I. Vita e opere - II. La rivoluzione cantoriana - III. Il transfinito - IV. Il concetto di insieme e i suoi problemi - V. Riflessioni sull’infinito.
I. Vita e opere
Georg Ferdinand Ludwig Cantor nacque a San Pietroburgo (Russia) il 3 marzo 1845 da genitori appartenenti a famiglie di origine israelitica, ormai assimilate alle comunità in cui vivevano, e morì il 6 gennaio 1918 a Halle (Germania). Il padre, un commerciante danese amante della cultura e delle arti, divenne un importante agente della borsa-merci locale; apparteneva alla Chiesa luterana, nella quale fu allevato anche il figlio Georg. La madre russa, con notevoli doti musicali che trasmise ai figli (Georg fu un violinista di un certo talento), era cattolica. Nel 1856, alla ricerca di inverni meno rigidi, più adatti alla salute del capofamiglia che era piuttosto delicata, la famiglia si trasferì in Germania, prima a Wiesbaden poi a Francoforte, ma Georg ebbe sempre nostalgia della madrepatria, dichiarandosi più russo che tedesco.
1. La formazione e le prime scoperte scientifiche. Dopo essere stato affidato per i primi anni ad un precettore, ed aver compiuto gli studi come interno al Liceo di Darmstadt, con ottimi risultati in matematica, Cantor venne iscritto, nel 1862, al Politecnico di Zurigo. I suoi interessi erano però prevalentemente speculativi tanto che ottenne presto il permesso di passare a Matematica. L’anno seguente, con la morte del padre, lasciò Zurigo per Berlino, dove incominciò a coltivare anche studi filosofici e teologici che proseguì per tutta la vita. Aveva molti amici tra i compagni di corso e con loro si riuniva regolarmente all’osteria per interminabili discussioni: fu anche presidente della Società Studentesca di Matematica dal 1864 al 1865. Ma soprattutto, a Berlino, ebbe come maestri i più famosi matematici tedeschi del momento: il grande K. Weierstrass (1815-1897), E.E. Kummer (1810-1893) e L. Kronecker (1823-1891), fortunato uomo d’affari appassionato di matematica, che avrebbe ottenuto una cattedra in quella prestigiosa università soltanto nel 1883. Questi rappresentavano i tre indirizzi prevalenti all’epoca nella ricerca, rispettivamente, analitico, algebrico e aritmetico a seconda che si ponesse come base della matematica il numero reale (Weierstrass), la struttura algebrica (Kummer), il numero intero o, comunque, la parte finita delle costruzioni matematiche (Kronecker). Il dibattito era vivace ma sarebbe divenuto filosoficamente rilevante qualche decennio più tardi, grazie al contrastato apporto di Cantor. Intanto questi concludeva la sua formazione con un semestre a Göttingen, dove era viva la memoria di C.F. Gauss (1777-1855), del quale riprese alcune tematiche nella propria tesi dottorale che discusse al suo ritorno a Berlino (De aequationibus secondi gradus indeterminatis, 1867). Terminati gli studi universitari si dedicò all’insegnamento in un collegio femminile e vi si preparò seriamente con la frequenza di corsi appositi; poi, grazie alla sua Habilitationschrift (1869), si poté trasferire nella Università di Halle.
