I. La vita - II. Il discorso su Dio e la teologia apofatica - III. La visione del cosmo nel De docta ignorantia e gli interessi scientifici - IV. La conoscenza umana, l'intelletto e la mente - V. Il rapporto fra Creatore e creatura - VI. Alterità e conoscibilità di Dio nelle opere filosofiche dell'ultimo periodo - VII. Riflessioni conclusive.
I. La vita
Nicolaus Krebbs, Cusano, nacque a Kues, presso Treviri, nel 1401. Incerta la sua presenza alla scuola dei Fratelli della vita comune, di Deventer; è probabile che la sua educazione sia avvenuta a cura dei conti di Manderscheid. Dopo un anno passato all’Università di Heidelberg, nel 1416, frequentò la Facoltà giuridica di Padova (1417-1423) e vi conseguì il grado di doctor decretorum. A Padova egli subì l’influsso delle teorie conciliaristiche di Marsilio da Padova e di Guglielmo di Ockham. Vi conobbe, tra altri giuristi, anche Giuliano Cesarini che divenne poi il cardinale presidente del Concilio di Basilea. Entrò in contatto con Vittorino da Feltre, divenne amico di Paolo dal Pozzo Toscanelli e, cosa importantissima per la sua formazione di scienziato, ascoltò le lezioni del matematico ed astronomo Prosdocimo de Beldomandi. Dopo un soggiorno a Roma nel 1424, il Cusano tornò in Germania dove nel 1425 si immatricolò all’Università di Colonia. Gli studi che quivi condusse furono decisivi per la sua formazione filosofica e teologica. Vi trovò, quale maestro ed amico, Emerico da Campo, seguace della filosofia di Alberto Magno ed esperto del pensiero di Raimondo Lullo. Le fonti di Cusano risultano così l’aristotelismo di Alberto Magno nei suoi sviluppi neoplatonici, il pensiero di Lullo con la sua acuta elaborazione di una simbolica universale, ed il pensiero di Dionigi Areopagita per il tramite dello stesso Emerico da Campo.
Cusano divenne segretario del cardinale Giordano Orsini, legato pontificio in Germania; il suo nome compare nella corrispondenza di Guarino Guarini e di Poggio Bracciolini come «Nicolaus Treverensis». In queste corrispondenze, egli viene indicato come scopritore di un codice del De Re Publica di Cicerone. In realtà egli ha scoperto non altro che dodici commedie di Plauto. Con il none di «Treverensis», egli entrò nel circolo degli umanisti presenti a Basilea: il cardinale Albergati ed il suo segretario Tommaso Parentucelli, Francesco Piccolpasso, Bartolomeo Capranica, Ambrogio Traversari, Alfonso di Burgos, Enea Silvio Piccolomini che per primo lo chiamo «Cusanus».
Grazie alla amicizia dei vescovi di Treviri e di Colonia, il Cusano poté avere presto alcuni benefici ecclesiastici, tra i quali il decanato di s. Fiorino in Coblenza. La prima predica di cui ci giunge notizia è del 24 dicembre 1430 sul prologo del Vangelo di s. Giovanni In principio erat Verbum; il tema è stato ripreso frequentemente dal Cusano. L’altro tema caratteristico della speculazione teologica del Cusano, l’unità e trinità di Dio, appare per la prima volta nella predica del 27 maggio 1431: Fides autem catholica.
Il Cusano entrò nel concilio di Basilea il 29 febbraio 1432 per difendere la causa di Ulrico di Manderscheid, che aspirava al vescovado di Treviri contro l’altro pretendente, Giacomo di Sierck. Si trattava di una causa che si trascinava da tempo, cui il papa Martino V (1417-1431) aveva cercato di porre rimedio nominando un terzo aspirante. Cusano perdette la causa; ma la sua partecipazione gli consentì di far parte della commissione De fide dove venne presto coinvolto nella discussione sulla questione hussita. Vi propose una soluzione di compromesso: concedere ai boemi la comunione sotto le due specie; si ottennero così alcuni anni di pace con i seguaci di Jan Huss (1370-1415). La stessa commissione dovette occuparsi anche del rapporto del concilio con il papa. Nacque in questo contesto il De concordantia catholica. In un primo tempo Cusano fu vicino alle tesi conciliaristiche. In occasione della visita a Basilea dell’Imperatore Sigismondo, Cusano si occupò della riforma dell’Impero. In seguito si volse, con una minoranza, alla causa papale e, nell’ambito di questa minoranza, fece parte di una delegazione inviata a Costantinopoli.
Nel viaggio di ritorno da Costantinopoli, nel 1438, egli ebbe l’intuizione che lo condusse a scrivere la sua prima opera filosofica importante, De docta ignorantia: «Tornando in mare dalla Grecia, sono arrivato ad afferrare le verità incomprensibili, in modo incomprensibile, nella dotta ignoranza, trascendendo tutto ciò che si conosce umanamente delle verità incorruttibili, per un dono altissimo che ho avuto, credo, da Dio, Padre della luce» (De docta ignorantia, III, 2, tr. it. Torino 1972, p. 201). La descrizione di questo evento può suscitare qualche perplessità. Il tema della ignoranza criticamente consapevole era acquisito ormai da due millenni, a partire da Socrate; come si può pensare che Cusano arrivi ora ad essa come per via di una illuminazione? Si potrebbe pensare ad un semplice e giovanile artifizio letterario; ma è ragionevole ammettere che il tema antico sia emerso in modo nuovo. Infatti, non è messo in questione il limite della nostra conoscenza, ma la struttura del conoscere, inevitabilmente interno alla polarità minimo-massimo, dove è impossibile raggiungere la perfetta univocità di ogni conoscenza. La perfezione della conoscenza si trova al di là della separazione irriducibile degli opposti, nella Unità che trascende i poli opposti, inattingibile se non nella forma rigorosamente apofatica del «so di non sapere». Cusano scriveva la sua opera senza trascurare i suoi molteplici impegni sul piano del governo della Chiesa. Fu a Ferrara nel 1438; venne poi inviato in Germania dove partecipò alle diete di Norimberga del 1438 e di Magonza del 1439. Egli cercava di indurre i tedeschi ad uscire dalla neutralità ed a schierarsi del tutto a favore di papa Eugenio IV (1431-1447).
Tra il 1440 ed il 1449 Cusano si trattenne in Germania dove combatté a favore della causa papale contro i conciliari. Al termine di questo periodo venne nominato cardinale. L’11 gennaio 1450 venne a Roma per ricevere il cappello cardinalizio con il titolo di s. Pietro in Vincoli dal papa Nicolò V (1447-1455) che in quell’anno giubilare celebrava la pace ritrovata dopo l’ultimo scisma. Del 1450 è la lettera a Lorenzo Valla, chiamato «doctissime vir, amice singularissime». Grazie a Paolo dal Pozzo Toscanelli, egli entrò in contatto con Leon Battista Alberti, architetto e teorico dell’arte. Partecipò in questo periodo anche alla disputa tra aristotelici e neoplatonici.
Durante il soggiorno romano, Cusano venne nominato vescovo di Bressanone; ma prima di prendere possesso della diocesi, si recò in Germania dove predicò il giubileo. Il viaggio ebbe particolare importanza dal punto di vista pastorale perché fu l’occasione per combattere diverse superstizioni: si adoperò per testimoniare in tutta la sua purezza il messaggio evangelico di conversione. Entrò nella sua diocesi due anni dopo, nel 1452. Gli anni di Bressanone non furono facili, perché vi ebbe avverso il Capitolo. Lavorò all’opera della riforma monastica trovando spesso fiere resistenze. Al centro dell’opposizione al Cusano c’era Sigismondo d’Austria, conte del Tirolo, che vantava diritti su certe terre nel Vescovado e puntava alla secolarizzazione dei beni ecclesiastici. Il Cusano si trovò allora coinvolto in episodi di aspro e sanguinoso conflitto; venne finalmente liberato da queste angustie da papa Pio II (1458-1464) che lo chiamò a Roma.
