Maxwell, James C. (1831 - 1879)

Anno di redazione
2002

I. Le ricchezze insondabili della creazione - II. Dalla natura al Dio della natura - III. Pensiero fisico e visione matematica - IV. La funzione regolatrice della fede cristiana - V. La natura contingente dell'universo - VI. L'ordine caratteristico degli eventi contingenti - VII. Analogie tra le leggi della natura e le leggi della mente - VIII. Realismo e teoria dei campi - IX. Interpretazione dinamica e relazionale della natura - X. Nuovi concetti di spazio e tempo.

James Clerk Maxwell era nato ad Edimburgo il 13 giugno 1831. Aveva iniziato la sua formazione scientifica con l'iscrizione all’Università di Edimburgo nel 1847 e con il successivo passaggio a quella Cambridge nel 1850. Quattro anni dopo concludeva gli studi universitari e cominciava la sua carriera accademica con la nomina l’anno successivo a fellow del Trinity College di Cambridge. Dal 1856 insegna Filosofia naturale al Marischal College di Aberdeen. Dal 1860 al 1865 insegna Astronomia e Filosofia naturale al King’s College di Londra. Ne seguirà un periodo di vita privata e di ritiro dall’insegnamento, che si interromperà nel 1871, quando accetterà la cattedra di Fisica sperimentale all’Università di Cambridge, alla quale era associata la direzione del Cavendish Laboratory. Numerose saranno le sue pubblicazioni, sia scientifiche che non, a cominciare suo primo trattato di elettricità, On Faraday's lines of force, che egli scriverà all’età di 24 anni. Dedicatosi inizialmente alla teoria dei colori, a problemi di dinamica e quindi alla termodinamica, legherà il suo nome soprattutto alle note equazioni differenziali che descrivono il campo elettromagnetico, formulate nel 1866. Uomo di ampi interessi filosofici e di profonda fede religiosa, morì a soli 48 anni, nel 1879 a Cambridge, dopo una grave malattia.

Come Michael Faraday (1791-1867), con cui ebbe una profonda affinità, James Maxwell fu un cristiano convinto, molto devoto ed umile, della tradizione riformata. È significativo che nel suo articolo su Faraday scritto per l’Enciclopedia Britannica,  Maxwell tenne a riferirsi a quell’aspetto della figura del suo collega scienziato rappresentato dalla sua pubblica professione di fede e alle sue opinioni riguardo la relazione tra la scienza e la religione. Ciò che  Maxwell racconta di Faraday in quell’articolo è molto illuminante. In una conferenza tenuta nel 1854 alla Royal Institution, Faraday si sentì costretto a concludere con la nota, più personale, della sua fede in Dio e nella vita futura. Dopo aver sostenuto «una distinzione assoluta tra la vita religiosa e la sua credenza ordinaria», egli dichiarò: «Eppure anche nelle questioni terrene io credo che “le cose invisibili di Lui si vedono chiaramente nella creazione del mondo, perché per mezzo delle cose che Egli ha fatto si comprendono anche la sua potenza eterna e la sua divinità” (cfr. Rm 1,20); e non ho mai visto nulla di incompatibile tra le cose dell’uomo che si possono conoscere mediante lo spirito dell’uomo che è nell’uomo e la cose più alte riguardanti il suo futuro, che egli non può conoscere mediante quello spirito». Poi Faraday aggiungeva una nota per dire che «queste osservazioni [...] sono così immediatamente connesse nella loro natura e origine con la mia vita di sperimentatore, che ho ritenuto che la conclusione di questo volume — egli si riferiva alla sua opera Experimental Research in Chemistry and Physics (1859) — non sia un luogo poco adatto per riprodurle».

  

I. Le ricchezze insondabili della creazione

Faraday era evidentemente conscio del fatto che la sua fede cristiana e la sua scienza sperimentale si influenzavano l’una con l’altra, ma l’interconnessione era più profonda di quanto egli potesse esprimere chiaramente. Egli non poteva mettere da parte il fatto che le caratteristiche fondamentali della natura che si sforzava di portare alla luce avevano a che fare con il modo con cui erano state create da Dio, cosicché l’interrogare esigente delle sue indagini scientifiche non si poteva separare dall’insistente prolungarsi della sua fede verso il Creatore, che si manifestava a noi attraverso la sua Parola rivelata. A causa di questo suo devoto impegno verso Dio egli rimase dominato da un profondo senso dell’integrità e dell’ordine della natura, che stava alla base delle sue ricerche sperimentali e che gli dava fiducia nel cercare la teoria giusta, nel condurre la ricerca e nel rendere conto dei suoi risultati. Nello stesso tempo è alla profonda sincerità e umiltà della sua fede cristiana che bisogna ricondurre la sua apertura all’autocritica di fronte ai diversi punti di vista e la sua determinazione a mettere tutte le teorie alla prova, in un tentativo senza pregiudizi di raggiungere la verità. Come William Berkson ha detto di Faraday, «egli sentiva che era una forma di superbia credere nelle proprie teorie su tutte le altre e perciò pensava che l’umiltà cristiana richiedeva una mancanza di pregiudizi» (Berkson, 1974, p. 56). Non è sorprendente pertanto che il successo notevole che incontrò la ricerca sperimentale di Faraday, specialmente la scoperta delle induzioni delle correnti elettriche, che lo sorprese e dominò il suo pensiero quando portò alla luce aspetti piuttosto fondamentali dell’universo creato, ebbe l’effetto di rinforzare le sue convinzioni cristiane e il suo rifiuto di ogni incompatibilità tra l’umile fede e lo spirito scientifico.

Proprio perché condivideva con Faraday le stesse concezioni fondamentali e gli stessi impulsi essenziali che nascevano dal loro tipo di impegno verso Dio quale si è rivelato in Gesù Cristo, James Maxwell si appellò costantemente in tutta la sua carriera di fisico teorico e di sperimentatore al lavoro pioneristico di Michael Faraday e all’umile tenacia con cui egli aveva avvicinato i suoi problemi. Lungi dal limitare l’indipendenza della sua mente e il rigore del suo pensiero scientifico, le convinzioni evangeliche profondamente radicate di Maxwell, che corrispondevano a un modo di vita cristiano, alimentarono le sue indagini scientifiche e lo spinsero ad aprire nuove strade in una ricerca non inibita, ma riverente, dei segreti della natura. In vista di ciò che egli chiamava «le ricchezze insondabili della creazione», Maxwell aveva poco da farsene del semplice empirismo o del ristretto professionismo scientifico ossessionato da misure effettuate in un laboratorio di fisica. Un approccio di quel genere non lo riteneva soddisfacente. Perciò, nella sua Lezione introduttiva sulla fisica sperimentale a Cambridge, ebbe cura di sottolineare il fatto che la scienza ci appare sotto una luce molto diversa quando scopriamo la sua relazione con la nostra vita ordinaria e con il nostro agire nel mondo. «L’abitudine di riconoscere i princìpi nella varietà infinita delle loro azioni non può mai degradare il nostro senso della sublimità della natura o offuscare il nostro godimento della bellezza. Al contrario, tende a riscattare le nostre idee scientifiche da quella condizione vaga in cui troppo spesso le lasciamo, sepolte tra gli altri prodotti di una pigra incredulità, e le eleva alla loro giusta posizione tra le dottrine in cui la nostra fede è così sicura che siamo pronti in ogni istante ad agire in base ad esse» (The Scientific Papers of J.C. Maxwell, 1890, vol. II, p. 243). Per James Maxwell la comprensione scientifica dell’universo e la fede in Dio erano profondamente integrate.