Ad Halle stabilì ben presto una solida amicizia con H.E. Heine (1821-1881), allievo di Weierstrass, che contribuì ad orientare le ricerche del più giovane amico verso l’indirizzo analitico. I notevoli risultati conseguiti fecero ottenere a Cantor la nomina a Professore straordinario (1872). In quello stesso anno nacque la sua amicizia con R. Dedekind (1831-1916), matematico più anziano, fedele alla tradizione classica, che sosterrà Georg in molte difficili occasioni. Il loro fitto scambio epistolare, durato decenni, fu prezioso per entrambi. Cantor nel 1873 iniziò l’elaborazione del concetto di «numerabilità» e lo applicò all’insieme di tutti i razionali e di tutti gli algebrici, scoprendo la “non numerabilità” di tutti i numeri reali (vedi infra, III). Nell’agosto 1874 anche la sua vita personale subiva un’importante svolta: il matrimonio con un’amica della sorella, dopo un breve fidanzamento, unione allietata dalla nascita di sei figli. Nel 1877 Cantor gettò le basi di una Teoria moderna della dimensione con la sorprendente scoperta della corrispondenza biunivoca e continua tra punti di un segmento e punti di un quadrato costruito su di esso (nel 1890 Peano presenterà un risultato analogo con le equazioni di una curva che “riempie” un quadrato; cfr. Mangione, 1976, pp. 795-797), presto estesa a tutti i punti di uno spazio con un numero qualsiasi di coordinate (ne sono uno sviluppo recente i «frattali» di B. Mandelbrot). Fu l’occasione per affinare la nozione di corrispondenza biunivoca, facendone lo strumento principale della Teoria degli insiemi e della Topologia. Ma quando presentò i risultati all’autorevole “Journal de Crelle” (Journal für die reine und angewandte Mathematik), Kronecker avanzò decise riserve; la rivista pubblicò l’articolo, il suo ultimo in quella sede, soltanto grazie all’intervento di Dedekind (Contributi alla teoria delle molteplicità, 1878, in Saggi 1872-1883, a cura di G. Rigamonti, 1992, pp. 23-43).
2. Isolamento accademico e primi sintomi di depressione. Quanto avvenuto fra Cantor e Kronecker era il primo segno di un’opposizione che sarebbe stata durissima, unendosi all’incomprensione per la direzione imboccata dalla ricerca cantoriana. Ne risentirono rapporti scientifici e personali: così dopo l’amicizia con Kronecker, nel 1880 finì anche quella con il matematico C.H.A. Schwarz (1843-1921) che datava dai tempi dell’università, mentre aumentava per Cantor la difficoltà a trovare riviste autorevoli che ospitassero le sue ricerche. L’isolamento che ne derivò, molto pesante da sopportare, non fu mai totale, grazie ad alcune rare eccezioni come il lungimirante F. Klein (1849-1925), il grande matematico che, forse attraverso le proprie sofferenze, comprese meglio la situazione:per suo interessamento i “Mathematische Annalen” pubblicheranno a più riprese alcuni fondamentali lavori cantoriani (Sulle molteplicità lineari infinite di punti, 1879-1884, in Saggi 1872-1883, pp. 45-132). In quegli anni cominciavano a giungere consensi dall’estero, tra i primi quelli degli analisti italiani G. Ascoli e S. Pincherle, voci isolate e purtroppo ancora poco influenti almeno in Germania.
Cantor ormai in cattedra, pur potendo legittimamente aspirare a sedi prestigiose, non lascerà più l’Università di Halle: l’ostilità che incontravano le sue ricerche e l’opposizione di Kronecker lo impediranno. La morte di Heine (1881), oltre alla grave perdita personale, portò con sé nuove amarezze: Cantor non riuscì ad attirare, per la successione, matematici amici di un certo valore con i quali approfondire un sodalizio personale e scientifico. Il loro rifiuto lo ferì profondamente, soprattutto quello di Dedekind e si interruppe così la loro ricca corrispondenza epistolare. Anche lo spiraglio che si era aperto con l’offerta dello svedese G. Mittag-Leffler di collaborare agli “Acta Mathematica” sembrò chiudersi quando, proprio l’anno dopo, questi chiese a Cantor di ritirare un articolo sugli ordinali transfiniti. A quel punto, soltanto alcuni logici, come G. Frege (1848-1925) e E. Schröder (1841-1902), osavano infrangere la congiura del silenzio che, almeno in Germania, colpiva la Teoria degli insiemi e quella del Transfinito. Alla fine di maggio del 1884 Cantor subì il primo grave attacco di depressione. Una sindrome complessa che associava a momenti di profonda malinconia, crisi di esaltazione o addirittura esplosioni di collera violenta. Fino a pochi anni or sono se ne attribuiva la ragione alle contrarietà patite in un’istituzione nella quale le differenze gerarchiche erano sottolineate da rapporti molto rigidi. Com’è noto però le cause della depressione affondano le proprie radici nella storia familiare della persona, in episodi molto precoci della sua vita infantile e addirittura nel suo patrimonio genetico, andando assai al di là di situazioni, per quanto difficili, della vita adulta, che possono costituirne, tuttavia, dei fattori scatenanti (cfr. Purkert-Ilgauds, 1987, pp. 79-92). In ogni caso, quella meravigliosa vena creativa che fino ad allora non aveva abbandonato Cantor sembrò esaurirsi con un brusco arresto, che ha portato tutta una vulgata storiografica a denunciare una sua decadenza mentale irreversibile. Invece egli non perdette la sua lucidità e, dopo una breve vacanza sugli amati monti dello Harz, compì un tentativo formalmente riuscito di riconciliarsi con Kronecker il quale, però, non cambiò minimamente idea né su di lui né sulle sue ricerche.