Tra il 1459 e il 1464, a Roma, Cusano compose le sue ultime opere filosofiche. Ci fu un tentativo di ritorno a Bressanone, che fallì a causa dell’assedio oppostogli da Sigismondo d’Austria nel castello di Buchenstein e Brunico. Morì l’11 agosto 1464 a Todi, mentre era in viaggio per Ancona dove Pio II si era recato per assistere alla raccolta e all’imbarco dei Crociati. Il suo corpo riposa a s. Pietro in Vincoli; volle però che il suo cuore venisse sepolto a Kues nell’ospedale che egli aveva fatto costruire per assistere i poveri.
Le opere di Cusano spaziano dalla filosofia alla politica, dalla predicazione pastorale alla teologia dogmatica. Buon conoscitore delle scienze del suo tempo, le cui tematiche entrano con naturalezza negli scritti filosofici e teologici, fu autore di scritti espressamente dedicati all’astronomia, alla matematica, alla geometria e all’alchimia.
II. Il discorso su Dio e la teologia apofatica
Le linee essenziali del pensiero di Nicola Cusano si trovano già chiaramente espresse nel De docta ignorantia (1440). Si tratta di un grande testo di metafisica che sorge dalla consapevolezza critica della nostra impossibilità di giungere a conoscenze definitive. Naturalmente, ciò è detto non nella prospettiva del relativismo, ma del rigoroso apofatismo teologico ispirato a Dionigi pseudo-Areopagita. Il primo libro tratta del maximum absolutum, cioè di Dio; il secondo del maximum contratto nella pluralità, ed il terzo del maximum insieme contratto e assoluto, cioè di Cristo quale vero uomo e vero Dio.
La conoscenza è riconosciuta come il frutto di una operazione di proporzione tra l’ignoto e il noto. Se l’operazione è breve, allora la conoscenza è rapida. Ma gravi difficoltà sorgono quando abbiamo bisogno di una lunga serie di mediazioni. Nell’ambito del finito è impossibile una conoscenza precisa delle cose. La verità perfetta è irraggiungibile perché ogni relazione è sempre, inevitabilmente, scandita tra un “più” ed un “meno”. «L’intelletto, che non è la verità, non comprende mai la verità in modo così preciso da non poterla comprendere più precisamente ancora all’infinito, perché sta alla verità come il poligono sta al cerchio. […] La quiddità delle cose, che è la verità degli enti, è inattingibile nella sua purezza ed è cercata da tutti i filosofi, ma da nessuno trovata così come è» (De docta ignorantia, I, 3, p. 61). Da qui la conclusione rigorosa della dotta ignoranza: «quanto più profondamente saremo dotti in questa ignoranza, tanto più ci avvicineremo alla verità» (ibidem). In anni successivi, quando dovette difendere il suo libro, Cusano rese esplicito il riferimento non solo all’insegnamento di Socrate, ma, soprattutto, a quello dello Dionigi pseudo-Areopagita. Decisiva è la sua argomentazione in ordine al massimo ed al minimo: «Noi cogliamo solo in modo incomprensibile il massimo di cui non ci può essere nulla di maggiore. […] Esso è al di sopra di tutto quello che può essere da noi concepito» (De docta ignorantia, I, 4, p. 61). D’altra parte «il minimo è ciò di cui non c’è nulla di più piccolo. E poiché il massimo è allo stesso modo, è chiaro che il minimo coincide con il massimo» (ibidem, p. 62). Cusano vuol dire che, tolta la quantità, che è dimensione propria del finito, il centro coincide con l’infinita circonferenza: «Svincola ora il massimo e il minimo dalla quantità con uno sforzo della mente, togliendo grande e piccolo: vedi allora chiaramente che minimo e massimo coincidono» (ibidem). È di decisiva importanza osservare che tale coincidenza non conduce ad una totalità intesa quale integrazione dialettica degli opposti. Se ciò fosse, si dovrebbe riconoscere vera l’opinione secondo cui Cusano è da considerare uno gnostico anticipatore di motivi hegeliani. Ma la lettera e lo spirito dei testi cusaniani mostrano come l’intendimento dell’Autore sia volto essenzialmente alla Trascendenza intesa non come dialettica integrazione degli opposti, ma come ineffabile “Unità” al di là delle distinzioni e delle opposizioni. L’ispirazione pitagorica, attraverso il gioco dei rinvii dialettici e la tematizzazione dei limiti della ratio matematica, consente di attingere la dimensione intellettiva: «In modo incomprensibile, al di sopra del discorso della ratio, vediamo che la massimità assoluta è infinita, che ad essa nulla si oppone e che con essa coincide il minimo» (De docta ignorantia, I, 4, p. 63). Dio è al di là della coincidenza degli opposti. «E ho trovato il luogo nel quale Ti rivelerai, luogo recinto dalla coincidenza degli opposti. Ed è questo il muro del paradiso dove Tu abiti, e il suo accesso è custodito dallo spirito altissimo della ragione, che non aprirà l’ingresso se non a chi la saprà vincere. Allora, oltre la coincidenza degli opposti [corsivo nostro] potrai apparirmi, e mai al di qua» (De visione Dei, IX, p. 563).
Non si insiste, forse, mai abbastanza nel mostrare che la coincidentia oppositorum del Cusano (contrariamente alla diffusa opinione) non ha rapporto, sotto il profilo teoretico, con gli esiti della dialettica hegeliana. Molto distintamente lo si vede dove l’Autore parla del beryllus, la pietra trasparente cui viene data la forma insieme concava e convessa, che consente di vedere più distintamente ciò che prima era invisibile. Il berillo rappresenta, nell’opera cusaniana, la coincidenza degli opposti. «Il berillo è una pietra luminosa, bianca e trasparente cui è data una forma insieme concava e convessa. Chi guarda attraverso di esso coglie ciò che prima era invisibile. Se un berillo intellettuale, che ha una forma parimenti massima e minima, viene adattato agli occhi dell’intelletto, per suo mezzo potremo cogliere il principio invisibile di tutte le cose» (De beryllo, II, p. 644). Non c’è in questo passo una particolare novità rispetto a cose già dette, se non il chiarimento del valore “strumentale” della coincidenza degli opposti al fine di poter guardare in trasparenza, al di là d’ogni opposta contrazione, il principio originario. Inoltre, non c’è in Cusano alcuna giustificazione dialettica del finito che, nella sua struttura razionale, viene riferito alla libertà del Creatore: «Dico con il Sapiente (cfr. Sir 8,17) che di tutta l’opera di Dio la ragione — cioè perché il cielo è cielo, la terra è terra, l’uomo è uomo — è che così ha voluto colui che l’ha fatta» (De beryllo, XXIX, p. 673). L’essenza delle cose è data dall’intenzione del Creatore: «Quando qualcuno ci parla, comprendiamo la quiddità del suo discorso solo se comprendiamo l’intenzione di chi parla. […] La causa dell’intenzione è la manifestazione: chi parla, l’intelletto fondatore, intende manifestare così se stesso. Quando abbiamo appreso l’intenzione, che è la quiddità della parola, abbiamo il “ciò-che-l’essere-era”. Presso l’intelletto, “ciò-che-l’essere-era” è appreso nell’intenzione dell’architetto che era nel suo intelletto» (De beryllo, XXXI, p. 675).
Cusano eredita dalla metafisica della Cristianità la scansione dei gradi diversi della conoscenza: al di sopra del sensus si pone la ratio e, al di là della ratio, che è discorsiva, si pone l’intellectus. Si noti che l’ordine è diverso rispetto a quello che è divenuto abituale dopo Kant, dove l’intelletto è inferiore alla ratio discorsiva. La diánoia matematica è trascesa nella visione intellettuale; e la visione intellettuale, attraverso la coincidentia oppositorum, può volgersi alla Trascendenza assoluta.
Il nostro sapere è sempre e soltanto un congetturare: la congettura è razionale; ma non certo conoscenza definita. C’è qui la memoria del trascendimento dell’anima razionale di cui ha parlato s. Agostino (cfr. De vera religione, 39). Al di là della ratio ci si volge intellettualmente all’Uno-unico che trascende ogni distinzione, che non si trova all’interno di alcuna relazione, essendo Egli stesso il principio unico nel quale e per il quale è possibile ogni relazione. Nell’Uno-unico trovano fondamento tutte le cose; l’Uno-unico non può essere un numero; è invece il principio di ogni numero, perché è al di là della grandezza minima e al di là della grandezza massima: «È l’unità assoluta cui nulla si oppone, Dio benedetto» (cfr. De docta ignorantia, I, 5, p. 64).