Sotto la vetrata eretta a memoria di James Clerk Maxwell a Corsock Kirk nel Kirkcudbrightshire si può leggere la seguente iscrizione: «Questa vetrata fu eretta dagli ammiratori di un genio che scoperse le affinità tra l’elettricità e la luce e fu condotto dal mistero della natura ad una maggiore conoscenza di Dio». Ciò riflette il verdetto dei suoi contemporanei e dei suoi successori che, per lo meno in Gran Bretagna, furono in certa misura consci dell’importanza della scienza di  Maxwell per la sua fede, anche se forse talvolta ne sorrisero come un’eccentricità. Pochi di loro, tuttavia, si resero conto dell’influenza delle sue credenze cristiane sulla sua scienza fisica, perché, a differenza di lui, avevano poco interesse per i fondamenti metafisici della scienza, e non erano in condizione di apprezzare il profondo cambiamento della struttura filosofica e teorica della conoscenza scientifica a cui i “modi di pensiero” di  Maxwell stavano dando inizio. Senza alcun dubbio uno degli aspetti che fanno sì che  James Maxwell si elevi per noi al di sopra degli scienziati del diciannovesimo secolo fu la sua insolita sensibilità per “idee fondamentali”, che egli doveva all’impatto della teologia e filosofia realistiche scozzesi sui suoi anni formativi ad Edimburgo, e la sua ardente convinzione che il progresso della scienza si può arrestare solo se gli scienziati stessi soccombono a una sorta di “inerzia mentale” (un’espressione che aveva ripreso da Michael Faraday) di fronte alle nuove rivelazioni della natura. Per questi punti decisivi James Maxwell faceva ricorso a risorse religiose e teologiche che non gli venivano mai meno.

Ci sono ancora persone che guardano con sospetto il suggerimento che la fede di un Newton o di un  Maxwell possa ben aver avuto influenza sui punti fondamentali della formazione delle loro teorie scientifiche. Eppure, la storia del pensiero occidentale mostra che in realtà lo sviluppo della scienza naturale non si può separare da idee fondamentali che derivano dalla tradizione giudeo-cristiana. C’è un’interazione più profonda tra la teologia e la scienza di quanto ci si renda conto di solito. È evidente, se non altro dal lungo predominio della teologia e della metafisica agostiniane, che è stata data un’inclinazione precisa a tutta la cultura occidentale, inclusa la sua scienza, e in misura non trascurabile per quanto riguarda la sua sottostruttura epistemologica dualista. Si deve aver chiaro, tuttavia, che lo sviluppo della teologia cristiana ha avuto sia effetti benefici che dannosi sulla nascita e sul progresso della scienza empirica e teoretica. Attraverso la teologia patristica greca, per esempio, nozioni radicalizzate di contingenza e di ordine contingente furono iniettate nei fondamenti della nostra comprensione dell’universo creato, e questi finirono per dar luogo ad una scienza empirica in una forma sconosciuta e praticamente impossibile nel quadro del pensiero antico orientale. Val la pena di ricordare anche i punti di vista dinamico e relazionale sullo spazio e sul tempo, che derivano dalla stessa fonte e hanno finito per acquistare un’enorme importanza nella fisica e nella cosmologia moderne. D’altra parte, attraverso la dottrina medioevale di Dio come motore immobile fu iniettato un modo di pensare dannoso nella stessa base della scienza occidentale. Idee platoniche combinate con forme aristoteliche — per non ricordare ingredienti significativi provenienti della filosofia musulmana tramite Avicenna e Alfarabi — furono innestate sui concetti patristici dell’impassibilità e dell’immutabilità di Dio, conducendo a quell’idea di una reazione inerziale tra Dio e l’universo che fu poi incorporata nel tessuto della scienza moderna per opera di Isaac Newton (1642-1727). Fu questo concetto di inerzia che fornì la base per lo sviluppo dell’universo meccanicistico da cui siamo faticosamente cercando di emancipare la nostra scienza e la nostra cultura.

  

II. Dalla natura al Dio della natura

Questo ci riporta al lavoro di pioniere di James Clerk Maxwell, perché in virtù del suo modo di pensare nuovo e fortemente indipendente, sotto l’influenza della sua fede cristiana, fu aperta una breccia nella rigida struttura meccanicistica della scienza newtoniana, che diede avvio a quel cambiamento irrevocabile che è oggi in corso nella nostra concezione dell’universo. Ciò che egli realizzò rimane altamente istruttivo per una comprensione della sottile interrelazione tra la fede cristiana e la scienza fisica.

Per apprezzare appieno lo speciale orientamento di James Maxwell ci può aiutare il ricordare ciò che i suoi biografi ci dicono a proposito della prima parte della sua vita a Glenlair nel Kirkcudbrightshire. Era una bella proprietà di famiglia nel sud ovest della Scozia, ove il giovane James Maxwell godeva delle glorie della natura ed era incoraggiato da sua madre a «guardare attraverso la natura al Dio della natura» (Campbell e Garnett, 1882, p. 32). Là egli raggiunse uno stretto rapporto con le ricchezze della creazione in tutta la loro varietà fisica e organica, mentre le sua inclinazione mentale verso l’esperimento e l’indagine ricevettero spazio libero ed ampio per uno sviluppo spontaneo. Ci dicono che era già affascinato dal comportamento degli effetti della luce e dalle continuità misteriose che si notavano nelle manifestazioni della natura, ed era deciso a comprendere i segreti dei processi naturali.

Intessuta con tutto questo e sovrastante a tutto questo, in ogni caso, c’era una fede evangelica in Dio sempre più profonda, che il nostro aveva ricevuto dai genitori, in cui erano combinate la semplicità del bambino e un interrogare incessante ma senza scetticismo. Questo era un tratto che egli avrebbe avuto per tutta la sua carriera scientifica, quando avrebbe dichiarato che credeva con i pastori di Westminster e i loro predecessori ad infinitum che «lo scopo principale dell’uomo è glorificare Iddio e goderlo per sempre» (ibidem, p. 158).

Il punto principale da notarsi qui, tuttavia, è la sua acquisizione di un’intuizione profonda della relazione di Dio con il mondo che ha creato e tiene costantemente in essere, e la relazione della natura in tutta la sua armonia e complessità con il genere di Creatore che egli conosceva attraverso Gesù Cristo. Nei suoi anni a Glenlair, quando il suo apprezzamento della natura e la sua adorazione di Dio stavano spontaneamente insieme, egli sviluppò un modo di pensare in cui il pratico e il teorico erano inseparabilmente legati. Come avrebbe detto più tardi in quella lezione inaugurale a Cambridge a cui ci siamo già riferiti, gettare un ponte così tra l’astratto e il concreto non è soltanto un semplice momento della conoscenza, ma è acquistare il «rudimento di un patrimonio permanente». È così che ogni nuova rivelazione della natura risveglia le forze del nostro pensiero e nascono nuove idee. Come avrebbe argomentato in una recensione degli Elementi di filosofia naturale di W. Thomson e P.G. Tait (1873), ogni scienza deve avere le sue «idee fondamentali», o «modi di pensiero con i quali il processo della nostra mente è portato a un’armonia completa con il processo della natura» (The Scientific Papers of J.C. Maxwell, 1890, vol. II, p. 325). Avremo occasione di riprendere questo punto a proposito del modo caratteristico in cui James Maxwell metteva il matematico in relazione al fisico nell’indagine e nella teoria scientifica, ma è importante notare fin d’ora che questa nuova mathesis in virtù della quale si possono sviluppare nuove idee era nata dalla sua primitiva esperienza di Glenlair, ove egli aveva cominciato a scoprire che, sotto il governo di Dio, la mente umana e il mondo che Egli ha creato erano correlati in modo fondamentale l’uno con l’altra. Questa era la fonte della determinazione di tutta la sua vita di arrivare alla “verità naturale”, in quanto distinta da tutte le idee e da tutti i sistemi di pensiero “artificiali”.

  

III. Pensiero fisico e visione matematica

Questo modo di pensare, che si era formato a Glenlair come sviluppo naturale della struttura e del modo di funzionare interno della sua mente, vide il suo ulteriore sviluppo quando James Maxwell si tuffò a capofitto nell’istruzione secondaria all’Accademia di Edimburgo, e poi passò a studiare fisica e metafisica all’Università di Edimburgo, ove il suo modo di vedere indipendente e speciale lo rendeva un po’ fuori posto, ma ove il clima teologico ed epistemologico servì a fondere ulteriormente insieme il suo “realismo naturale” e la sua “tendenza mistica”. L'effetto di queste vicende si rivelò in modo sorprendente in diversi articoli letti alla Royal Society di Edimburgo, in cui “il pensiero fisico” e “la visione matematica” furono portati insieme in un modo insolitamente fertile, che governò tutto il suo lavoro scientifico anche in seguito. Quando dopo diversi anni lasciò Edimburgo per uno studio più avanzato di matematica a Cambridge, cominciò subito, prima come studente e poi come istitutore, a insistere su un tipo di indagine scientifica in cui i fattori fisico e matematico, empirico e teorico, risultassero naturalmente inerenti l'uno all'altro; se si vuol veramente restare fedeli alla natura, l'attività sperimentale e teorica si deve portare avanti alla luce della totalità che esse costituiscono. Quando, anni più tardi, fu nominato primo professore di Fisica sperimentale a Cambridge, egli si dedicò a incorporare quel modo di pensare nella fisica e nella matematica di Cambridge, così da dare a quell’Università un orientamento caratteristico nella scienza naturale al quale tutto il mondo scientifico sarà successivamente debitore.

