo variegato delle relazioni umane, trova, infine, nell’Alterità assoluta di Dio la sua ragione ultima e il suo acquietamento.
[1] In questa e nelle successive citazioni, i Pensieri di Pascal sono citati nella numerazione dell’edizione Lafuma (L), preceduta dall’indicazione della rispettiva liasse di appartenenza: in numeri arabi per le prime 27, dotate di titoli (liasses titrées), in numeri romani per le successive 34.