A partire dall’accorgimento neoplatonico dell’Uno-unico che trascende ogni distinzione, che non cade all’interno di alcuna relazione che lo accolga, Cusano propone l’interpretazione del mysterium Trinitatis in chiave agostiniana. Dio gli appare Unitas-aequalitas-nexus. I nessi logici vengono intesi come espressione del principio originario. Nell’ambito del pensiero moderno, Hegel ha sostenuto che c’è identità di razionale e reale; qui non c’è, evidentemente identità, ma rifrazione: le strutture logiche nell’ambito del finito, al di qua della opposizione di minimo e massimo, consentono di risalire prospetticamente, lungo la via della razionalità e della visione intellettuale, alla verità di Dio. L’argomentazione di tipo matematico (meglio diremmo pitagorico, poiché il numero è studiato in una prospettiva sapienziale) dà evidenza al rifrangersi della Verità Originaria, cioè dell’Uno, nella nostra mente. Per questo motivo, nonostante argomentazioni talvolta estremamente astratte, si avverte nell’opera un intenso afflato mistico non privo di intensa emozione.
In Dio tutte le cose hanno il loro fondamento, ma le cose tutte non sono Dio. Dio è al di là delle determinazioni, fossero pure intese come totalità dialetticamente connessa. Non c’è traccia, in Cusano, né di panteismo né di panenteismo (vedi infra, V). In Dio le cose sono Dio stesso: questa è forse una delle intuizioni più importanti dell’Autore: Dio è l’essenza originaria nella quale e per le quale tutte le cose sono state costituite. Ma non dobbiamo pensare che in Dio vi siano innumerevoli idee corrispondenti alle diverse specie quali sono determinate nel mondo. L’essere Uno-unico di Dio è l’essenza unica alla quale si riconducono tutte le specie, dalla quale le specie discendono in una sorta di ramificazione progressiva discendente. Viene così confutata l’idea che il creato sia la copia (inevitabilmente imperfetta) delle idee presenti nell’intelletto divino. In realtà, l’exemplar originario è rigorosamente unico e dà luogo ad una infinità di rifrazioni: ogni cosa è connessa con le altre e tuttavia nessuna cosa è semplice ripetizione. Tale prospettiva metafisica emerge, tuttavia, con qualche incertezza per l’inevitabile ossequio all’esemplarismo platonico: «Il divino Platone, (secondo quanto riferisce Calcidio), […] affermò nel Fedone che uno solo è l’esemplare o l’idea di tutte le cose in quanto è in sé. Rispetto alle cose, che sono molte, gli esemplari sembrano molti» (De docta ignorantia, I, 17, p. 84).
Chi teme di trovare in Cusano prospettive di segno panteistico, osservi il suo rigoroso apofatismo: nessun nome che possa essere pronunciato dall’uomo, conviene a Dio, nemmeno il nome di unità: «Il nome di unità non si attribuisce a Dio nello stesso modo in cui chiamiamo o intendiamo l’unità perché come Dio trascende ogni intelletto, così trascende, a maggior ragione, ogni nome» (De docta ignorantia, I, 24, p. 99). Ogni nome attribuito a Dio viene dato creaturarum respectu; e ciò vale anche per il nome «unità» che non è quella che entra in relazione con il molteplice. Non si tratta di nomi convenzionali, ma di nomi che ascendono, analogicamente, dalla partecipazione infinitesima verso l’inattingibile perfezione. Il discorso relativo ai nomi divini rende ben consapevoli del fatto che non ogni negazione e non ogni affermazione hanno lo stesso valore. Dionigi pseudo-Areopagita ragionevolmente parlava di negazioni eccellenti; similmente scrive il Cusano: «La santa ignoranza ci ha insegnato che Dio è ineffabile perché è infinitamente superiore a tutte le cose che possono essere nominate e perché egli è la somma verità. Pertanto, possiamo parlare di Lui in modo più vero con la rimozione e la negazione, come ha detto anche il grande Dionigi, che volle che Dio non fosse né la verità, né l’intelletto, né la luce, né alcuna di quelle cose che si possono esprimere con le parole» (De docta ignorantia, I, 26, p. 106). «Le negazioni sono vere e le affermazioni sono inadeguate negli argomenti teologici. Ma le negazioni che rimuovono le cose più imperfette da ciò che è perfettissimo sono più vere delle altre. [Per esempio], che Dio non sia pietra è più vero che non sia vita o intelligenza. Che non sia ebbrezza è più vero che non sia virtù. Il contrario avviene per le affermazioni. È più vera l’affermazione che dice “Dio è intelligenza e vita”, che quella che dice “Dio è terra, pietra e corpo» (ibidem).
Si è già detto che Dio dimora al di là d’ogni definizione. I riferimenti a Dionigi psuedo-Areopagita dominano tutti gli scritti cusaniani: «Tutte le cose che si possono dire in modo disgiuntivo e copulativo per consenso o contraddizione, non convengono a Lui a causa della eccellenza della sua infinità, perché è il principio unico anteriore ad ogni pensiero che possiamo formarci di Lui». Dice l’Autore, di Dio: «non è nulla, né non è, né è e non è insieme, ma è la fonte e l’origine di tutti i princìpi dell’essere e del non-essere» (De Deo abscondito, p. 309). Appare chiaro, in rapporto a questo passaggio, quanto l’intuizione metafisica del Cusano sfugga al giudizio che Martin Heidegger ha portato contro la metafisica dell’Occidente quasi che, in questa, si trovi la pretesa di descrivere l’Ente sommo come se esso fosse interno della preliminare nozione di essere. Dio non è oggetto di conoscenza, ma principio che rende possibile la conoscenza: «il Dio ignoto presiede a tutto ciò che ci muove a Lui» (De quaerendo Deum, p. 322); ed ancora: «Dio nostro, benedetto nei secoli, è tutto ciò che è in qualunque cosa che è, come il lume distintivo [è] nei sensi e quello intellettuale nelle ragioni; Egli è ciò dal quale la creatura ha ciò che è, la vita e il movimento; nel suo lume c’è tutta la nostra conoscenza, sicché non siamo noi che conosciamo, bensì è Lui che conosce in noi» (ibidem, p. 323). Sono parole ardite: possiamo divenire partecipi della divinità, ma evidentemente solo per grazia. Infatti «niente è colto senza la fede che è la prima a porre il viandante sul cammino giusto. La forza dell’anima nostra può elevarsi alla perfezione dell’intelletto solo in quanto crede» (De filiatione Dei, p. 334). Nessuna virtù può essere raggiunta dell’uomo se non per la grazia che ci ha dato il Cristo: «Credo che questa deificazione sia al di fuori di tutti i modi della intuizione. […] La filiazione dei molti non sarà senza quel modo che si potrebbe chiamare, forse, la partecipazione della adozione. Invece la filiazione dell’Unigenito, che esiste senza modo nell’identità della natura del Padre, è la filiazione stessa super-assoluta, nella quale e per la quale tutti i figli riescono ad ottenere la filiazione della adozione» (ibidem).
III. La visione del cosmo nel De docta ignorantia e gli interessi scientifici
La cosmologia cusaniana presenta temi affascinanti: l’universo gli appare non quale semplice somma di innumerevoli parti, ma quale unità: «Il mondo o l’universo è il massimo e l’uno contratto, che precede gli opposti contratti, quali sono i contrari» (De docta ignorantia, II, 4, p. 119): è sole nel sole, e luna nella luna, così come l’uomo non è l’insieme delle parti che lo compongono, ma è uno in qualunque organo: «Come l’universo è in atto solo in modo contratto, così tutti gli universali. Gli universali non sono solo enti di ragione, sebbene non si trovino in atto fuori dalle cose singolari. […] L’intelletto, tuttavia, li fa sussistere per astrazione al di fuori delle cose. L’astrazione è un ente di ragione, poiché l’essere assoluto non può convenire alle cose. E l’universale completamente assoluto è Dio» (De docta ignorantia, II, 6, p. 126).