Prima di chiederci come, più precisamente, la fede cristiana di James Maxwell influenzò la sua attività scientifica, occorre notare che egli stesso considerava i convincimenti teologici derivanti dal messaggio cristiano «validi e convincenti quanto le verità scientifiche per il fatto che sono più chiari anche se meno distinti» (Campbell e Garnett, 1882, p. 294). Sembra che egli non abbia mai avuto dubbi riguardo alla realtà della rivelazione che Dio aveva fatto di se stesso in Gesù Cristo suo Figlio incarnato, o alla piena sufficienza dell'espiazione della Redenzione che fluisce dall'amore di Dio, Autore della salvezza. Mentre insisteva nel sottoporre ogni convinzione e ogni affermazione teologica al controllo più severo, il terreno fermo della sua convinzione religiosa stava nell'amore di Dio, che rimane anche quando tutta la conoscenza svanisce. Egli si sforzava di vivere una vita quotidiana diretta e formata da quell'amore attraverso ciò che egli indicava spesso come «unione con Cristo». Ma era impossibile che James Maxwell segregasse questa fede nelle grandi verità del Vangelo dal rigoroso interrogare e dalle operazioni chiarificanti dell'indagine scientifica o della riflessione filosofica. Tutte le sue convinzioni e i suoi pensieri erano di un solo pezzo. Egli considerava come principale valore filosofico della fisica il fatto che essa dava alla mente qualcosa di specifico su cui far presa, perché, se ciò non accade, la natura subito ci dice che ci sbagliamo. Perciò pensava che la fisica aprisse la strada a «tutte le verità sia scientifica, sia metafisica, mentale e sociale», e allo studio della domanda: «come nasce la conoscenza?» (cfr. Campbell e Garnett, 1882, p. 305) Questo non equivaleva a dire che tutta la conoscenza si deve in fin dei conti ridurre alla fisica, e tutte le scienze si devono ridurre a “scienze materiali”, ma piuttosto che la fisica cerca di portare alla luce le leggi della creazione fisica ed è perciò interessata a stabilire la struttura generale entro cui tutta la conoscenza umana, inclusa la teologia, viene perseguita e portata a una formulazione accurata. Tuttavia la tesi di James Maxwell andava più in là: dato che l'universo creato da Dio è essenzialmente uno, ci sono delle affinità fondamentali fra tutte le sue leggi e vi sono analogie tra la costituzione dell'intelletto umano e quella del mondo esterno, cosicché, pur non potendo esser mediatrice per noi della conoscenza di altre verità, la fisica, può ben fornirci analogie reali che possiamo usare per dare nuova chiarezza e precisione a conoscenze che raggiungiamo su altre basi, come nella teologia cristiana. Per esempio, si può riconoscere che l'insegnamento di Gesù secondo cui la conoscenza della verità conduce alla libertà (cfr. Gv 8,32) vale, se inteso in modo opportuno, anche nel campo fisico, dove le nostre menti trovano qualcosa di specifico su cui far presa.

La fisica ci dice che tutto ciò che vediamo, compresi i nostri corpi, è soggetto a  leggi naturali che non possono cambiare, cosicché se vogliamo far qualcosa dobbiamo agire secondo quelle leggi o fallire — e questo è il motivo per cui la fisica studia quelle leggi. Anziché essere consciamente o volutamente liberi quando siamo in realtà soggetti a leggi sconosciute, noi cerchiamo di agire consciamente secondo le leggi, e siamo allora liberi dall'interferenza di leggi non riconosciute. Non diversamente in teologia, ove l’obbedienza alla verità ci rende liberi, o nella Chiesa, ove la legittimità, l'agire secondo la legge e la libertà sono mutuamente legate. Così, mentre le convinzioni e le verità teologiche hanno la loro propria certezza e validità, che riposano su fondamenti più profondi di quelli delle verità e delle leggi della scienza (giacché queste ultime hanno a che fare con il calcolo delle probabilità), esse tuttavia si possono talvolta porre in una formulazione meglio afferrabile con l'uso di analogie reali scoperte nella natura. In tale processo, invece di essere nascoste da uno schermo, esse sono sottoposte a un chiarimento critico in relazione alla verità presente ovunque nella creazione di Dio, il che ha il doppio effetto di mostrare se sono o no obiettivamente fondate nella realtà e di mettere in luce la loro importanza per altre sfere della conoscenza. Il rifiuto di James Maxwell di accettare qualunque separazione fra credenze cristiane e credenze scientifiche era interamente coerente con la sua completa libertà da qualsiasi tipo di dualismo mentale. Tipica fu la sua risposta (di cui ci è rimasta la bozza) a un invito a far parte del Victoria Institute del 1875: «Penso che gli uomini di scienza, così come gli altri uomini, abbiano bisogno di imparare da Cristo, e penso che i cristiani che hanno una forma mentis scientifica siano tenuti a studiare la scienza in modo che la loro visione della gloria di Dio possa essere tanto ampia quanto è possibile per le. capacità del loro essere». È da questa prospettiva che dobbiamo ora cercare di precisare i modi in cui la fede cristiana di James Maxwell influì sulla sua scienza fisica.

  

IV. La funzione regolatrice della fede cristiana

La fede cristiana di James Maxwell, profondamente radicata nella sua mente, esercitava una “funzione regolatrice” nella scelta e nella formazione dei suoi principali concetti scientifici. Non è che egli facesse entrare idee teologiche specificamente o direttamente nelle sue teorie scientifiche, ma la modalità essenziale del suo pensiero, formata attraverso un’apprensione intuitiva della relazione di Dio con la sua creazione, gli forniva un “punto fiduciale o standard di riferimento” per un giudizio discriminativo, per esempio, riguardo al determinismo, di cui si parlerà più avanti.

L'inclinazione cristiana della sua visione unificata aveva qui una doppia influenza. Da una parte, dirigendolo verso un fine esterno a se stesso, lo liberava dalla propria soggettività e gli dava l’obiettività reale di cui aveva bisogno per un'attività scientifica critica. Poiché il cristianesimo sostiene che nulla deve restare nascosto e nessun luogo deve essere immune da scrutinio, il suo impegno cristiano lo portò a darsi come regola quella di «non lasciare nulla di volontariamente inesplorato. Nulla deve essere terreno sacro consacrato a una fede statica positiva o negativa che sia... Ora, io sono convinto che nessuno che non sia un cristiano possa effettivamente liberare il suo terreno da questi punti sacri» (Campbell e Garnett, 1882, p. 178). Dall'altra parte, la fede cristiana gli forniva verità di cui la scienza stessa non poteva rendere conto ma che essa poteva usare come premesse per le sue operazioni deduttive. Così egli s'imbevve di ciò che chiamava «idee radicali» oppure «concezioni fondamentali», che lo guidavano nel duro lavoro di sposare il pensiero al fatto e di elaborare «idee appropriate» (espressione di Whewell), cioè quel che James Maxwell stesso chiamava «modi di pensiero» scientifici o «verità fisiche» corrispondenti ai processi propri della natura quali essa ce li rivela. Fu dunque appellandosi continuamente alla forza regolatrice dei punti di riferimento della fede che James Maxwell si trovava costantemente a giudicare se le teorie scientifiche proprie o altrui erano in fin dei conti «capaci di funzionare» o «sostenibili», e se erano dirette verso modi più adeguati e realisti di comprendere e descrivere i fenomeni del mondo fisico.

