Nelle opere precedenti alle tre Critiche, Immanuel Kant aveva mostrato un certo interesse alla prova teleologica circa l'esistenza di Dio, come nel brano che qui riportiamo. Inserendosi in un dibattito filosofico che data almeno al Proslogion di Anselmo da Aosta (1078), nel saggio L'Unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio (scritto precritico del 1763) il filosofo di Königsberg prende in esame le diverse argomentazioni volte a dimostrare l'esistenza di un Dio creatore, perfetto e necessariamente esistente. Le diverse strategie argomentative vengono ridotte a due specie generali: la prova ontologica (a priori) e la prova cosmologica (a posteriori). "Se si domandasse – conclude Kant - quale dunque delle due prove sia la migliore in generale, si risponderebbe: quando si abbia riguardo alla esattezza logica e alla completezza, migliore è la ontologica; ma se si desidera comprensibilità per il retto intendimento comune, vivacità dell’impressione, bellezza e forza motrice per i moventi morali dell’umana natura, la preferenza è da concedersi alla prova cosmologica". Nella Critica della ragion pura (1781) Kant tornerà sul tema delle prove dell'esistenza di Dio trattandole nella sezione dedicata alla dialettica della ragione e giungendo a rifiutarne la validità. L'accesso a Dio sarà invece riservato nelle altre due critiche, la Critica della ragion pratica (1788) e la Critica del giudizio (1790), in sede trascendentale e dunque in ambito morale.
1. Divisione di tutti i possibili argomenti per provare l'esistenza di Dio.
La convinzione della grande verità, che vi è un Dio quando abbia il più alto grado di certezza matematica, ha questo di proprio, che può essere raggiunta soltanto per una unica via, è dà a questa considerazione il vantaggio, che, una volta persuasi che non è possibile scelta tra più argomenti simili, si devono far convergere gli sforzi filosofici su quell'unico argomento, perché invece di buttarlo via, si correggano gli eventuali difetti che siano incorsi nel metterlo in atto.
Per dimostrare ciò, rammento, perché non sia perduta di vista, la ricerca che propriamente si ha da compiere: devesi dimostrare l'esistenza non di una causa prima grandissima e perfettissima, ma dell'Essere supremo fra tutti; l'esistenza non di uno o più di essi, ma di uno unico; e ciò non con ragioni puramente verosimili, ma con evidenza matematica.
Tutti gli argomenti per dimostrare l'esistenza di Dio possono esser presi soltanto o dai concetti intellettivi del semplicemente possibile o dai concetti empirici dell'esistente. Nel primo caso si conclude o dal possibile come principio alla esistenza di Dio come conseguenza, o dal possibile come conseguenza alla esistenza di Dio come principio. Nel secondo caso, da ciò di cui sperimentiamo l’esistenza, di nuovo o si conclude soltanto all’esistenza di una causa prima e indipendente, e poi, per mezzo dell’analisi di questo concetto, alle proprietà divine di essa, ovvero, da quanto l’esperienza ci insegna, si deducono immediatamente così l’esistenza come anche le proprietà di lui.
2. Esame degli argomenti della prima specie.
Se dal concetto del puramente possibile come principio devesi concludere la esistenza come conseguenza, si deve poter trovare in questo concetto del possibile la detta esistenza mendiante l'analisi di esso; giacché non vi ha altra deduzione di una conseguenza da un concetto del possibile, se non per mezzo dell'analisi logica. In tal caso dovrebbe l'esistenza, come predicato, esser contenuta nel possibile. Ora, siccome ciò, come si è dimostrato nella prima considerazione della parte prima, non ha mai luogo, così appar chiaro che è impossibile, nel modo citato, una prova della verità della quale parliamo.
Abbiamo nondimeno una celebre prova che è costituita su questo principio, cioè la così detta prova cartesiana. Si immagina, prima di tutto, un concetto di una cosa possibile, nella quale ci si rappresenta congiunta ogni vera perfezione. Ora si ammette che l'esistenza sia anche una perfezione delle cose, e si conchiude quindi dalla possibilità di un Essere perfettissimo alla sua esistenza. In tal modo si potrebbe dal concetto di ogni cosa, purché rappresentata anche come la più perfetta della sua specie, concludere alla sua esistenza; per esempio, concludere alla esistenza di un mondo perfettissimo, già per il solo fatto che può essere pensato. Ma, senza impegnarmi in una dettagliata confutazione di questa prova, confutazione già fatta da altri io mi riporto soltanto a quanto è stato già dimostrato a principio di quest'opera, che cioè l'esistenza non è un predicato, e quindi non è predicato neppure della perfezione, e che perciò non si può da una definizione che contenga un'arbitraria unificazione di diversi predicati allo scopo di costituire il concetto di una qualche cosa possibile, concludere giammai alla esistenza di questa cosa, e conseguentemente neppure all’esistenza di Dio.