Nell’universo si trova il vestigio della Trinità: il primo momento è dato dalla possibilità: «la possibilità assoluta è Dio in Dio, e non è possibile fuori di Lui» (De docta ignorantia, II, 8, p. 132). Fuori di Dio non esiste la possibilità assoluta perché fuori di Dio essa è sempre contratta dall’atto. Se allora la possibilità assoluta si trova solo in Dio, si dimostra che non può esistere una materia co-eterna a Dio, priva di forme. Il secondo momento in cui la Trinità si rifrange nell’universo è la forma. Cusano riprende le prospettive della scuola di Chartres: «Bisogna considerare l’anima del mondo come la sola forma universale che complica in sé tutte le forme, che esiste in atto nelle cose solo in modo contratto, ed è forma contratta della cosa in qualsiasi cosa, come abbiamo detto sopra dell’universo» (De docta ignorantia, II, 9, p. 139) Le forme delle cose sono distinte fra loro solo in quanto sussistono in modo contratto nelle cose; ma nel loro essere assoluto esse sono una unica forma che è il Verbo in Dio. Si vede qui, ancora una volta, come sia superato l’idea della pluralità dei modelli delle cose, poiché tutte le forme hanno senso all’interno dell’unica forma dalla quale derivano. Il terzo momento della rifrazione della Trinità è lo spirito dell’Universo che è la connessione dinamica tra materia e forma: «questo spirito è lo spirito creato senza il quale nessuna cosa può sussistere. Ma tutto il mondo e tutti gli esseri che lo abitano sono nella loro connessione ciò che naturalmente sono per opera di questo spirito che pervade l’orbe intero» (De docta ignorantia, II, 10, p. 142).
Le prospettive tolemaiche non sono negate dal Cusano, ma intuitivamente trascese. Nel cap. XI del libro II del De docta ignorantia incontriamo delle affermazioni di singolare interesse cosmologico: nell’universo, si afferma, non vi è alcun «centro fisso ed immobile»; poiché non c’è centro, non può esserci circonferenza: «Se avesse un centro, avrebbe anche una circonferenza»; «il centro del mondo coincide dunque con la circonferenza»; «la terra, che non può essere centro dell’universo, non può essere neppure priva di ogni movimento»; «siccome non è possibile che il mondo sia racchiuso tra un centro corporeo ed una circonferenza, esso rimane inconoscibile, in quanto il suo centro e la sua circonferenza sono Dio» (ibidem, p. 144). Al di là della loro eventuale rilevanza per l’astronomia contemporanea, queste tesi paiono piuttosto suggerire una visione di grande interesse metafisico quanto al connettersi dell’universo alle dimensioni del sovra-spazio e del sovra-tempo (aevum) e di queste, a loro volta, alla trascendenza assoluta di Dio. Come intendere altrimenti le seguenti espressioni: «Al di fuori di Dio […] non è reperibile una equidistanza precisa tra cose diverse, perché Dio solo è l’uguaglianza infinita. Allora, chi è il centro del mondo (ossia Dio benedetto) è il centro della terra, di tutte le sfere e di tutte le cose che sono nel mondo, ed è anche la circonferenza infinita di tutto» (ibidem, p. 145). Si trova qui una straordinaria intuizione: lo spazio non è negato, ma trasceso e sussunto in una ulteriorità metafisica di intensità altissima in cui implodono in unum centro e periferia. Cusano intende avvalorare la sua intuizione, che evidentemente riguarda la cosmologia metafisica, offrendo anche osservazioni astronomiche: le orbite dei corpi celesti non compiono circoli perfetti e ciò dimostra la perfettibilità di tutto ciò che si trova nell’universo. «La nostra terra non è sferica […] anche se tende alla sfericità» (De docta ignorantia, II, 12, p. 148), perché in natura non c’è nessuna perfezione che non possa essere trascesa. «La figura della terra è nobile e sferica e il suo movimento circolare; ma potrebbe essere più perfetto» (ibidem). Un’osservazione particolare richiama, sia pure in modo del tutto vago ed incerto, la teoria della relatività. Ogni misura interna all’universo è relativa al nostro punto di osservazione: l’osservatore si considera sempre al centro dell’universo, «dovunque uno sarà, crederà di essere nel centro» (De docta ignorantia, II, 11, p. 147).
E ancora, a proposito di terre diverse e di nature diverse: «Sebbene Dio sia il centro e la circonferenza di tutte le regioni astrali, e da Lui procedano nature di diversa nobiltà che abitano ogni regione, per impedire che alcuni luoghi dei cieli e degli astri siano vuoti, e che solo questa terra sia abitata, forse, da esseri inferiori, non sembra tuttavia che ci possa essere una natura più nobile e perfetta di quella intellettuale che abita in questa terra come nella sua regione, anche se nelle altre stelle ci sono abitanti di altro genere. L’uomo infatti non desidera una natura diversa, ma solamente di essere perfetto nella sua» (De docta ignorantia, II, 12, p. 151). L’idea delle nature che tendono alla loro perfezione riguarda anche le stelle: «Una stella comunica all’altra la sua luce e la sua influenza, non intenzionalmente, perché tutte le stelle si muovono e scintillano per realizzare il loro essere nel modo migliore; la loro partecipazione nasce, di conseguenza; così come la luce splende per la sua natura, e non al fine che io veda, ma la partecipazione della sua luce nasce di conseguenza, quando mi servo della luce per vedere» (ibidem, p. 149). Tutto è nobile nell’ordine delle cose create. Nemmeno la morte e la corruzione sono motivo sufficiente, secondo Cusano, per temere l’ignobiltà della terra. La dissoluzione, infatti, porta a forme nuove di vita, ut non sit morti locus: «Dio ottimo ha creato tutte le cose essendone il fine e non vuole che perisca nulla di ciò che egli fece» (ibidem, pp. 153-154).
Molteplici furono gli interessi scientifici di Cusano. Avanzò proposte per la revisione del calendario nello scritto De reparatione Kalendarii (1437): papa Leone X (1513-1521), in occasione del Concilio Lateranense V, lo ricordò tra i precursori della sua riforma. Nelle sue opere si trovano annotazioni relative al movimento apparente del sole ed alla precessione degli equinozi; svolse considerazioni di fisica dinamica e condusse alcune osservazioni sperimentali. Il fine ultimo dei suoi interessi scientifici, tuttavia, è sempre di natura speculativa. In molti casi, pur riprendendo convinzioni e valutazioni già diffuse e correnti nell’ambito della comunità scientifica del suo tempo, ne diede interpretazioni originali. È attribuita a Cusano una grande carta geografica dell’Europa centrale, che fu pubblicata per la prima volta nel 1491. Sul piano scientifico, i più significativi contributi di Cusano sono certamente i lavori in ambito matematico: De geometricis transmutationibus e De aritmeticis complementis del 1445 ed altri ancora, nel decennio 1450-1459, tra i quali De mathematicis complementis dedicato a Nicolò V, collegato al Complementum theologicum, al De visione Dei, e infine il De mathematica perfectione. Egli, che aveva conosciuto le Istitutiones arithmeticae di Severino Boezio (480 ca.-524) e gli Elementi di Euclide (III sec. a.C.) nella traduzione del Campano, riprese da Raimondo Lullo (1235-1315) il tema della quadratura del circolo: «L’arte sulla quale faccio le mie ricerche, oltre a ciò che è stato tramandato in sede di geometria, richiede la conversione del curvo nel retto e del retto nel curvo. E poiché tra queste due grandezze non c’è nessuna proporzione razionale, il segreto sta in una certa coincidenza degli estremi. Poiché tale coincidenza ha luogo nel massimo (come altrove si dice) ed il massimo è il circolo che non conosciamo, qui si dimostra che essa dovrà essere cercata nel minimo, che è il triangolo» (De geometricis transmutationibus). In ogni caso, l’intenzione di Cusano è sempre e soltanto quella di trovare, attraverso la matematica, prospettive di senso teologico: «come le matematiche ci conducano alle cose del tutto assolute, divine ed eterne, lo sa meglio di me la paternità vostra, che è una cima tra i teologi […]. La mia intenzione è di cercare la perfezione matematica nella coincidenza degli opposti» (De mathematica perfectione).