  

V. La natura contingente dell'universo

La teologia cristiana e la filosofia realista si combinarono per divenire parte integrante delle idee fondamentali di James Maxwell — fra le quali ricopre un posto importante il principio della natura contingente dell'universo — e ciò ebbe un effetto radicale per la sua revisione della prospettiva newtoniana, del determinismo o del “necessarismo” cui esso dava origine. Che la natura sia essenzialmente contingente e non necessaria nelle sue relazioni proprie, e che le verità scientifiche stesse siano perciò di carattere contingente e non necessario, era diventato uno dei punti di partenza fissi della filosofia realista scozzese e del modo in cui essa rendeva conto della filosofia naturale o della fisica; e quel punto di vista era non poco debitore all'influenza della teologia riformata sulle università scozzesi. A governare il punto di vista personale di James Maxwell era la dottrina, accettata senza riserve, che il mondo è stato creato da Dio dal nulla. Ciò implicava che i costituenti atomici e molecolari della natura, le pietre portanti dell'universo materiale, sono stati “fatti” e non sono eterni né esistenti per sé. Perciò, anche se la scienza può avere molto da dirci sulle relazioni interne di atomi e molecole, queste dobbiamo capirle secondo le analogie degli “articoli manufatti”. La scienza naturale, insomma, deve fare i conti con il fatto che ci sono “singolarità”, o fattori iniziali, nei suoi assiomi fondamentali, di cui essa non può render conto scientificamente; e deve anche fare i conti con il fatto che, quando porta questi assiomi a foggiare la conoscenza degli eventi contingenti ottenuta con le osservazioni e gli esperimenti, non può trascurare l'inclusione, nella formulazione di queste leggi, di nuovi elementi che si devono poi ricondurre a un livello più alto. Ciò vuoi dire che ci sono dei limiti al di là dei quali l'attività scientifica non può penetrare, e che questi devono essere francamente riconosciuti. Questo fu un punto che James Maxwell ebbe cura di formulare esplicitamente nella sua lezione nel 1873 alla British Association:

«Siamo giunti così, per una via strettamente scientifica, molto vicini al punto in cui la Scienza si deve fermare — non che alla Scienza sia vietato studiare il meccanismo interno di una molecola che essa non può decomporre in pezzi, o studiare un organismo che essa non può mettere insieme. Ma nel risalire lungo la storia della materia, la Scienza si deve fermare quando si convince da un lato che la molecola è stata fatta e dall'altro che essa non è stata fatta mediante alcuno dei processi che chiamiamo naturali. La Scienza è incompetente a ragionare sulla creazione della materia dal nulla. Abbiamo raggiunto i limiti estremi delle nostre capacità di pensiero quando abbiamo ammesso che in quanto la materia non può essere eterna e esistente di per sé essa deve essere stata creata. È solo quando contempliamo non la materia in sé, ma la forma in cui essa effettivamente esiste, che la nostra mente trova qualcosa su cui far presa. Che la materia come tale debba avere certe proprietà fondamentali — che debba esistere nello spazio e debba esser capace di movimento, che il suo movimento debba esser persistente e così via — sono verità che per quanto ne sappiamo possono essere del genere che i metafisici chiamano necessarie. Possiamo usare la nostra conoscenza di tali verità per scopi di deduzione, ma non abbiamo dati per la speculazione riguardo alla loro origine» (The Scientific Papers of J.C. Maxwell, 1890, vol. II, pp. 375ss).

  

VI. L'ordine caratteristico degli eventi contingenti

James Maxwell era inoltre convinto che gli eventi contingenti hanno un ordine caratteristico che non va confuso con la necessità o col determinismo anche se, per poter cogliere e formulare il tipo di leggi che governa l'ordine contingente, dobbiamo usare quel genere di relazioni necessarie che offre la matematica. Gli eventi o le singolarità contingenti che troviamo in natura non vanno trattati come eventi casuali o stocastici, perché la natura ci si manifesta non come una “rivista” da sfogliare ma come un “libro” con pagine “regolarmente disposte”. Se la natura non fosse un libro ma solo una rivista, una parte di essa non potrebbe gettar luce su un'altra. Ma non è così. Gli eventi contingenti e i processi dinamici nella natura manifestano in tutti i loro vari campi configurazioni continue, interdipendenza e reali analogie, che mostrano che l'universo è ovunque dotato di un ordine razionale, il quale, anche se di natura contingente, è tuttavia accessibile alla formulazione in termini di leggi fisiche. Come render conto della coordinazione di connessioni necessarie, di catene di cause fisiche e di operazioni contingenti in leggi di questo tipo?

La risposta di James Maxwell faceva appello ad una forma modificata del concetto di «causa finale». Egli fece notare che, mentre l'operare delle leggi fisiche è evidentemente inflessibile, una volta in azione esso dipende nel suo principio da un atto di volontà divina, e non è perciò caratterizzato da una necessità “assoluta”. Questo lo possiamo vedere mediante un’analogia con i nostri atti di volontà, che iniziano da una serie di eventi che produce conseguenze necessarie. Per quanto riguarda le ricerche scientifiche, tuttavia, quando due catene di cause fisiche risultano «connesse in modo contingente» per lo stesso risultato, esse danno una vera prova di un progetto; ma in questo caso «la prova del progetto deve essere trasferita dal fatto assoluto all'esistenza della catena» (cfr. Campbell e Garnett, 1882, p. 225). Pertanto si deve riconoscere che il fondamento contingente ultimo della legge fisica, presente nella libera attività e nella mente del Creatore, determini la nostra comprensione dell'operare delle leggi fisiche attraverso tutte le loro catene causali. È per questo che in nostro Autore affermava: «La dottrina delle cause finali, benché produttiva di sterilità nella sua forma esclusiva, è certamente stata di grande aiuto a coloro che hanno studiato la natura; e se ci limitiamo a sostenere l'esistenza dell'analogia, e permettiamo all'osservazione di determinare la sua forma, non possiamo esser condotti lontano dalla verità» (ibidem, p. 243).

Occorre qui fare due considerazioni significative. In primo luogo James Maxwell insiste che le connessioni causali si devono vedere a due diversi livelli: un livello più basso in cui operano “centri subordinati di causazione”, e un livello più alto in cui abbiamo a che fare con le operazioni di una “causa centrale”, la prima trattata come caso limite del secondo. Nel suo studio delle catene causali e della determinazione delle loro leggi, che è compito dello scienziato, questi deve mettere a fuoco “la lente della teoria” e regolarla talvolta a un certo grado di definizione, talvolta a un altro, così da vedere alle diverse profondità; diversamente, tutto si confonde vagamente insieme. Così un'opportuna regolazione del “telescopio della teoria” consente di vedere al di là della messa a fuoco subordinata degli atti fisici e delle loro conseguenze immediate, fino alla messa a fuoco della causa centrale, che interessa l'atto originale che sta dietro a tutte le connessioni causali subordinate. In secondo luogo, questa causa centrale in riferimento alla quale le cause secondarie si devono comprendere, non è trattata da James Maxwell come centro inerziale, qual era il motore immobile nel concetto medioevale di causa finale o il riferimento assoluto del sistema newtoniano, ma secondo l'analogia di un centro “morale” di attività. Per lui, come abbiamo già visto, questa causa centrale o fuoco di riferimento era vista alla luce della natura dinamica del Dio vivente, rivelata nell'incarnazione di suo Figlio Gesù Cristo.

Fu dunque un modo tipicamente cristiano di intendere Dio Creatore quello che esercitò una forza regolatrice sui fondamenti della concezione della legge fisica di James Maxwell. In altre parole, la sua profonda riconoscenza dell'attività creativa divina operante nei processi della natura, gli faceva respingere il concetto “classico” di causa finale, che imponeva inevitabilmente un'uniformità artificiale o un'omogeneità causale ai fenomeni naturali, e perciò aveva l'effetto di cancellare le caratteristiche contingenti più essenziali attraverso cui la natura si rivela a noi. Lo scienziato deve dunque avere la massima cura nello sposare il pensiero al fatto, o la teoria all'osservazione, per non imporre preventivamente alla natura schemi di pensiero necessari, astratti, e anzi consentire che le intrinseche relazioni della natura determinino per lui le leggi del pensiero con cui comprendere il comportamento della natura stessa. Questo anticipa l'aspetto della scienza di James Maxwell che vogliamo adesso esaminare.