In realtà Cantor iniziava, con l’acquisto di un’abitazione nuova, più confortevole, e soprattutto con la nascita dell’ultimo figlio, un periodo di lenta ripresa (1886-1888). Trovava occasioni per distrarsi, come la questione dell’attribuzione delle opere di Shakespeare a Francis Bacon. Ma soprattutto si poteva dedicare al consolidamento delle sue scoperte ed alla riflessione sui problemi dell’infinito, giovandosi di un interesse filosofico mai sopito (infra, V). Intratteneva scambi epistolari importanti con Weierstrass, con il filosofo K. Lasswitz e con l’autorevole teologo gesuita, il cardinale G.B. Franzelin, in parte pubblicati da lui stesso (sulla rivista filosofica fichtiana: Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik,1887-1888, segno di interesse del mondo filosofico). Come Galilei, Descartes e Newton, Cantor era convinto che le sue scoperte scientifiche — al contrario di quanto suggeriva la posizione di Kant — potessero fornire un fondamento più solido alla fede. Egli, che si dichiarò sempre religioso alla maniera di Spinoza, aveva però una forte simpatia per il cattolicesimo materno e si doleva della diffidenza che la nozione di «transfinito» suscitava negli ambienti ecclesiastici (cfr. Thuiller, 1977).
3. La diffusione delle sue scoperte e gli ultimi anni. Anche gli anni seguenti (1889-1893) non andarono perduti, impegnati nell’attività associativa dei matematici, dimensione di rilievo nella costruzione del consenso scientifico: Cantor nel 1891 organizzò il primo Congresso della Deutsche Mathematiker-Vereinigung da lui fondata (da un’idea di R.F. Clebsch) e tuttora operante, ed invitò per l’indirizzo di apertura Kronecker che però non poté tenerlo, vittima di una serie di disgrazie familiari che culmineranno con la sua morte, in quello stesso anno. Anche se l’elezione alla presidenza dell’associazione, mantenuta fino al 1893, indica che il clima stava mutando, la fatica richiesta dagli ultimi impegni contribuì ad una nuova crisi depressiva, più grave delle precedenti (1893). Ora i sintomi erano più preoccupanti. La “questione shakespeariana” perdeva il suo carattere distensivo e diventava un’ossessione, al punto da fargli pensare di abbandonare la matematica per dedicarsi alla storia della letteratura. In più Cantor aveva composto una strana opera nella quale verificava la famosa «congettura di Goldbach» (se n › 4 è pari, allora n è la somma di due numeri primi dispari; se n ≥ 9 è dispari, allora n è la somma di tre primi dispari) fino al numero 1000, anche se ne era uscita quarant’anni prima, una identica che si era spinta fino al 10000.