IV. La conoscenza umana, l’intelletto e la mente
I temi del libro De docta ignorantia vengono svolti ed approfonditi nel De coniecturis (1440), soprattutto in rapporto alla presenza fondante ed illuminante del Uno-unico. Il lavoro procede secondo un evidente schema di tipo neoplatonico; vi appaiono evidenti riferimenti a Proclo (410 ca.-485) e a Meister Eckhart (1260 ca.-1327). Il nostro pensare è sempre un congetturare; le certezze assolute sono a noi precluse. Tuttavia, come aveva già assai bene espresso nel De docta ignorantia, le nostre congetture hanno una struttura razionale e danno evidenza alle fondazione razionale del creato. «Il numero è un principio naturale, germinante, dell’edificio razionale. […] Il numero non è altro che ragione esplicata. […] Il numero è principio di ciò che è colto con la ragione, per cui, tolto il numero, è provato razionalmente che non resta niente di tutto. E che la ragione esplichi il numero e che si serva di esso nel formulare congetture, significa solo che la ragione si serve di se stessa e, nella sua più alta similitudine di sé, immagina tutte le cose nel modo stesso in cui Dio, mente infinita, comunica l’essere alle cose nel Verbo a lui coeterno» (De coniecturis, I, 2, p. 209). «La mente umana è la forma congetturale del mondo, come quella divina è [la forma] reale» (ibidem, I, 1, p. 208).
Nell’uomo c’è alterità tra l’intelletto e l’intelligibile; Dio soltanto è la loro perfetta identità. Il mondo delle congetture è un universo da noi costruito; gli universi dell’essere e del conoscere sono in noi irriducibili all’unità. Le congetture della mente umana sono tracciati di razionalità in cui si manifestano le leggi date dalla mente di Dio creatore. Una distanza infinita si apre tra la mente dell’uomo e la mente divina: «Che tutte le cose in Dio sono Dio, nell’intelligenza intelletto, nell’anima anima e nel corpo corpo non significa altro che la mente abbraccia tutte le cose o in modo divino o secondo l’intelletto, o secondo l’anima o secondo il corpo. In modo divino, cioè, in quanto la cosa è la verità; secondo l’intelletto, in quanto la cosa non è la verità stessa, ma è in modo vero; secondo l’anima, in quanto la cosa è in modo verosimile; secondo il corpo, invece la mente abbandona il verosimile e cade nella confusione» (De coniecturis, I, 4, p. 213).
L’Uno-unico costituisce la “gravità alta” che è principio di esistenza e di conoscibilità: «la certezza di questa unità assoluta è precisissima, affinché la mente compia ogni operazione in essa e per essa» (De coniecturis, I, 5, p. 214). Dio è “complicazione” (nel senso di con-implicazione) di tutto l’essere; l’intelligenza ne è la prima esplicazione. Si intende che c’è complicazione quando l’inferiore è contenuto nel grado superiore; e c’è “esplicazione”, o “contrazione”, quando ciò che si trova nel grado superiore si apre in determinazioni particolari. L’anima, ad esempio, è esplicazione dell’intelligenza e complicazione del corpo, il corpo è soltanto esplicazione e contrazione e non complica più nulla. «Tanto grande è […] la forza della semplice natura intellettuale da abbracciare tutto ciò che la natura divide come opposto. […] L’intelletto, che è consapevole della debolezza della ragione, disprezza le sue congetture. […] La ragione è, tuttavia, una certa precisione del senso. La somma precisione dell’intelletto è la verità stessa, cioè Dio» (De coniecturis, I, 10, p. 231). Una figura paradigmatica, composta di due piramidi opposte, illustra il senso del rapporto complicazione-esplicazione: la base di una piramide rappresenta la luce divina, la base dell’altra è la realtà corporea. La piramide della luce divina scende fino al limite della tenebra, l’altra rappresenta la realtà creata che dalle tenebre della corporeità è portata fino al limite della luce divina.
Assai intensa e significativa è la descrizione dell’uomo micro-cosmo: «mirabile è questo edificio di Dio in cui la virtù distintiva avanza per gradi dal centro in cui si trovano i sensi, fino alla natura intellettuale più nobile attraverso i canali degli organi, dove i legami del tenuissimo spirito corporeo si fanno sempre più sottili e più semplici per il prevalere delle virtù dell’anima, finché giungano alla cella della virtù razionale. Dopo di essa si arriva all’ordine più alto della virtù intellettuale come un fiume che sfocia nel mare sterminato, dove si congetturano cori di scienza, di intelligenza e di intellettualità semplicissima» (De coniecturis, II, 14, p. 280). La possibilità di volgersi all’esperienza sensoriale, di muovere alla conoscenza razionale e di salire verso la dimensione intellettuale definisce in modi diversi la qualità dell’uomo: «L’uomo […] è un dio, anche se non assolutamente, perché è uomo. È un dio umano. L’uomo è anche mondo, ma non è contrattamente tutto, perché è uomo. L’uomo è un microcosmo o un mondo umano. La regione della umanità comprende, nella sua potenza umana, Dio e l’universo mondo. L’uomo può essere un dio umano o umanamente un dio; può essere un angelo umano, una bestia umana, un leone umano, un orso umano ecc. Nella potenza della umanità tutti gli esseri esistono secondo il modo particolare di essa» (ibidem, p. 281). Sono queste le tesi che si ritroveranno nella notissima Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola (1463-1494).
Un significato del tutto particolare rappresenta l’opera L’idiota (1450, composta dai tre scritti: De Sapientia, De mente, De staticis experimentis), perché vi si mostra come l’intelligenza si volga alla luce della verità indipendentemente dalla erudizione posseduta. È il tema paolino della sapienza interiore: «Credere nell’autorità — dice l’Idiota all’Oratore — ti ha spinto ad essere come un cavallo, libero per natura, ma trattenuto con arte con la cavezza alla mangiatoia dove si ciba solo di ciò che gli viene somministrato» (Idiota, I, p. 438). Ma, commenta ancora l’Idiota, non bisogna dimenticare che a nulla valgono i libri se non si accetta il rapporto diretto alla verità. Anche Tommaso d’Aquino aveva scritto «Studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum». Il Cusano si rivolge allora non semplicemente alla sapienza degli antichi, ma al loro atteggiamento nei confronti della sapienza: «Coloro che per primi si dedicarono a scrivere sulla sapienza non crebbero per il nutrimento dei libri che ancora non c’erano, ma divennero uomini perfetti per alimento naturale» (ibidem). Ed ancora: «La somma sapienza è questa: sapere in che modo si attinge, in maniera inattingibile, l’Inattingibile» (Idiota, I, p. 441).
Una questione importante viene affrontata in ordine alla mente: non si deve credere — egli scrive — che vi siano nozioni innate fin dal momento della creazione, perdute a causa della caduta nella corporeità. La mente si trova nel corpo per un disegno positivo di Dio: «la mente è quella forza che, sebbene priva di ogni forma nozionale, può, tuttavia, se stimolata, assimilarsi ad ogni forma» (Idiota, II, p. 477). «La mente — scrive ancora Cusano — è sostanza viva che noi sentiamo parlare e giudicare entro di noi, e si assimila alla sostanza infinita e alla forma assoluta più di ogni altra forza spirituale fra tutte quelle di cui abbiamo esperienza dentro di noi» (Idiota, II, p. 477-478). La mente è condotta alla intelligenza dalla luce originaria; è individuale e presiede, come anima, alle funzioni diverse del corpo. La sua esistenza non dipende dalla vita del corpo e può vivere immortale: «Coloro che riconoscono l’intelligibilità come elemento della discesa dell’intelletto e della intelligibilità come fine, affermano che la mente non dipende mai dal corpo. Coloro che riconoscono la ragione come elemento dell’ascesa dell’intelletto e l’intelligibilità come fine, non ammettono che la mente possa mai morire con il corpo» (Idiota, II, p. 518). «La mente ha la vita intimamente connessa, per la quale vive sempre, come la sfera è sempre rotonda grazie al circolo che le è connesso» (Idiota, II, p. 519). L’immortalità non è dimostrata sulla base di una sorta di incorruttibilità dell’anima, ma in modo più alto, sulla base del dono di luce che non può venir meno: «Siccome è impossibile che la verità infinita sottragga lo splendore della luce comunicata, in quanto è bontà assoluta, è impossibile che la sua immagine, che non è altro che questa luce comunicata, venga meno, come quando il giorno che ha cominciato ad essere per lo splendore del sole, non viene meno finché il sole risplende» (Idiota, II, p. 520).