  

VII. Analogia tra le leggi della natura e le leggi della mente

Questo aspetto riguarda l'interdipendenza o convoluzione mutua dei fattori empirici e teorici della conoscenza scientifica dell'universo, o più specificamente ciò che James Maxwell chiamava «concetti fisici» o «matematica calata nel corporeo». Esso ha anche a che fare con il fatto basilare che c'è una misteriosa analogia tra «la costituzione dell'intelletto e quella del mondo esterno», e pertanto tra le leggi che governano i due ordini del pensiero e delle cose (cfr. Campbell e Garnett, 1882, p. 238). Questo fu il tema di diversi saggi che Maxwell lesse al “Club degli Apostoli” a Cambridge, da quello del 1856 intitolato Ci sono reali analogie nella natura? a quello del 1873 intitolato Tende il progresso della scienza fisica a dar vantaggio all'opinione della necessità (o determinismo) rispetto a quella della contingenza degli eventi e della libertà della volontà?, che lesse a un pubblico in cui erano presenti i famosi teologi anglicani Lightfoot, Hort e Westcott. In questo secondo saggio egli tentò di porre in relazione i modi statistico e dinamico di studiare la natura, cui la scienza ricorre rispettivamente per determinare le regolarità manifestate da gruppi di eventi ricorrenti o da aggregati di materia, per giungere così ad una corretta comprensione sia di eventi contingenti, nei quali ci sono singolarità non ricorrenti, sia dei campi continui di forze. Questi furono saggi di carattere più filosofico, ma nei suoi articoli e lavori strettamente scientifici, in cui la mente si dedicava a cogliere relazioni reali (fisiche) della natura, James Maxwell riteneva che l'essenza dell'argomento riguardasse l’interpretazione naturale delle caratteristiche matematiche e fisiche dell'universo, che richiedevano un metodo “conveniente”, “primitivo” o “naturale” in termini di “ragionamento dinamico e fisico”.

Prima di proseguire notiamo che James Maxwell riteneva che lo scienziato impegnato in questo compito, difficile ma delicato, di combinare l’ambito matematico e quello fisico nella sua comprensione della natura creata, riproducesse in certo modo lo schema dell'azione creativa di Dio, o perlomeno manifestava «i costituenti essenziali dell'immagine di Lui, che creò al principio non solo il cielo e la terra, ma i materiali di cui consistono il cielo e la terra» (The Scientific Papers of J.C. Maxwell, 1890, vol. II, p. 377). «Felice l'uomo — egli scrisse —che può riconoscere nel lavoro di oggi una parte non isolata del lavoro della vita, e una realizzazione del lavoro dell'Eternità. I fondamenti della sua fiducia sono immutabili, perché egli è stato fatto partecipe dell'Infinito. Egli lavora strenuamente per compiere le sue imprese quotidiane, perché il presente gli è dato in possesso. Così, l'uomo dovrebbe essere una personificazione del processo divino della natura, e portare alla luce l'unione dell'infinito con il finito, senza togliere valore alla sua esistenza temporale, anzi ricordando che solo in essa è possibile l'azione individuale, e tuttavia senza escludere dalla sua visione ciò che è eterno, sapendo che il tempo è un mistero di cui l'uomo non può sostenere la contemplazione se non lo illumina l'eterna Verità» (Campbell e Garnett, 1882, p. 200). Fu a partire da profonde convinzioni di questo genere che James Maxwell si trovò continuamente spinto ad essere il più fedele possibile alla struttura propria e alla configurazione dinamica del mondo, quali procedono dalla saggezza e potenza del Creatore. Era perciò deciso a seguire un cammino di pensiero scientifico che non permettesse di spezzare, al trattarle, l'integrazione naturale delle cose. Insieme alla naturale inclinazione, fu questo il segreto celato nella sua insistente richiesta di una «matematica calata nel corporeo».

Sin dai primi giorni all’università di Edimburgo, come ha giustamente fatto notare Richard Olson, James Maxwell fu profondamente interessato al modo in cui si realizzano materialmente gli schemi geometrici nelle relazioni fisiche della natura, nella sua forma statica e dinamica. Così, nel saggio sulle analogie reali della natura egli prese ad esempio le forme matematiche dei cristalli che «ci si imponevano di forza», e aggiungeva: «È perché abbiamo ciecamente escluso le lezioni di questi corpi singolari dal campo della conoscenza umana che siamo ancora in dubbio riguardo alla grande dottrina che le sole leggi della materia sono quelle che le nostre menti fabbricano e che le sole leggi della mente sono fabbricate per essa dalla materia» (Campbell e Garnett, 1882, p. 200). Schemi geometrici si ritrovano tuttavia non solo nelle strutture rigide come i cristalli, ma nelle relazioni dinamiche e nelle configurazioni che si riscontrano a tutti i livelli dell'essere e del moto nell'universo che la scienza deve cercar di tradurre per quanto possibile in espressioni matematiche opportune. Egli opera così un chiaro rifiuto del punto di vista dualista e positivista post-kantiano, che trovava fermamente radicato nella scienza molecolarista e determinista continentale, rappresentata per esempio da Pierre-Simon de Laplace (1749-1827). Egli metteva severamente in discussione l'interpretazione analitica della natura, atomistica e piuttosto artificiale, in termini di simboli matematici astratti, per quanto necessari, perché aveva l'effetto non solo di dissezionare la natura, ma di distorcere le relazioni dinamiche reali che sono di primaria importanza nel comportamento reale e nelle manifestazioni regolari della natura, soprattutto nel caso del campo elettromagnetico.

Fu tipica di James Maxwell, perciò, la decisione di non leggere matematica applicata all'elettricità prima di aver letto le Ricerche sperimentali di elettricità di Faraday, specialmente quando si rese conto della differenza che supponeva esserci tra il modo in cui Faraday concepiva i fenomeni e quello in cui lo concepivano i matematici. Per usare un'espressione di un amico di James Maxwell, C.J. Monro, egli si rifiutava di permettere alle equazioni matematiche «di menarlo per il naso », perché se non altro ciò gli avrebbe fatto correre il rischio di intrappolarlo nella «fallacia di un'interpretazione insufficiente» (ibidem, p. 378). Man mano che procedeva con lo studio di Faraday, egli si rendeva conto che il suo metodo di concepire i fenomeni era anch'esso matematico, benché non presentato nella forma convenzionale di simboli matematici. Faraday concepiva infatti tutto lo spazio come un campo di forze; e, nelle linee di forza che attraversavano lo spazio, egli vedeva mentalmente un mezzo, mentre i matematici vedevano solo azioni a distanza. Perciò cercò la sede dei fenomeni elettromagnetici nelle azioni reali che avvenivano nel mezzo, entro il quale le linee di forza appartenenti ai corpi erano in qualche senso parte di esse. Faraday si concentrò sulle relazioni e le verità fisiche, impegnandosi nel costante combinarsi di esperimento e teoria al fine di ragionare con ipotesi fisiche fedeli agli stato effettivo delle cose rivelato dalla ricerca sperimentale. Quando tradusse le idee di Faraday in forma matematica, egli stesso ci dice che trovò che «il metodo di Faraday somigliava a quelli in cui si comincia con l'intero e si arriva alle parti per analisi, mentre i metodi matematici ordinari erano fondati sul principio di cominciare dalle parti e costruire l'intero per sintesi» (cfr. A Treatise on Electricity and Magnetism, vol. I, parte IX). Ciò che si considerava in generale “il metodo naturale” era ben lontano dall'esserlo, mentre il metodo di Faraday era in effetti più primitivo e più naturale. Convinto che ci doveva essere un metodo matematico in cui noi procediamo dall'intero alle parti anziché dalle parti all'intero, James Maxwell costruì le sue «equazioni differenziali alle derivate parziali», oggi famose, che secondo lui appartenevano essenzialmente al metodo che chiamava di Faraday. Era questo un tipo di ragionamento matematico in correlazione ininterrotta con la configurazione mutevole di un campo di forza, cioè un ragionamento strettamente fisico, in quanto distinto dal calcolo. «Il mio scopo — spiegò in un altro contesto — è stato di presentare alla mente idee matematiche in forma materializzata, come sistemi di linee o superfici, e non come puri simboli, che non possono trasmettere le stesse idee, né adattarsi prontamente ai fenomeni da spiegare» (The Scientific Papers of J.C. Maxwell, 1890, vol. I, p. 187).