Al contrario è di ben altra sorta la conclusione dalle possibilità delle cose come conseguenze, alla esistenza di Dio come principio. Qui si ricerca se non debba essere presupposto in quid esistente perché qualcosa sia possibile, e se quella un’esistenza, senza la quale non ha luogo neppure una possibilità intinseca, non contenga qualità tali, quali son quelle che noi colleghiamo insieme nel concetto della divinità. In questo caso è anzitutto chiaro come io non dalla possibilità condizionata possa concludere ad una esistenza, quando di ciò che è possibile solo sotto certe condizioni, non presupponga già l'esistenza; poiché la possibilità condizionata fa intendere unicamente che qualcosa può esistere soltanto in certe connessioni e della causa è provata l'esistenza solo in quanto esiste la conseguenza, laddove qui la causa non deve essere conclusa dalla esistenza della conseguenza; perciò tale prova, se veramente ha luogo, può essere portata soltanto dalla possibilità intrinseca. Ci accorgiamo poi che tal prova deve sorgere dalla possibilità assoluta di tutte le cose in generale. Giacché ciò di cui si deve riconoscere che presuppone una qualche esistenza, è solo la stessa possibilità intrinseca, e non i particolari predicati per mezzo dei quali un possibile si distingue dall'altro; poiché la differenza dei predicati ha luogo anche nel puro possibile e non denota mai qualcosa di esistente. Un'esistenza divina, perciò, dovrebbe esser dedotta, nel modo citato, dalla intrinseca possibilità di tutto il pensabile. Che questo possa avvenire, è stato dimostrato in tutta la prima parte di quest'opera.
3. Esame degli argomenti della seconda specie.
La prova per cui dai concetti empirici di ciò che esiste, si vuole arrivare all'esistenza di una causa prima ed indipendente, secondo le regole della dipendenza causale, e da questa causa poi, attraverso l'analisi logica del concetto, alle sue proprietà che denotano una divinità, è celebre e messa in grande credito specialmente dalla scuola filosofica wolffiana; ma non dimeno essa è del tutto impossibile. Io ammetto che tutto sia regolarmente dedotto fino alla proposizione: se qualcosa esiste, esiste anche qualcosa che non dipende da un’altra cosa; io consento adunque che sia ben dimostrata l’esistenza di una o più cose che non sono effetti ulteriori di un’altra. Ora il secondo passo alla proposizione: questa cosa indipendentemente è assolutamente necessario, è già molto meno sicuro, giacché deve esser compiuto con l'aiuto del principio di ragion sufficiente che è tuttora disputato; ma io non esito anche a sottoscrivere tutto fin qui. Esiste per ciò qualcosa in modo assolutamente necessario. Da questo concetto di essere assolutamente necessario devono ora essere tratte le sue proprietà della somma perfezione e unità. Ma il concetto della necessità assoluta, che qui sta a fondamento, può esser inteso in duplice modo, com'è dimostrato nella parte prima. Nel primo modo, in quella che è stata da noi detta necessità logica, si dovrebbe dimostrare che è in sé contraddittorio l'opposto di quella cosa in cui è da trovarsi ogni perfezione o realtà, e che perciò quell'essere, i cui predicati sono tutti veracemente affermativi, è unico e il solo assolutamente necessario nella esistenza. E siccome proprio dallo stesso congiungersi di ogni realtà, in tutto e per tutto, in un essere, si deve concludere che esso sia unico, cosi è chiaro che l'analisi dei concetti del necessario riposerà su ragioni tali che si debba poter anche inversamente concludere: ciò in cui vi è ogni realtà, esiste necessariamente. Ora non solo, secondo il precedente paragrafo, è impossibile questo modo di concludere; ma è anche particolarmente notevole che in tal modo la prova non è costruita affatto sul concetto empirico che è del tutto presupposto senza essere adoperato, ma, appunto come quella cartesiana, unicamente da concetti, nei quali, nell'identità o nell'opposizione dei predicati, si crede di trovare l'esistenza di un essere[1]. Non ho qui intenzione di analizzare anche le prove che in conformità di questo metodo, si trovano presso diversi autori. È facile scoprire i loro paralogismi, e ciò in parte è stato fatto da altri. Ciò nondimeno potendosi pure sperare ancora di riparare all’errore di queste prove con alcune correzioni, si vede dalla nostra considerazione come esse, chechè se ne faccia, non possano mai divenir altro che conclusioni tratte da concetti di cose possibili, ma non dalla esperienza, e per ciò sian da annoverare appunto tra le prove della prima specie.