Importanti tratti di dialettica trinitaria, evidentemente ispirati a temi agostiniani, si ritrovano nel De mente: «La nostra mente, immagine della mente eterna, cerca di scoprire la misura di sé nella mente eterna, come similitudine nella verità. La nostra mente, immagine di quella eterna, deve essere considerata una forza superiore, nella quale il poter essere assimilato, il poter assimilare e il nesso di entrambi sono essenzialmente una sola ed identica cosa. La nostra mente, pertanto, se non è una nella trinità, non può intendere nulla allo stesso modo della mente divina» (Idiota, II, p. 505).
V. Il rapporto fra Creatore e creatura
Alcuni autori, come Johannes Wenck nella sua opera De ignota literatura (1442), accusarono Nicola Cusano di panteismo. Ma sembra veramente che l’accusa sia infondata se, come insistentemente si legge nell’opera cusaniana, Dio è indicato come l’Unità inattingibile al di là della coincidentia oppositorum e se il nostro sapere Dio si riferisce non ad altro che al riconoscimento della luce originaria che costituisce ed illumina il nostro intelletto e la nostra ragione. La nostra conoscenza di Dio, si direbbe con linguaggio della filosofia contemporanea, è relativo agli eventi riconoscibili in ragione della luce che da Lui stesso scende: «La nostra virtù ha in potenza le ricchezze ineffabili della luce intellettuale, che non sappiamo di avere, essendo esse in potenza fino a quando non si rivelano a noi grazie al lume intellettuale che esiste in atto e fino a quando non si manifesta il modo che le fa passare in atto. Così nel campicello del povero sono contenute in potenza molte ricchezze che egli troverebbe se sapesse dove sono e le cercasse nel modo dovuto» (De dato patris luminum, V, p. 370). Cusano stesso si difese dall’accusa di panteismo con rigorosa determinazione nella Apologia doctae ignorantiae (1449). Egli aveva ragione di temere che ci fosse animosità politica contro di lui, visto che si vedeva condannato accanto ai Valdesi, a Wycliffe, ai Begardi e alle Beghine. In verità, Cusano non dissolve le cose in Dio né, meno ancora, Dio nelle cose. Quando egli afferma che tutte le cose, in Dio, sono Dio stesso, vuol dire che Dio possiede una conoscenza perfetta di ogni singola cosa nella perfetta e semplicissima connessione con tutte le altre, e conosce soprattutto le cose nella ineffabile connessione creaturale con l’essere semplicissimo che Egli stesso è.
Un interesse del tutto particolare lo riveste il libro Dialogus de genesi perché non si tratta di un trattato di ermeneutica strettamente riferibile alla lettera biblica, bensì di una proposta teoretica originalissima: Dio è Uno, identità originaria ineffabile; Egli solo può chiamare ciò che «non-è» alla «identità». Si vede qui il tema affascinante della creazione spirituale, che chiama all’essere enti in sé riflessi, consapevoli della identità con se stessi: «L’identico chiama […] il non identico all’identico. E poiché l’identico non è moltiplicabile e non è afferrabile dal non identico, il non-identico sorge nella conversione all’identico. E si trova nella assimilazione, così: l’entità assoluta, che è l’identico assoluto, chiama il non-ente all’identico; ma poiché il non-ente non può cogliere l’entità assoluta immoltiplicabile, il non-ente emerge nel ritorno all’entità assoluta, cioè nell’assimilarsi all’identico stesso. L’assimilazione significa la coincidenza della discesa dell’identico nel non-identico, con l’ascesa del non-identico all’identico» (De genesi, I, p. 380). L’idea è ricca di sviluppi metafisicamente affascinanti: Dio e mondo sono separati dall’invalicabile vallo del «non». Il mondo è il «non-identico». Ma l’azione della creazione si compie non soltanto nell’atto di porre ciò che è «altro», ma nel chiamare il «non-identico» alla identità. Nel chiamare gli enti a sé, Dio li pone nella loro più pura ed autentica natura: ciò che è «non-identico» viene chiamato alla propria identità; il movimento verso la propria identità inattuale è possibile solo entrando nella “gravità alta” dell’Identità assoluta. Il linguaggio è astrattamente dialettico; ma vi si intravede la possibilità di “sperimentare” ciò che pure, razionalmente, non può essere spiegato. Ciascuno di noi, infatti, può dire: “tutto di me preesisteva alla mia nascita; ma io stesso prima di essere questa singolarità, non ero; ed ora sono come identità incoativa che sussiste nell’orizzonte della gravità alta esercitata dalla identità assoluta”.
La chiamata da parte di Dio all’identità assume in Cusano aspetti di intensa partecipazione anche emotiva. Dio chiama a sé le creature; ma in questo le costituisce nella loro più pura ed autentica identità: «Quando io riposo così nel silenzio della contemplazione, Tu, Signore, nel mio intimo più segreto, mi rispondi e mi dici: Sii tuo, ed Io sarò tuo. O Signore, soavità d’ogni dolcezza, hai posto nella mia libertà la decisione di essere di me stesso, se lo vorrò. Se io non sono di me stesso, Tu non sei mio: altrimenti costringeresti la mia libertà, poiché non puoi essere mio, se prima io non sono di me stesso. E avendo lasciato questo alla mia libertà, non mi necessiti, ma attendi ch’io decida di essere di me stesso» (De visione Dei, VII, p. 557).
Di grandissimo rilievo, anche ai fini del rapporto fra Dio e la creazione, è la cristologia speculativa del Cusano. L’intenzione dell’Autore non è certo la pretesa di “comprendere” intellettualmente il mistero della incarnazione, ma di svelare la coerenza interna al mistero della creazione e della redenzione. Cristo è il «massimo contratto» ed è, al tempo stesso, l’assoluto. Come Duns Scoto (1265 ca.-1308), anche Cusano pensa che l’incarnazione fosse già implicita nell’originario progetto della creazione. Per volgersi al Cristo bisogna volgersi, ancora una volta, al di là delle opposizioni. Nel mondo non si trovano enti che raggiungano la massima contrazione; infatti ogni cosa potrebbe essere contrazione di realtà più vaste, oppure potrebbe essere maggiormente contratta. Solo quell’individuo nel quale si contrae l’Assoluto stesso è il massimo contratto ed è, quindi, un solo individuo con due nature. In Lui si verifica la coincidenza di Creatore e creatura. Il punto di contatto è a buon diritto il punto più alto delle nature prive di intelletto ed il punto più basso delle creature intelligenti. «Ora, questa natura media è proprio l’umana la quale, per opera di Dio è stata sollevata sopra tutte le cose ed è di poco inferiore alla natura angelica, complicando in sé e la natura intellettuale e la natura sensibile e radunando nel proprio ambito tutto ciò che esiste, sì da essere giustamente chiamata, sin dagli antichi, microcosmo o piccolo mondo» (De docta ignorantia, III, 3, pp. 165-166).
VI. Alterità e conoscibilità di Dio nelle opere filosofiche dell’ultimo periodo
Alcuni approfondimenti interni alla dottrina cusaniana possono cogliersi nella considerazione delle opere filosofiche relative all’ultimo periodo 1459-1464. Il lavoro di questa ultima articolazione non è irrilevante; al contrario, vi si trovano espressioni che guidano in modo sempre più puro ed efficace al riconoscimento della presenza originariamente fondante di Dio e, al tempo stesso, della sua trascendenza assoluta: De principio; De aequalitate; De possest; De non aliud; De ludo globi, De apice theoriae; De venatione sapientiae; Compendium.