La relazione scientifica di James Maxwell con Michael Faraday si mostrò così assai feconda. Il modo di pensare fisico e tuttavia implicitamente matematico di Faraday in termini di gruppi olistici di relazioni continue, rinforzò grandemente le convinzioni del nostro Autore riguardo alla “matematica calata nel corporeo” e aumentò la sua insoddisfazione nei confronti di una matematica puramente analitica. Faraday gli fornì anche una matrice importante per il suo lavoro innovativo, che combinava un progresso euristico della mente con un cambiamento fondamentale nel modo di progredire nella conoscenza scientifica. Ciò significava che la verità delle proposizioni matematiche, cioè la loro integrazione con le proprietà intrinseche della materia e del movimento, ossia la loro verità fisica, doveva avere il primato sulla loro certezza, cioè sulla loro validità formale in sistemi simbolici tautologici che non hanno nessuna relazione propria con il mondo reale. Le verità matematiche di questo genere condividevano completamente con le verità della natura un carattere essenzialmente contingente che non può mai essere colto in modo definitivo o necessario. Questo comportava un cambiamento radicale della sottostruttura assiomatica ed epistemologica della scienza fisica, cambiamento che di fatto non fu apprezzato nel XIX secolo. Fu tuttavia un'illustrazione significativa dell'idea caratteristica di James Maxwell di una nuova mathesis, a cui abbiamo già accennato, e cioè un modo del tutto nuovo di ricavare una conoscenza in cui le nuove idee si formano e si sviluppano sotto la potenza dell'autorivelazione della natura, in armonia con il suo procedere dinamico nel quale la mente scientifica opera a tutti i livelli, con la mutua convoluzione degli elementi empirici e teoretici.

  

VIII. Realismo e teoria dei campi

Dobbiamo ora prendere in considerazione il concetto di «campo» di James Maxwell perché, insieme con le sue equazioni alle derivate parziali e le sue integrazioni su tutto lo spazio, esso rappresenta il passo più significativo nel progresso della scienza fisica da Newton ad Einstein. Ancora una volta dobbiamo ricondurre il suo pensiero ai suoi primi studi a Edimburgo e alle radici teologiche e filosofiche di molte delle sue idee, non ultimo il concetto di «pensiero relazionale», che egli trovò per esempio negli insegnamenti di Sir William Hamilton (1788-1856). Prove di questo sono evidenti nel citato saggio sull'analogia del 1856, in cui egli dimostrò che somiglianze e differenze analogiche sono incorporate negli schemi strutturali della natura in tutto l'universo. Le analogie sono sistemi di relazioni che si riferiscono le une alle altre e puntano al di là di se stesse e perciò ci forniscono indizi fondamentali per l'indagine euristica al di là dei limiti della conoscenza empirica e osservativa. Perciò, egli sosteneva che «da un punto di vista scientifico la relazione è la cosa più importante da conoscere» (Campbell e Garnett, 1882, p. 243). James Maxwell insisteva tuttavia sul fatto che le relazioni a cui si riferiva non erano soltanto immaginarie o putative ma “reali”, relazioni che appartengono alla realtà tanto quanto le cose, perché le interrelazioni delle cose sono almeno in parte costitutive di ciò che esse sono. Relazioni di questo genere, costitutivamente legate all'essere delle cose, si possono ben chiamare «ontorelazioni».

Abbiamo qui un elemento caratteristico della teologia scozzese riformata che risale allo sviluppo del concetto di persona dovuto a Duns Scoto (1265-1308), emerso nell’insegnamento trinitario di Riccardo di San Vittore (m. 1173), e poi passato, attraverso il Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo di Duns Scoto, a John Major (1470 ca.- 1550) a Parigi, poi a Calvino (1509-1564), per tornare infine in Scozia forse soprattutto attraverso il Syntagma theologiae cristianae di Amando Polano. Questo era un tipo di pensiero teologico che rifiutava la nozione analitica individualista di persona proposta da Severino Boezio (480 ca.-524) e da Tommaso d'Aquino (1224-1274), poi rafforzata e incorporata nella filosofia sociale occidentale dall'individualismo positivista di John Locke (1632-1704) e Auguste Comte (1798-1857), che pensavano alle persone piuttosto come ad individui separati, connessi attraverso le loro relazioni esterne un po' come particelle newtoniane. Nella tradizione teologica riformata si ritiene che il concetto di persona sia controllato dall'attività di Dio nell'Incarnazione, che costituisce e intensifica la persona, cosicché l'unione con Cristo diviene il fondamento delle relazioni interpersonali nella Chiesa. Le relazioni tra le persone hanno una forza ontologica e sono parte di ciò che le persone sono come tali — esse sono relazioni reali che costituiscono la persona. Questa era la teologia che stava alla base del concetto di unione con Cristo e di relazioni interpersonali in Cristo di James Maxwell, concetto che la sua forma mentis non gli consentiva di tenere separato dal suo modo d'intendere le relazioni reali, ontologiche, dell'universo fisico. Egli riteneva, come abbiamo già visto, che relazioni costitutive di questo genere valgono come parti all'interno di un tutto complesso. Esse non si possono conoscere mediante semplici considerazioni analitiche, ma solo mediante la contemplazione di un tutto unificatore e delle sue relazioni interne. Anche il fatto che noi numeriamo le cose in successione implica un precedente atto di intelligenza, nel quale estraiamo le cose dall'universo creato — «la natura sembra avere un certo orrore della partizione» aggiungeva. In altre parole, anche l'uso nelle unità matematiche per analizzare un insieme di eventi implica un’intuizione preanalitica del tutto. È sotto la guida e il controllo di una tale intuizione che possiamo afferrare qualcosa delle relazioni interne di una coerenza dinamica propria della natura senza uno smembramento distorcente di essa.

Fu con queste convinzioni fondamentali e con questo credo costitutivo che James Maxwell studiò le ricerche di Faraday sfociate nella scoperta dell'induzione elettromagnetica e della rotazione magnetica dei raggi luminosi, e che lo avevano condotto all'idea di «linee mobili di forza» come campo di forza dotato di un'esistenza indipendente, in contrasto abbastanza netto con il procedimento rigorosamente analitico della scienza newtoniana, basata su una considerazione “artificiale” di corpi che agiscono istantaneamente l'uno sull'altro, a distanza e in uno spazio-tempo uniforme e vuoto. Non è sorprendente che James Maxwell avesse una profonda affinità con questo approccio olistico non analitico e con i modi di pensiero che Faraday gli aveva apportato. Data la potenza creativa delle sue proprie idee, James Maxwell fu capace di offrire un'interpretazione matematica abbastanza caratteristica delle ipotesi fisiche di Faraday, interpretazione che andava molto al di là di ciò che avevano concepito la scienza o la matematica di allora, anche al di là dell'elogiativo sviluppo delle idee di Faraday da parte di William Thomson (Lord Kelvin, 1824-1907), e che sorprese non poco lo stesso Faraday. Scrivendo diversi anni più tardi sulle concezioni scientifiche di Faraday in relazione alle proprie, James Maxwell puntò il dito sull'essenza della questione in modo abbastanza efficace. «Egli non considera mai i corpi come esistenti con nulla tra essi fuorché la loro distanza, come agenti l'uno sull'altro secondo una certa funzione di quella distanza. Egli concepisce tutto lo spazio come un campo di forza, le linee di forza sono in generale curve, e quelle dovute a un corpo qualsiasi si estendono a partire da esso a tutte le parti. Egli parla anche di linee di forza che appartengono a un corpo come se in qualche senso fossero parte di esso, cosicché nella sua azione sui corpi distanti non si può dire che agisce là dove non è. Questa tuttavia non è l'idea dominante di Faraday, penso che preferirebbe dire che il campo dello spazio è pieno di linee di forza, la cui distribuzione dipende da quella dei corpi nel campo, e che l'azione elettrica e meccanica su ciascuno dei corpi è determinata dalle linee che finiscono su di esso» (A Treatise on Electricity and Magnetism, vol. II, 529).