In lui, lettore di Agostino come di Spinoza, si faceva sempre più netta la convinzione che Dio stesso gli aveva ispirato la scoperta del transfinito per rafforzare la causa dello Spirito in un’epoca di materialismo crescente. Nonostante ironie e sarcasmi che questi episodi possono suscitare, egli non si arrese alla malattia, tanto che, proprio in quel periodo pubblicò sui “Mathematische Annalen”, sempre grazieal vivo interessamento di Klein, i suoi due ultimi capolavori, Contributi alla fondazione della Teoria dei numeri transfiniti (1895-1897), nei quali veniva presentata, in una veste più rigorosa, l’aritmetica “transfinita” dei numeri cardinali e ordinali: l’intervallo che li separa era dovuto alla speranza di poter includere nel secondo saggio, una dimostrazione dell’Ipotesi del continuo (vedi infra, III), che non cessava di tormentarlo, poiché eludeva ogni soluzione. Ad aggiungere nuovi motivi di preoccupazione, poi, venivano i “paradossi” presenti nel concetto di «insieme» che potevano dare esca ad ulteriori resistenze (vedi infra, IV). Cantor per primo aveva scoperto, almeno dal 1896, data della sua comunicazione a David Hilbert (1862-1943), il paradosso detto di C. Burali-Forti (1897). Nel primo “Congresso internazionale dei matematici” (Zurigo, 1897) incontrò nuovamente Dedekind con il quale rinnovò l’antica amicizia, riprendendo una fitta corrispondenza proprio sui “paradossi”. Quell’occasione per Cantor fu un trionfo: egli ricevette pubblici riconoscimenti dai maggiori matematici europei presenti, J. Hadamard, D. Hilbert, A. Hurwitz, G. Mittag-Leffler, H. Minkowski e K. Weierstrass. Successivamente, nell’autorevole Enzyclopädie der mathematischen Wissenschaften, trovava posto una “voce” relativa alla Teoria degli insiemi (a cura di A. Schönflies, 1899) ed infine Hilbert, al Congresso internazionale di Parigi (1900), apriva la rassegna dei grandi problemi della matematica del futuro proprio con “Il problema di Cantor del numero cardinale del continuo”.
La malattia però era in agguato e si manifestava con crisi sempre più ravvicinate, propiziate da una catena di lutti che lo colpì duramente: prima la morte della madre (1896) poi, nel gennaio del 1899, quella del fratello minore ed infine, nel dicembre dello stesso anno, quella del figlio più piccolo, Rudolph. Da questa data fino alla morte la depressione non gli dette che brevi tregue: egli continuò ad insegnare, ma dovette prendere lunghi congedi, soprattutto nei semestri invernali e fu spesso ricoverato in sanatorio. Fu presente però tutte le volte che poté ai Seminari ad Halle: in uno di essi F. Bernstein dimostrò il teorema fondamentale per la comparabilità dei transfiniti tra loro (cfr. J. Dauben, 1994, p. 353) e Cantor vi tenne ancora leLezioni sui paradossi della Teoria degli insiemi (1903). Ormai partecipava raramente ai Congressi, come quello Internazionale dei matematici di Heidelberg (1904). Anche se la sua vivacità intellettuale era tutt’altro che spenta, come dimostra la corrispondenza con Ph.E.B. Jourdain di Cambridge sulla Storia della Teoria degli insiemi (1905), la sua creatività era scomparsa. Neppure l’invito rivoltogli nel 1911 come ospite d’onore al 500° anniversario della fondazione dell’Università di St. Andrews (Scozia), riuscì a sollevarlo. Anzi la preoccupazione per la malattia di un figlio e lo stress fecero riemergere i noti sintomi: così Cantor coglierà l’occasione per esternare le sue vedute sulla “questione shakespeariana” mancando all’incontro, pure tanto atteso, con Bertrand Russell che aveva appena pubblicato il primo volume dei Principia Mathematica (1910). Se tutto ciò non poteva più ostacolare la recezione delle sue teorie ebbe però l’effetto di lasciarle indifese in un momento molto delicato, quando, superate le diffidenze e i preconcetti iniziali, proprio i paradossi, forse eccessivamente enfatizzati (cfr. K. Gödel, Che cos’è il problema del continuo di Cantor, 1947), portarono una generazione di matematici più giovani, all’inizio suoi sostenitori entusiasti, a dar vita ad una seconda dura opposizione. Come J.E.L. Brouwer, fondatore dell’Intuizionismo e H. Poincaré, che descrive il cantorismo come «un beau cas pathologique» (Science et Méthode, Paris 1908, p. 41) contribuendo a quell’infelice tradizione che associa incongruamente patologia logica degli insiemi e tragedia personale del loro scopritore.
A partire dal 1904, Cantor aveva ricevuto alcuni significativi riconoscimenti ufficiali, come la medaglia della Royal Society, la nomina a membro della London Mathematical Society e della Società delle Scienze di Göttingen. Infine la Laurea in legge, honoris causa,di cui venne insignito nel 1912 dall’Università di St. Andrews. Essi testimoniavano la solida stima di cui egli godeva ormai nel mondo accademico, anche se era tanto malato da non poter ricevere di persona l’ultimo di essi. Nel 1913 Cantor si ritirò dall’insegnamento. Lo scoppio della Guerra mondiale, a causa delle restrizioni, acuì i suoi disagi. Non si poté festeggiare con solennità il suo 70° compleanno (1915) e ci si limitò ad una festa privata. Neppure i cinquant’anni del dottorato (1917), perché era appena entrato in sanatorio. Qui soggiornò malvolentieri, scrivendo ripetutamente alla moglie perché gli fosse consentito di tornare a casa. Fino a che, il 6 gennaio 1918, lo colse la morte a seguito di un attacco cardiaco.