Particolarmente ricca di suggestioni risulta la parola possest che indica la coincidenza in Dio di potenza ed atto. Il termine risulta dalla costruzione di un infinito e di un indicativo presente: «potere-è»: «Siccome l’attualità è in atto, essa può essere certamente, essendo impossibile che non sia. La possibilità assoluta non può essere diversa dal potere, come l’attualità assoluta non può essere diversa dall’atto. E questa possibilità di cui si parla non può essere anteriore all’attualità, come se dicessimo che la potenza precede l’atto. In che modo, infatti passerebbe in atto se non per l’attualità? Il poter essere fatto, se producesse se stesso in atto, sarebbe in atto prima di essere in atto. Dunque la possibilità assoluta, di cui stiamo parlando, per la quale le cose che sono in atto possono essere in atto, non precede l’attualità, e neppure la segue. E come l’attualità potrebbe essere, se non esistesse la possibilità? La potenza assoluta, l’atto e il loro nesso sono, dunque co-eterni, né sono più cose eterne, bensì la stessa eternità» (Possest, p. 750).
L’argomentazione, certo non impreceduta, riveste una grande importanza in rapporto alle categorie dominanti nell’ambito della cultura contemporanea, evidentemente di segno opposto: è diffusissima l’opinione secondo cui il mondo risulta dal combinarsi di parti senza alcuna necessità. Nessuno accetterebbe oggi di porre la questione della ratio che giustifica l’esistenza del mondo. Si dice infatti: «C’è; e ciò basta per cominciare». Al contrario, la grande tradizione metafisica, profondamente rivissuta dal Cusano, ha sempre sostenuto che l’attualità ha in sé la potenza; e solo a partire dalla attualità la potenza si apre all’itinerario che, nell’ambito del finito, procede dalla possibilità alla attualità.
Una espressione ancora una volta molto ardita ed efficace si trova nell’opera Directio speculantis seu de non aliud. Cusano è alla ricerca di una formulazione che consenta di dire l’originario e che sveli l’inizio “assoluto” del percorso filosofico: la individua nell’espressione «non-altro» «Non-aliud» definisce ogni cosa; e definisce anche se stessa. «Il non-altro non è altro che non-altro»: definizione e definito coincidono. Si tratta di un’espressione negativa per indicare la presenza originaria che si pone anteriormente ad ogni relazione. Ogni relazione si pone in un contesto di alterità: A si pone in relazione a B perché, evidentemente, A è diverso, cioè è altro da B. Ma sia A che B sono, ciascuno, «non-altro che A», «non-altro che B», e così via. Non-altro precede il riconoscimento della alterità e costituisce la possibilità che vi sia la relazione di alterità. «Vedo che Dio è non-altro che Dio, che una cosa [è] non altro che quella cosa, il nulla non-altro che nulla, il non-ente non-altro che non-ente; e così di ogni cosa che può esser detta in un modo qualsiasi. Pertanto vedo che non-altro è anteriore a tutte le cose, perché le definisce ed esse sono altre, perché il non-altro è anteriore» (De non aliud, p. 795). L’Autore si volge allora, sulla via aperta da questa espressione, a tematizzare il Principio primo originario inteso come «luce che è Dio, che è prima di ogni altra luce esprimibile con un nome qualsiasi, ed è semplicemente prima dell’altro» (De non aliud, pp. 795-796). Ricompare uno dei temi più caratteristici ed affascinanti della speculazione cusaniana: se «non-altro» precede l’alterità, e se, evidentemente, gli opposti sono «altro» l’uno rispetto all’altro, allora «non-altro» è presente nei poli opposti ed irrisolto in essi; è quindi ad un tempo, presente e trascendente.
Noi siamo abituati a meditare sulla alterità qualitativa di Dio e lo indichiamo, sulla base delle tematizzazioni di R. Otto e di K. Barth, il «totalmente-altro». Non si possono presentare riserve nei confronti di questa espressione contemporanea in cui si traduce la consapevolezza di quanti, immuni da superstizioni, riconoscono che le vie di Dio radicalmente differiscono dalle nostre vie. Ma si deve ammettere che il «non-altro» indica ad un tempo la presenza di Dio quale fondamento primo e la sua assoluta irriducibilità ad un supremo ente, o alla totalità degli enti, o alla loro eventuale sintesi dialettica. L’intuizione cusaniana apre un itinerario metafisico volto a riconoscere che in un unico insondabile mistero incontriamo ad un tempo la certezza della presenza fondante e la certezza della assoluta, inattingibile trascendenza di Dio.
I temi della Directio contemplantis compaiono nuovamente nel De aequalitate che svolge argomentazioni relative alla uguaglianza: «Non puoi vedere cose diseguali senza l’uguaglianza. Esse si accordano nell’essere diseguali» (De aequalitate, p. 710). «Forse che non è vero che tolta l’uguaglianza, non si intende niente, niente sussiste o dura? Quanto più la complessione [di un organismo] è uguale, tanto più è sana, perfetta e duratura. L’uguaglianza è la durata eterna. L’uguaglianza che è vita, è vita eterna. L’intendere è il vivere dell’intelletto. La vita consiste nell’uguaglianza. Dunque se l’anima, che tutto illumina, vede che, tolta l’uguaglianza, non rimane niente, essa conclude che tutte le cose sono da essa, per essa, in essa» (De aequalitate, p. 711). Il criterio viene riferito al mistero della S.S. Trinità: «le tre Persone uguali non sono uguali per accidente, ma per essenza, essendo uguali senza alterità. Esse sono l’uguaglianza non moltiplicabile che, siccome non sopravviene accidentalmente alle persone né è partecipata da esse, è ciò che ogni persona è per essenza. E non ci può essere alterità dove non c’è altro che l’uguaglianza immoltiplicabile» (De aequalitate, p. 712). Per cogliere il senso e la forza di questa argomentazione, qui ricordata in pochi tratti, bisogna superare la concezione gnoseologistica: non si tratta qui di descrivere l’ente, ma mentre si colgono le strutture e le dinamiche interne al pensiero, lo si intende quale evento che, in seno all’essere, lo coglie nel suo annunciarsi.
In Cusano non c’è curiosità intellettuale, ma il desiderio di una profonda sapienza: «Noi siamo stimolati da un segreto desiderio della nostra natura a possedere non solamente la scienza, ma anche la sapienza, cioè la scienza più sapida» (De venatione sapientiae, p. 932). Cusano ripercorre le sue argomentazioni e le sue intuizioni fondamentali: interpreta la philosophia perennis come lo svolgersi in continuità di un’unica sapienza che variamente si articola e si annuncia in ragione di linguaggi diversi. Sotto un certo profilo, appare legittimo cercare in Platone ed in Aristotele alcuni tratti di quella luce che, più alta e diffusa, splende nella Sacra Scrittura. «Dotta ignoranza», «potere-è», «non-altro», «luce», «lode», «unità», «uguaglianza», «nesso», «termine», «ordine»: sono tutte espressioni-traccia che si orientano verso il Nome irrivelato dell’Altissimo, sulla via dell’unica sapienza «anteriore a ogni cosa nominabile», e «possibile più nel silenzio e nella visione, che nel parlare e nell’ascoltare» (De venatione sapientiae, p. 999). Se si esaminano attentamente queste diverse espressioni, si vede bene che esse alludono tutte, in diversa guisa, a Dio: «Questo è quanto catturai nella mia caccia: il mio Dio è colui che è degno di lode per tutte le cose lodabili, non come colui che partecipa della lode, ma come lode assoluta, lodabile per se stessa e causa di tutti i lodabili e, per questo, anteriore e più grande di ogni lodabile in quanto termine di tutti i lodabili; ed è il potere-è». (De venatione sapientiae, p. 1002)
Molti cercano oppure respingono Dio prendendo le mosse da categorie umane: richiesta di protezione, di giustizia o altro; ma nulla vale tutto ciò. La metafisica sorge dove c’è nostalgia dell’Inattingibile: «L’intelletto desidera sapere. Tuttavia il desiderio naturale non lo spinge a conoscere la quiddità di un Dio a lui affine, ma a conoscere un Dio così grande che non c’è nessun termine alla sua grandezza. Per questo Dio è più grande di ogni concetto e di ogni scibile. […] Il creatore è certamente sempre più grande di ogni cosa conoscibile e comprensibile anche se questa avesse una perfezione infinita e incomprensibile» (De venatione sapientaie, p. 954).