Per quanto riguarda la seconda prova di questa specie, nella quale si conclude da concetti empirici di cose esistenti alla esistenza di Dio e contemporaneamente alle sue proprietà, la cosa procede tutt’altrimenti.
Questa prova è non soltanto possibile, ma in ogni modo degna di essere portata a conveniente perfezione con la riunione degli sforzi. Le cose del mondo che si manifestano ai nostri sensi, come mostrano chiari segni della loro contingenza, così anche con la grandezza, l'ordine e le disposizioni finali che noi scorgiamo dappertutto, ci dan prove di un autore razionale di grande sapienza, potenza e bontà. La grande unità in un così ampio tutto fa desumere che di tutte queste cose v'ha soltanto un autore unico, e, sebbene in tutte queste conclusioni non appaia alcun rigore geometrico, pure esse contengono incontestabilmente tanta forza, che non lasciano di ciò un momento in dubbio chiunque ragioni secondo le regole del naturale senso comune.
4. In generale sono possibili soltanto due prove della esistenza di Dio.
Da tutte queste valutazioni si può comprendere che, se si vuol concludere da concetti di cose possibili, non è possibile altro argomento in favore della esistenza di Dio, fuorché quello, in cui l'intrinseca possibilità di tutte le cose vien anche considerata come qualcosa che presuppone l’esistenza, come s’è fatto nella prima parte di quest'opera. Parimenti si vede chiaro che se la conclusione alla stessa verità deve salire da ciò l’esperienza delle cose esistenti ci insegna, la prova può essere portata, così sulla esistenza che sulla costituzione della causa prima, soltanto dalle proprietà percepite nelle cose del mondo e dall’ordine contingente dell’universo. Mi si permetta di chiamar ontologica la prima prova, cosmologica, poi, la seconda.
Questa prova cosmologica è, a mio avviso, vecchia quanto la ragione umana. Essa è così naturale, così persuasiva e col progredire delle nostre conoscenze estende anche tanto la sua rilessione, che deve durare finché vi sarà una creatura razionale che desidera partecipare alla nobile considerazione di riconoscere Dio dalle opere. Gli studi di Derham, di Nieuwentyt e di molti altri han fatto a tal riguardo onore all'umana ragione, sebbene talora si frammischi molta vanità nel dare, con la parola d'ordine dello zelo religioso, un aspetto venerabile a cognizioni fisiche d'ogni specie od anche a chimere. Pur così eccellente, però, questa specie di prova è sempre incapace della certezza ed esattezza matematica. Si potrà concludere sempre soltanto ad un inconcepibile grande Autore di quel tutto che si presenta ai nostri sensi, ma non alla esistenza del più perfetto tra tutti gli esseri possibili. Sarà la più grande verosimiglianza del mondo, che vi sia soltanto un unico autore primo, ma a questa convinzione mancherà molto di quella circostanziata esattezza che sfida il più sfacciato scetticismo. Si potrà dire: noi non possiamo concludere per la causa a proprietà maggiori di quelle che troviamo necessarie per intendere il grado e la natura degli effetti, quando, infatti, per giudicare della esistenza di questa causa, non abbiamo altro motivo che quello che ci dànno gli effetti. Or noi discerniamo nel mondo molta perfezione, grandezza ed ordine, e con rigore logico non possiam concludere nulla più di questo, che, cioè, la loro causa deve possedere molta intelligenza, potenza e bontà, ma in niun modo che essa tutto sappia, possa, ecc. Vi è un immenso tutto, nel quale percepiamo unità e connessione dappertutto, e possiamo quindi a gran ragione ritenere che ve ne sia un autore unico.
Ma dobbiamo pur confessare che non conosciamo tutto il creato, e dobbiamo quindi giudicare che ciò che ci è incognito, sia tale, e certo ciò è pensato molto ragionevolmente, ma non conclude con rigore.
Al contrario, ci sembra, qualora non ci lusinghiamo troppo, che la prova ontologica da noi abbozzata sia capace del rigore richiesto in una dimostrazione. Tuttavia, se si domandasse quale dunque delle due prove sia la migliore in generale, si risponderebbe: quando si abbia riguardo alla esattezza logica e alla completezza, migliore è la ontologica; ma se si desidera comprensibilità per il retto intendimento comune, vivacità dell’impressione, bellezza e forza motrice per i moventi morali dell’umana natura, la preferenza è da concedersi alla prova cosmologica. E poiché senza dubbio è di maggior importanza il ravvivare l'uomo con alti sensi fecondi di nobile attività, persuadendo nel. tempo stesso il senso comune, anziché ammaestrare con ragionamenti accuratamente ponderati soddisfacendo la più fine speculazione, così, ad esser sinceri, non si può privare la nota prova cosmologica del vantaggio di una più universale utilità.