In queste osservazioni James Maxwell si trovò di fronte a un modo abbastanza nuovo d'intendere la costituzione dell'universo come vasto campo di materia e spazio governato da una fondamentale unità di forze diverse, gravitazionale, elettrica, magnetica, chimica, e così via, che erano probabilmente convertibili l'una nell'altra. Questo modo di vedere la natura era abbastanza vicino al modo in cui James Maxwell era giunto lui stesso ad apprezzare le sottili relazioni dinamiche che si manifestano nella realtà creata, tenuta continuamente in essere da Dio. Di particolare significato per lui era il modo in cui Faraday concepiva i corpi o le particelle materiali, le linee mobili di forza, e i campi che si fondevano l'uno nell'altro, il che suggeriva l’idea che, in ultima analisi, i corpi sono interconnessi in modo tale nei campi di forza che essi devono essere considerati come punti convergenti di forza piuttosto che come corpi discreti in moto nello spazio vuoto e nel tempo. Inoltre, poiché forze di questo genere, che hanno un'esistenza reale o fisica, non interagiscono l'una sull'altra a distanza indipendentemente dal tempo, ma solo in relazione di vicinanza, i cambiamenti della configurazione dei campi hanno bisogno di tempo per aver luogo tramite l'interazione di forze, il che suggerisce l'idea che il tempo, così come lo spazio, devono entrambi appartenere al vasto campo di forza che è la realtà soggiacente a tutti i fenomeni dell'universo.

L'interpretazione di Faraday del comportamento dinamico della natura in termini di linee mobili di forza, con forze che agiscono progressivamente attraverso il campo su forze contigue, non era in accordo con le leggi newtoniane, ma da parte sua non era riuscito a determinare le leggi che governavano i campi di forza. Come la vedeva James Maxwell, quest'idea di forza fisica che interagisce con la forza in un campo contiguo, implicando la massima che “il più forte ha ragione”, richiedeva una spiegazione meccanica, anche se non una spiegazione causale o determinista nel senso newtoniano. Egli affrontò il problema in due stadi distinti.

Il primo stadio fu segnato dal suo lavoro On Physical Lines of Force scritto nel 1856 ma pubblicato solo cinque anni dopo. Il suo problema era render conto del modo in cui le forze o le particelle elettriche o magnetiche agiscono l'una sull'altra mediante relazioni esterne ma contigue, e di trovare una formula matematica per la sua descrizione. Egli vide che, mentre le equazioni integrali forniscono il formalismo matematico conveniente per una teoria di relazione tra particelle a distanza, si devono usare equazioni differenziali per una teoria di relazione tra parti contigue di un mezzo. Ma per sviluppare tali relazioni egli fece uso di un modello meccanico di vortici magnetici e di correnti elettriche con “ruote libere” interposte tra vortici contigui, modello altamente artificiale e intricato, con l'intenzione di dare alla sua visione fisico-matematica qualcosa di concreto con cui lavorare, nello sforzo di afferrare il meccanismo delle interazioni delle forze piuttosto che di cause nel campo elettromagnetico. Questo strano modello meccanico era semplicemente un artificio euristico ad hoc, ma per quanto insoddisfacente esso gli permise di elaborare in termini di matematica “calata nel corporeo” una formulazione rigorosa delle leggi di campo elettromagnetico nel corso della quale egli ricavò le importantissime equazioni alle derivate parziali che portano il suo nome ed enunciò la teoria elettromagnetica della luce. Proprio in occasione di queste brillanti realizzazioni, James Maxwell insistette che egli non proponeva il suo modello meccanico immaginario come «un modo di connessione che esiste in natura», ma solo come modello provvisorio per mostrare che «un tal modo di connessione... è concepibile meccanicamente» (cfr. The Scientific Papers of J.C. Maxwell, 1890, vol. I, p. 476). In altre parole il suo lavoro On Physical Lines of Force era inteso a fornire un’interpretazione meccanica dei fenomeni elettromagnetici in una forma ancora conforme con la meccanica newtoniana. Ciò nonostante, egli era lungi dall'esser contento di questo modo di procedere, il che forse spiega perché lo conservò nel cassetto per diversi anni. William Berkson ha espresso bene la cosa: «Marwell inventò e utilizzò una teoria che considerava sostanzialmente insostenibile, ma produsse risultati fra i più fruttuosi nella storia della scienza» (Berkson, 1974, p. 170). L'effetto delle equazioni di Maxwell fu di stabilire in modo indubitabile la realtà indipendente del campo, ma ebbe anche l'effetto di alterare il suo concetto di campo come mezzo di forze contigue e di postulare una sua riconsiderazione.

  

IX. Interpretazione dinamica e relazionale della natura

Questo fu il compito che intraprese in un secondo stadio con la pubblicazione nel 1865 di un altro lavoro, A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field, lavoro che aveva letto davanti alla Royal Society di Londra nel dicembre dell'anno precedente. In questo lavoro egli inseriva le sue equazioni alle derivate parziali in un'interpretazione interamente “relazionale” del campo elettromagnetico, senza ricorso alla meccanica newtoniana. La via per questo era stata aperta dal suo rendersi conto che la forza elettromotrice è del tutto diversa dalla forza meccanica, perché agisce sull'elettricità e non, come la forza meccanica, sui corpi discreti su cui l’elettricità risiede; e quella realizzazione era molto rafforzata dalla scoperta dell'identità di natura e di velocità tra le onde elettromagnetiche e le onde luminose. Questo indicava che la natura è governata in ultima analisi da campi continui di energia, anche se l'energia si manifesta in due forme diverse rispetto alla posizione e al movimento, nella dinamica dei campi e nella meccanica dei corpi interagenti. Il suo scopo non era solo di liberare le sue equazioni differenziali alle derivate parziali dal modello meccanico, ma di ricavarle senza ricorso al meccanicismo. Questo è precisamente ciò che egli riuscì a fare, mostrando che queste equazioni gli consentivano di derivare le leggi strutturali della radiazione elettromagnetica e dei campi elettromagnetici in qualunque punto dello spazio e per qualunque istante del tempo. Come ebbe a dire Einstein: «La formulazione di queste equazioni costituisce l'avvenimento più importante verificatosi in fisica dal tempo di Newton in poi e ciò non soltanto per la dovizia del loro contenuto, ma anche perché esse hanno fornito il modello di un nuovo tipo di legge [...]. Le equazioni di Maxwell definiscono la struttura del campo elettromagnetico. Sono leggi valide nell'intero spazio e non soltanto nei punti in cui materia o cariche elettriche sono presenti, com'è il caso per le leggi meccaniche» (A. Einstein, L. Infeld, L'evoluzione della Fisica, Torino 1974, pp. 153 e 156). Così in contrasto alla legge newtoniana classica la ricostruzione della scienza fisica prodotta da James Maxwell ci fa concepire la realtà fisica in termini di campi di forza estesi attraverso lo spazio e il tempo “continui” e non soltanto contigui.

Vale la pena a questo punto di fare alcuni commenti sulla scienza fisica di James Maxwell.

a) Mentre James Maxwell elaborò una giustificazione completamente “relazionale” del campo in A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field, egli non scartò completamente la sua precedente interpretazione meccanica, ma in accordo con la convinzione che ci possono essere due modi di vedere le cose li riunì insieme nel suo lavoro principale A Treatise on Electricity and Magnetism (1873), regolando continuamente la messa a fuoco della teoria ai diversi livelli di interpretazione meccanica e dinamica, però in modo tale che diventò chiaro che l'interpretazione meccanica rappresenta un modo piuttosto artificiale di affrontare la questione e non arriva alle connessioni reali della natura, e quindi si deve considerare soltanto come caso limite di un'interpretazione relazionale e dinamica, e perciò come qualcosa che ha lo statuto di un modello di lavoro che non deve esser preso per più di quello che esso è in realtà. L'effetto finale del suo lavoro, tuttavia, fu che il campo continuo apparve a fianco del punto materiale come rappresentativo della realtà fisica. Questo dualismo, osservò Einstein, rimaneva fino ai suoi giorni, per quanto sgradevole egli lo trovasse per una mente ordinata.