II. La rivoluzione cantoriana
Dall’antichità fino al XIX secolo, la nozione di «grandezza» (ancora B. Russell, nei Principles of Mathematics, 1903, le dedica l’intero cap. 19) è stata considerata capace di esprimere tutti i più importanti concetti di base della matematica. Sviluppata a partire dalle aporie di Parmenide attraverso l’elaborazione dell’omonimo dialogo platonico e giunta, con Eudosso di Cnido (395-340 a.C.) a quella formulazione matura che si può leggere in Euclide (Elementi di geometria, V, def. 1, 3), “avere grandezza” è sia la possibilità di “avere parti”, sia quella di “essere confrontabile” con altre entità omogenee. Si trattava di una teoria nata allo scopo di affrontare incommensurabilità e irrazionalità, e quindi l’infinito, fattori di crisi della scuola pitagorica (V sec. a.C.), ma in realtà di tutta la matematica greca arcaica, che si fondava sul numero intero. La quantità invece era una nozione più ampia: «Una quantità determinata, è una pluralità se enumerabile, è invece una grandezza se misurabile» (Aristotele Metafisica V, 1020a, 9-10). La trattazione euclidea è fondata su questa distinzione: le proporzioni tra grandezze, che possiedono maggior generalità, si trovano nei libri V-VI degli Elementi, quelle tra numeri invece, nei libri VII-IX; anche qui, comunque, l’infinito fa capolino dal problema della quantità dei numeri primi (lib. IX, teor. 20). La matematica posteriore, fino a Descartes e oltre, non dubiterà della solidità di questo impianto. Quando però la geometria cesserà di apparire il fondamento indiscusso di tutto, comincerà il tramonto della teoria della grandezza e tornerà allora in primo piano l’altra nozione primitiva, il numero, all’apparenza, più semplice e immediata. Esso però, prima di poter essere impiegato in modo rigoroso, dovrà rendere conto di tutte le inserzioni subite, almeno a partire dal Rinascimento (R. Bombelli, Algebra, 1570): oltre i frazionari, gli irrazionali, i negativi (d’Alembert, Encyclopédie, Paris, 1751-1765, voce Negatif), gli immaginari. Il “numero” infatti non si può identificare con i simboli usati per indicarlo, tanto meno l’irrazionale, le cui cifre dopo la virgola nella notazione posizionale, in apparenza come le altre, non permettono mai di raggiungere il suo vero valore, per quante se ne calcolino: non si ripetono mai nello stesso ordine e sono infinite. È il nocciolo del problema del numero reale che nel 1872 vedeva cimentarsi Méray, Weierstrass, Heine, Dedekind e Cantor nello sforzo di evitare il ricorso all’intuizione e alla geometria (cfr. Boyer, 1990, pp. 640ss).
George Cantor non raggiunge certamente la statura di un Descartes o un Leibniz, però riesce a cogliere profondità insospettate nei problemi in apparenza più “tecnici”, facendo emergere le trame concettuali che li uniscono, in modo inatteso, un processo di pensiero che, una volta attivato, porta a scoperte matematiche ulteriori, con ricadute filosofiche e persino teologiche che egli cerca di controllare e approfondire. Egli dimostra così, nella sua concreta attività di ricerca, la vera portata della tesi formulata per la propria “lezione dottorale”: «In matematica l’arte di porre un problema si deve stimare maggiormente di quella di risolverlo» (Gesammelte Abhandlungen matematischen und philosophischen Inhalts, 1980, p. 31). Infatti la “rivoluzione” cantoriana ha il suo inizio proprio in un problema matematico di frontiera per la ricerca del XIX secolo: la determinazione delle condizioni più generali per l’unicità dello sviluppo di una funzione in serie trigonometrica di Fourier. Anche se Cantor non giunge alla versione definitiva e più potente del Teorema, ottiene un notevole miglioramento dei risultati di P.G. Lejeune-Dirichlet (1805-1859) e di B. Riemann (1826-1866), nel corso di una serie di pubblicazioni (elenco in Rigamonti, 1992, pp. 135-136, nn. 8-12).