In metafisica il paragone tra la luce sensibile e la luce intellettuale è stato proposto innumerevoli volte e non ve n’è uno migliore. È singolare ed interessante che Cusano tenti di stabilire una sorta di punto di contatto tra la luce intellettuale e quella fisica: «la luce sensibile si unisce alla luce intelligibile nel vedere, come, cioè come un estremo (l’estremo più alto dell’inferiore e della natura corporea) si unisce con l’estremo più basso della natura superiore della conoscenza» (De venatione sapientiae, p. 1014).
VII. Riflessioni conclusive
Nicola Cusano è senza dubbio uno dei pensatori più interessanti del Quattrocento europeo, esempio lucido di una teologia che, senza mai perdere le sue irrinunciabili connotazioni cristiane, si rapportò al neoplatonismo avvalendosi della mediazione di Dionigi pseudo-Areopagita. L’universo di Cusano è strutturato secondo le leggi dell’armonia e, per conoscerlo, occorre rivolgersi alla matematica perché questa, nelle sue concordanze e nelle sue differenze, nelle sue proporzioni e nelle sue analogie può offrircene un’immagine. Ma non si tratta di una anticipazione del metodo galileiano: qui la matematica costituisce il riferimento neo-pitagorico di una numerologia sapienziale che non tanto misura il finito: piuttosto apre, prospetticamente, alla trascendenza. I paradossi di tale numerologia danno evidenza alla sproporzione tra la creatura ed il Creatore ineffabile. L’armonia più profonda resta a noi celata nel mistero del Dio nascosto e nel mistero del mondo che, quanto alla sua origine ed alla sua totalità, in certo modo partecipa del divino nascondimento. La sapienza va cercata con ardore, quasi andando a caccia di essa, in una sorta di venatio sapientiae.
In questa prospettiva, l’intuizione mistica assume per Cusano un grande rilievo non solo in teologia, ma anche nell’ambito delle scienze: un atteggiamento riverente e contemplativo deve guidare l’uomo che cerca la verità di Dio e delle cose che hanno in Dio la loro origine. La forte valenza apofatica del percorso cusaniano non sminuisce in alcun modo il desiderio di contemplare il Volto di Dio, né l’intendimento di cercarlo con tutte le forze. L’afflato mistico-speculativo si congiunge così all’intensità emotiva del trovarsi sempre al cospetto di Dio: l’icona del Santo Volto il cui sguardo resta diretto verso l’osservatore nonostante che questi si sposti da un lato all’altro, diviene simbolo del “vedere” di Dio che è non è mai obliquo, ma sempre “retto”. La possibilità di vedere Dio è tutta nel riconoscersi guardati da Dio: «Vedendomi, mi concedi di poterti vedere, Tu che sei il Dio nascosto. Nessuno ti può vedere se non gli concedi di esser visto. Il tuo esser visto è il tuo vedere chi ti vede. Vedo in questa immagine, Signore, quanto ti sei abbassato per mostrare il tuo volto a tutti quelli che ti cercano. […] Se non mi guardi, è perché non ti guardo io» (De visione Dei, V, p. 551).
Opere di Nicola Cusano: Nicolai de Cusa Opera Omnia, editione critica a cura dell’Accademia delle Scienze di Heidelberg, 22 voll., F. Meiner, Hamburg 1959–, disponile per alcune opere anche come editio minor. Bibliografia cusaniana: Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft, M. Grünewal, Mainz 1961–. Fra le traduzioni in lingua italiana: Opere Religiose, a cura di P. Gaia, Utet, Torino 1971; Opere Filosofiche, a cura di G. Federici Vescovini, Utet, Torino 1972; Scritti filosofici, a cura di G. Santinello, 2 voll., Zanichelli, Bologna 1965-1980; La dotta ignoranza - Le congetture, a cura di G. Santinello, Rusconi, Milano 1988; Il Dio nascosto, a cura di L. Mannarino, Laterza, Roma-Bari 1995; La caccia della sapienza, a cura di G. Federici Vescovini, Piemme, Casale Monferrato 1998; La visione di Dio, a cura di G. Santinello, Mondadori, Milano 1998. Le cit. italiane ed i nn. di pag. nel testo della voce si riferiscono alle edizioni delle Opere pubblicate da Utet, Torino 1971-1972.
Opere sul pensiero di Nicola Cusano: E. Vasteenberghe, Le “De ignota literatura” de Jean Wenck de Herrenberg contre Nicolas de Cues, in “Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters” (Aschendorff, Münster) 7 (1910); P. Rotta, Il cardinal Nicolò Cusano: la vita e il pensiero, Milano 1928; E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, Firenze 1935; R. Reutz, Medizinisch-Physikalisches Denken bei Nikolaus von Cues, Heidelberg 1939; E. Hoffmann, Das Universum des Nikolaus von Kues, Heidelberg 1939; M. De Gandillac, La philosophie de Nicolas de Cues, Paris 1942; R. Klibansky, Copernic et Nicola de Cues, in “Léonard de Vinci et l’expérience scientifique au XVIe siècle”, Paris 1953, pp. 225-235; G. Saitta, Il pensiero italiano nell’umanesimo e nel rinascimento, Sansoni, Firenze 1960; Nicolò da Cusa. Convegno Interuniversitario di Bressanone, Sansoni, Firenze 1962; H. Krchnak, Die Herkunft der astronomishen Handschriften und Instrumentate des Nikolaus von Kues, “Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft” 3 (1963), pp. 109-180; C. Vasoli, Cusano e Galileo, Cedam, Padova 1964; F. Battaglia, Metafisica, religione e politica nel pensiero di Nicolò da Cusa, Patron, Bologna 1965; J.E. Hofmann, Mutmassungen über das früheste mathematische Wissen des Nikolaus von Kues, “Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft” 5 (1965), pp. 98-136; Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno, Sansoni, Firenze 1970; A.C. Crombie, Da s. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal V al XVII secolo, Feltrinelli, Milano 1970; L. Muraro Vaiani, Congettura e precisione matematica in Nicolò Cusano, “Rivista di filosofia neoscolastica” 62 (1970), pp. 163-172; J.E. Hofmann, Cusa Nicholas, in DSB, vol. III, 1972, pp. 512-516; A. Bonetti, La ricerca metafisica nel pensiero di Nicolò Cusano, Paideia, Brescia 1973; K. Jaspers, I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, pp. 845-1036; E. Vansteenberghe, Le cardinal Nicolas de Cues. L’action, la pensée (1920), Slatkine, Geneve 1974; J. Hirschberger, Das Prinzip der Inkommensurabilität bei Nicolaus von Kues, “Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft” 11 (1975), pp. 39-61; F.J. Kuntz, Medizinisches bei Nikolaus von Kues, “Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft” 12 (1977), pp. 127-136; E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Einaudi, Torino 1978, vol. I, pp. 39-96; J. Hopkins, A Concise Introduction to the Philosophy of Nicholas of Cusa, Univ. of Minnesota Press, Minneapolis 1980; J. Hopkins, Nicholas von Cusa’s metaphysics of Contraction, The A.J. Banning Press, Minneapolis 1983; C. Riccati, “Processio” et “explicatio”. La doctrine e la création chez Jean Scot et Nicolas de Cues, Bibliopolis, Napoli 1983; W. Schulze, Harmonik und Theologie bei Nikolaus Cusanus, Braumüller, Wien 1983; G. Santinello, Introduzione a Nicolò Cusano, Laterza, Roma-Bari 1987; G. Christianson, T.M. Izbicki (a cura di), Nicholas of Cusa in Search of God and Wisdom, Brill, Leiden 1991; G. Piaia (a cura di) Concordia discors. Studi su Niccolò Cusano e l’umanesimo europeo, Antenore, Padova 1993; K.-H. Volkmann-Schluck, Nicolò Cusano. La filosofia nel trapasso dal Medioevo all'Età moderna, Morcelliana Brescia 1993; G. Federici Vescovini, Il pensiero di Nicola Cusano, Utet Libreria, Torino 1998; L. De Bernart, Cusano e i matematici, Scuola Normale Superiore, Pisa 1999; M. Moschini, Cusano nel tempo. Letture e interpretazioni, Armando, Roma 2000.