Non, adunque, artificio di lusinga, mendicante l'altrui plauso, ma sincerità mi guida a concedere volentieri il vantaggio della utilità ad una esposizione dell'importante conoscenza di Dio e delle sue proprietà quale quella che offre Reimarus nel suo libro della Religione naturale, a preferenza di ogni altra prova, in cui si guardi più al rigore logico, e a preferenza della mia stessa. Giacché, senza stare ad esaminare il valore di questo o di altri scritti di quest'uomo, valore che essenzialmente consiste in un uso non artifizioso di una sana e bella ragione, tali principi hanno realmente una grande forza dimostrativa ed eccitano di più l'intuizione che non i concetti logicamente dedotti, sebbene questi ultimi diano ad intendere l'oggetto più esattamente.
Nondimeno, poiché l'intelletto che investiga, una volta messo sulla traccia dell'indagine, non s'appaga finché tutto non sia chiaro intorno a lui, e finché, per così dire, egli non abbia completamente chiuso il circolo che limita la sua questione, niuno vorrà ritenere inutile e superflua una fatica come la presente, rivolta ad ottenere l’esattezza logica in una conoscenza tanto importante, specialmente perché si dan molti casi in cui senza tale cura l’impiego dei suoi concetti rimarrebbe mal sicuro e dubbioso.
5. Della esistenza di Dio non è possibile più che un’unica dimostrazione, e di questa l'argomento è stato già dato di sopra.
Dal fin qui detto appar chiaro che tra i quattro argomenti possibili che noi abbiamo ridotti a due specie principali, sia quello cartesiano sia quell'altro che deduce dal concetto empirico della esistenza per mezzo dell'analisi del concetto di una cosa indipendente, sono falsi e del tutto impossibili, cioè essi non solo non provano col dovuto rigore, ma non provano per niente affatto. Si è inoltre dimostrato che la prova per cui si conclude dalle proprietà delle cose del mondo alla esistenza ed alle proprietà della divinità, contiene un argomento solido e molto bello, ma non è mai capace del rigore di una dimostrazione. Non riman altro fuorché o non sia possibile alcuna prova rigorosa di ciò, o debba essa fondarsi su quell'argomento che noi sopra abbiamo indicato. Ora, trattandosi semplicemente della possibilità di una prova, niuno affermerà la prima ipotesi, e si conclude in conformità di quanto noi abbiamo indicato. Vi è solo un Dio, e solo un argomento, col quale è possibile riconoscerne l'esistenza con la percezione di quella necessità che annulla assolutamente ogni opposizione; un giudizio, al quale potrebbe portare immediatamente anche la natura dell'oggetto.
Tutte le altre cose che in qualche modo vi sono, potrebbero anche non essere. Perciò l'esperienza delle cose contingenti non può dare un argomento atto a far riconoscere da essa l'esistenza di colui che è impossibile che non sia. La differenza dell'esistenza di Dio dall'esistenza propria delle altre cose sta unicamente in questo, che la negazione della divina esistenza è completamente il nulla. Ora la possibilità intrinseca, gli esseri delle cose sono ciò, la cui soppressione distrugge ogni pensabile. In ciò dunque consisterà la nota propria dell'esistenza dell'essere di tutti gli esseri. Qui cercate la prova, e, se credete di non trovarla, ritiratevi da questo impraticabile sentiero sulla grande via maestra della umana ragione. E in tutto e per tutto necessario che ci si persuada della esistenza di Dio, ma non è proprio così necessario che la si dimostri.
[1] È questa la cosa principalissima che qui ho di mira. Se la necessità di un concetto la pongo nel contraddirsi del suo opposto, e poi affermo che l’infinito è così costituito, era del tutto superfluo presupporre l’esistenza dell’essere necessario, in quanto che essa già segue necessariamente dal concetto di infinito. Anzi quella esistenza, che si fa precedere, è, nella stessa prova, completamente oziosa. infatti, siccome nel procedere di essa vengon considerati come reciproci i concetti di necessità ed infinità, in realtà si conclude dalla esistenza del necessario alla sua infinità, solo perché l’infinito (e certo soltanto esso) esiste necessariamente.
I. KANT, Scritti precritici, Editori Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 201- 209.