Proprio l’ultimo degli articoli apparsi quell’anno (cfr. ibidem, pp. 3-22) presenta una concentrazione di scoperte di cui non è difficile vedere tutta l’importanza. Oltre al risultato sulle serie trigonometriche, si incontrano in poche pagine: una definizione molto generale e formalmente rigorosa di numero reale come limite di una successione convergente, il primo abbozzo di una Teoria degli insiemi (vedi infra, IV) che muterà completamente il volto della matematica, alcune nozioni fondamentali di Topologia, un primo esempio di infinito “attuale” i cui sviluppi rappresenteranno il vertice della matematica di fine secolo (vedi infra, III). Questi risultati avranno effetti rivoluzionari perché, in essi, l’estrema novità è unita al ripensamento radicale di nozioni molto antiche come «molteplicità» e «infinito» (uno dei temi più spinosi di tutta la storia della scienza), che Cantor scopre presenti, ancora quasi intatte, nelle discussioni dei matematici dell’Ottocento. Egli così riesce a realizzare la «ripetizione di un problema fondamentale» non banale ma produttiva, nella «esplicitazione delle sue possibilità originarie ancora nascoste» (M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, 1930, tr. it. Milano 1962, p. 269), quelle possibilità che proprio la serie di Fourier metteva in luce, rivelandosi molto di più che una semplice occasione per la scoperta della «funzione» (Dirichlet) o la definizione rigorosa dell’«integrale» (Riemann), tutte nozioni centrali nell’analisi matematica contemporanea.
III. Il transfinito
1. I numeri cardinali. Il “numero cardinale” o “potenza” (da J. Steiner) di un insieme M denuncia immediatamente la stretta connessione con la filosofia, caratteristica della matematica cantoriana, poiché esso è: “Il concetto generale che sorge da M, quando facciamo astrazione dalla natura dei suoi elementi m, e dall’ordine in cui sono dati” (Contributions to the Founding of the Theory of Transfinite Numbers, a cura di Ph. Jourdain, 1965, p. 86). Il termine chiave è “astrazione”, che appartiene al lessico filosofico, formatosi in Germania tra XVII e XVIII secolo, con la diffusione della scolastica suareziana. Anzi, questa definizione accosta il numero cardinale all’essenza o forma metaphysica (F. Suárez, Disputationes Metaphysicae, I, 1, 17; cfr. Binotti, 1993, pp. 175-177): come l’astrazione metafisica prescinde dalla materia sensibile e intelligibile, il numero cardinale prescinde dalla natura dei suoi elementi e dall’ordine in cui sono dati, e anch’esso non è di per sé né finito né infinito, ma può essere entrambi. Per il secondo caso Cantor conia il termine transfinitum, nel senso di soprafinitum (cfr. Saggi 1872-1883, a cura di G. Rigamonti, 1992, p. 91), concetto accettato anche dal Franzelin, nella comune preoccupazione di evitare sovrapposizioni tra infinità matematica e Infinità divina (cfr. Thuiller, 1977).
Ma ciò che mette veramente in luce le proprietà matematiche del numero cardinale è la “corrispondenza biunivoca” tra gli insiemi di partenza, scoperta da Bernard Bolzano (cfr. I paradossi dell’infinito, 1851, tr. it. Milano 1965, pp. 25ss) e messa veramente a punto soltanto da Cantor. Due insiemi sono in corrispondenza biunivoca, se ad un elemento del primo corrisponde uno ed un solo elemento del secondo e viceversa. Essi allora sono equivalenti ed hanno la stessa potenza o numero cardinale (cfr. Sierpinski, 1958, cap. II, pp. 22ss), che può essere, come l’insieme dal quale è astratto, finito o non. Nel primo caso si ha il numero intero, potenza di ciascuno degli insiemi finiti, tra loro equivalenti, che hanno quindi lo stesso numero di elementi. Nel secondo caso, il numero cardinale transfinito. L’insieme [n] di “tutti” i numeri interi finiti (va sottolineato che si tratta di “totalità”), fornisce con la sua potenza il più piccolo numero cardinale transfinito: “aleph-0” (cfr. Contributions to the Founding of the Theory of Transfinite Numbers, pp. 13-14), d’ora in poi qui indicato con a0.