b) La teoria dinamica relazionale di James Maxwell sul campo andò al di là delle osservazioni generalmente riconosciute e delle prove sperimentali note, ma l'irradiazione costante di onde elettromagnetiche da un centro prevista dalle sue equazioni fu sperimentalmente verificata da Rudolph Hertz (1857-1894), e fu così dimostrato che il concetto maxwelliano di campo continuo era conforme alla realtà. Questo fu un evento di grande portata, perché l'approccio dinamico di James Maxwell era così estraneo al determinismo atomistico e molecolarista della fisica continentale da non essere stato preso sul serio. Anche Lord Kelvin, leggendo A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field, accusò il suo autore di cadere nel misticismo quando si allontanava dal modello meccanico. La scoperta di Hertz, tuttavia, come fu fatto notare da Max Planck (1858-1947), produsse la più grande sensazione nel mondo scientifico, perché le speculazioni di Maxwell furono tradotte in fatti e cominciò così una nuova epoca della fisica sperimentale e teorica.

c) Non vi è dubbio, da un punto di vista strettamente scientifico, che il fattore decisivo dello spostamento di James Maxwell da un'interpretazione meccanica a un'interpretazione relazionale del campo elettromagnetico fu la derivazione delle equazioni differenziali alle derivate parziali come formulazione naturale dei campi continui; ma dietro a questo si trovava la dominante e persistente convinzione che la natura, quale Dio Padre di Gesù Cristo l'ha creata, non si comporta in modo meccanico. In altre parole, in ultima analisi, fu la fede cristiana di James Maxwell che esercitò una funzione regolatrice sul suo giudizio scientifico e sulla sua scelta di concetti e teorie in quel momento supremo del progresso della scienza fisica. Si doveva porre la domanda: se il campo elettromagnetico non è suscettibile di spiegazione meccanica, che dire del campo biologico? Non sappiamo molto a proposito della reazione di James Maxwell alla teoria dell’evoluzione, ma ciò che sappiamo mostra che egli non era del tutto soddisfatto degli aspetti meccanicistici della teoria darwiniana. Naturalmente, dal punto di vista di James Maxwell, tutte le teorie scientifiche per quanto rigorose non riescono a adeguarsi ai modi sottili e flessibili di connessione che esistono nella realtà creata stessa, ma egli sentiva in particolare che erano impraticabili le teorie astrattive e meccanicistiche.

  

X. Nuovi concetti di spazio e tempo

L'ultima questione che dobbiamo discutere riguarda le implicazioni che le teorie di James Maxwell, specialmente la sua teoria elettromagnetica della luce come campo continuo, hanno per i concetti di spazio e tempo. È significativo che tanto nei suoi articoli come nei suoi libri non sembra esserci alcuna traccia dell'idea newtoniana di spazio e tempo come recipienti, mentre i concetti kantiani sono ricondotti risolutamente a relazioni realistiche nell'universo creato. Il problema del tempo e dello spazio fu sollevato nel suo saggio di Cambridge a proposito delle analogie reali della natura, quando discusse le strette relazioni che sussistono tra le leggi della natura e la costituzione dell'intelletto umano; ma concluse, come abbiamo visto, che si deve operare con concetti controllati oggettivamente, anche se formulati secondo le leggi della mente umana. In altri termini, James Maxwell non lavorava con concetti “assoluti” di tempo e spazio, né nel senso newtoniano, né nel senso kantiano di assoluto inteso come e «non influenzato da una realtà empirica in evoluzione».

Questo concetto di “verità oggettiva” nei concetti scientifici di tempo e spazio fu approfondito e rafforzato dal rifiuto da parte di James Maxwell del concetto di azione a distanza e dalla sua adesione alla realtà indipendente del campo continuo, in cui dobbiamo fare i conti con il fatto che le onde luminose viaggiano attraverso lo spazio e richiedono tempo per farlo. Questo implica che le relazioni spaziali e temporali sono caratteristiche proprie della struttura dinamica del campo che si trova al di sotto di tutti fenomeni della realtà fisica. Questa è un'implicazione che fu stabilita matematicamente dalle sue equazioni elettromagnetiche, le quali descrivono la struttura del campo in qualunque punto dello spazio e per qualunque istante del tempo. Queste equazioni dimostrano bensì che la velocità di cambiamento delle configurazioni dei campi mette in gioco tempo e spazio, ma mostrano anche che tempo e spazio sono caratteristiche empiriche del vasto campo dell’universo. Per di più, in quanto le equazioni di Maxwell alle derivate parziali stabiliscono la realtà indipendente e l'intelligibilità del campo continuo, esse mostrano che le strutture temporali e spaziali del campo non dipendono dall’attività dell'osservatore umano nel concepire o misurare i cambiamenti del campo. Questo è l'effetto congiunto della liberazione dei concetti di tempo e spazio dal dominio della massiccia soggettività dell'idea metafisica kantiana, secondo cui esse sono forme a priori della percezione sensibile umana non influenzata dall'obbiettività empirica, e perciò apre le nozioni di tempo e spazio a una riconsiderazione radicale.

James Maxwell era stato colpito dalla portata fisica delle equazioni del moto di W.R. Hamilton (1805-1865), e le usò per riuscire a derivare uno schema che rendesse conto delle linee di forza mobili mediante una matematica “calata nel corporeo”; ma mentre era ben al corrente della geometria tetradimensionale di Riemann, egli non sembra aver colto le implicazioni di questa per le idee realiste di spazio e tempo, per non parlare di spazio-tempo, anche se a quanto pare egli si rendeva conto che si stava presentando sulla scena un tipo nuovo e più profondo di continuità. Evidentemente il pensiero di James Maxwell era alla frontiera della nuova rivoluzione, che sarebbe stata operata da Einstein nel 1905 con il suo saggio sulla relatività speciale, ma forse la sua esitazione nel rifiutare il concetto di etere, anche se non aveva per lui una grande importanza, gli impedì di coltivare seriamente l'idea che le onde luminose potevano non richiedere un mezzo attraverso cui propagarsi. Comunque sia, è stato detto abbastanza per mostrare come la teoria dinamica nel campo elettromagnetico di Maxwell, in cui il magnetismo, l'elettricità e la luce furono unificati in una singola teoria comprensiva, abbia fornito insieme alle sue equazioni alle derivate parziali il materiale fondamentale dal quale, alla luce delle trasformazioni di Lorentz, Einstein sosteneva di aver cristallizzato quella teoria della Relatività che ha trasformato i nostri concetti di spazio e tempo.

Non ci sono prove che la fede cristiana di James Maxwell nella Creazione e nell'Incarnazione abbia influenzato il suo modo di comprendere lo spazio e il tempo, analogamente a come quelle cardinali dottrine di fede influenzarono la mente dei primi Padri greci, che proposero dei concetti relazionali di spazio e tempo con i quali ancor oggi lavoriamo tanto nella scienza quanto in teologia. Sappiamo dal suo biografo che egli amava studiare i Padri della Chiesa e gli antichi teologi, che preferiva a quelli moderni, il che può indicare come trovasse la loro comprensione dell'universo creato piuttosto congeniale. Ma è certamente chiaro che il tipo di scienza fisica da lui sostenuto era molto più conforme alla teoria cristiana che non il tipo di scienza sviluppatosi quando dei concetti di spazio e di tempo assoluti furono arbitrariamente fissati al mondo empirico, con il risultato di ridurre la concezione della natura ad un sistema meccanicistico rigido e chiuso. Per il nostro Autore l'indagine scientifica rigorosa e una semplice devota fede cristiana furono compagne di tutta la vita, e ognuna contribuiva in modo proprio alla forza dell'altra. Perciò non è fuor di luogo chiudere questa discussione dell'importanza della fede cristiana per la scienza fisica con una preghiera che James Maxwell lasciò tra i suoi lavori: «O Dio onnipotente, che hai creato l'uomo a tua propria immagine, e ne hai fatto un'anima vivente perché egli potesse cercarti e avere potere sulle tue creature, insegnaci a studiare l’opera delle tue mani in modo che possiamo sottomettere la terra a nostro uso e rafforzare la nostra ragione al tuo servizio; e ricevere la tua Parola benedetta, così da aver fede in Colui che hai mandato a darci conoscenza della salvezza e della remissione dei nostri peccati. Te lo chiediamo nel nome di quello stesso Gesù Cristo nostro Signore».

  

Bibliografia

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