I “transfiniti” sono numeri che, alle usuali proprietà, aggiungono quelle che provengono dagli insiemi infiniti di cui sono astrazione. I transfiniti costituiscono quindi “estensioni” del numero, come gli irrazionali (cfr. Rigamonti, 1992, p. XXIX). Alcune conseguenze. Si prendano l’insieme di tutti gli interi [n], e altri insiemi come: 1) l’insieme di tutti gli interi [n+1]; 2) l’insieme di tutti gli interi pari [2n]; 3) l’insieme di tutti i quadrati interi [n2]. Essi sono certamente distinti da [n] e tra loro ed essendo formati ciascuno da numeri interi sono sottoinsiemi dell’insieme di tutti i numeri interi. Un insieme infinito (Dedekind assunse questa proprietà come sua definizione) è equivalente ad un suo sottoinsieme proprio. Poiché per definizione la potenza di [n] è a0, si possono indicare le potenze degli altri insiemi rispettivamente con: 1) a0+1; 2) 2 a0; 3) a02. Ma ciascuno degli insiemi sopra indicati si può mettere in corrispondenza biunivoca con [n], quindi tutti gli insiemi indicati sono equivalenti e hanno la medesima potenza: a0.Questo comporta le rispettive identità: a0 = a0+1; a0 = 2a0; a0 = a02. Ciascuna di esse si può estendere facilmente: a0 = a0+k; a0 = ha0; a0 = a0m, (con k, h finiti o transfiniti, ed m finito). Inoltre l’insieme di tutti i quozienti, quello di tutti gli irrazionali, reali o immaginari, ma “algebrici” (cioè radici reali o immaginarie di equazioni algebriche a coefficienti interi), hanno tutti ancora potenza a0. Invece l’insieme di tutti i reali (o di tutti gli immaginari), che differisce dall’insieme di tutti gli algebrici per i numeri trascendenti, per definizione “non algebrici” come per es. “pi-greco”, numeri che sembrerebbero così rari, ha potenza maggiore del numerabile: 2a0, identificata con la “potenza del continuo” (cfr. Mangione, 1976, pp. 791-795). 2a0 è tanto maggiore di a0 quanto a0 lo è di un intero finito.
I precedenti risultati consentono di trattare matematicamente alcuni problemi classici dell’infinito e di approfondirne altri. Come l’interpretazione aristotelica del continuo geometrico, e della sua divisibilità all’infinito, la Teoria cantoriana è stata ferocemente osteggiata dalla maggior parte dei più autorevoli interpreti neoscolastici fino alla metà del XX secolo (cfr. P. Hoenen, Cosmologia, Roma, 1956, pp. 492-493) perché portava secondo loro ad una aritmetizzazione del continuo “intuitivo”, snaturandolo. Ma sostituire un continuo intuitivo con un continuo numerico fornisce un modello rigoroso e più maneggevole che consente di ragionare a fortiori. Si prenda un continuo (per es. un segmento) e si supponga attuata completamente la sua divisione all’infinito. Si consideri poi l’insieme di tutte le operazioni successive di divisione: poiché esse formano appunto una “successione” infinita, questa per definizione è numerabile e la sua potenza sarà a0, come quella dell’insieme delle infinite suddivisioni che ne risultano. Ma il continuo ha potenza 2a0 maggiore di a0: perciò se l’insieme delle infinite suddivisioni di un continuo ha potenza a0, ciascuna di esse sarà ancora un continuo. A maggior ragione questo si verificherà per il continuo intuitivo, che potrebbe avere elementi in più rispetto al suo modello numerico: la divisibilità all’infinito del continuo non lo scompone in parti meno che continue (cfr. Sierpinski, 1958, cap. IV, p. 59).
2. I numeri ordinali. Se nella definizione di “potenza di un insieme”, si astrae dalla natura dei suoi elementi ma non dall’ordine in cui sono dati, il concetto di numero si arricchisce di una caratteristica, proveniente dall’insieme, il suo ordinamento, ma la sua trattazione si complica soprattutto nel caso di insiemi infiniti (cfr. Contributions to the Founding of the Theory of Transfinite Numbers, pp. 11ss). Un insieme è ordinatorispetto alla relazione “precede”, se dati due suoi elementi qualunque “a, b” si ha sempre uno dei due casi: o “a precede b”, o “bprecede a”, ed è “ben ordinato” se ogni suo sottoinsieme non vuoto ha sempre un elemento che “precede” tutti gli altri. Se due insiemi sono ben ordinati in base a leggi anche diverse, ma in modo tale che in una corrispondenza biunivoca sia conservata la precedenza nei rispettivi ordinamenti, essi si dicono simili. Insiemi infiniti ben ordinati simili hanno lo stesso numero cardinale. Inoltre hanno il medesimo tipo ordinale o numero ordinale. Ma il reciproco non è vero. Mentre la potenza di un insieme finito o infinito è unica, nel caso del tipo ordinale per ciascuno di essi vi sono infiniti ordinamenti possibili, la cui totalità forma un insieme più che numerabile. Il che ha conseguenze sui cardinali, poiché così si è ottenuta la potenza transfinitaaleph-1, cioè a1, successiva a aleph-0 (cfr. Contributions to the Founding of the Theory of Transfinite Numbers, pp. 169-173). Questo fornisce un metodo per estendere progressivamente il dominio delle cardinalità oltre il numerabile a0, ottenendo una successione crescente: a1, a2, a3,... Allora sorge un problema, la cui soluzione ha occupato Cantor per lunghi anni: se sia possibile inserire la potenza del continuo, anch’esso più che numerabile, tra le cardinalità, racchiudendole tutte in un sistema unico. Si tratta dell’“ipotesi del continuo” (IC): 2a0 =a1 (generalizzata, IGC: 2a0 = ai>0). Le ricerche di K. Gödel (1940) e P.J. Cohen (1963) portano a concludere che sia IC sia IGC sono “indecidibili” nella Teoria degli insiemi e così la “chiusura” dei transfiniti in un sistema (cfr. Cohen e Hersh, 1991).
IV. Il concetto di insieme e i suoi problemi
La rivoluzione cantoriana non trasforma soltanto alcuni settori della matematica, ma cambia il suo stesso oggetto. Per Cantor, che riprende un’idea di Bolzano, il vero concetto-base della matematica non è il numero, ma l’«insieme», l’unico ente capace di tradurre integralmente, in forma scientificamente utilizzabile, la nozione di «molteplicità». La matematica perde così quei connotati “numerici”, che aveva appena acquisito, senza tornare per questo alla “geometria”: l’insieme non è più neppure un aggregato di punti ma i suoi elementi possono essere “cose” qualsiasi, anche altri insiemi. A causa di tale generalità, però, Cantor comincia, almeno dal 1896 se non dal 1883 (cfr. Dauben, 1994, pp. 354-356), ad osservare con una certa preoccupazione il formarsi di “paradossi”, anche se ancora percepiti come un inconveniente non troppo grave. Così all’inizio vengono trattati da Dedekind, D. Hilbert, E. Husserl, E.H. Moore, G. Peano, E. Zermelo (come risulta dagli scambi epistolari: cfr. Garciadiego, 1994, pp. 629ss). In conformità a questa veduta allora ampiamente condivisa, Cantor delinea, in una lettera a Dedekind del 1899, la costruzione di un sistema di “concetti” come possibile soluzione preventiva al formarsi di antinomie, che J. von Neumann, P. Bernays e K. Gödel traduranno, un trentennio più tardi, in teoria formalizzata (cfr. Bourbaki, Elementi di storia della matematica, Milano 1963, pp. 47ss): «Partendo dal concetto di molteplicità (sistema, aggregato) determinata di cose, mi si è presentata la necessità di distinguere due sorta di molteplicità (intendo sempre molteplicità determinate). Infatti una molteplicità può essere fatta in modo che l’ipotesi di un “essere-insieme” di “tutti” i suoi elementi porti ad una contraddizione cosicché è impossibile concepire la molteplicità come una unità come “una cosa compiuta”. Tali molteplicità le chiamo “assolutamente infinite” o inconsistenti. È facile convincersi che, per esempio, “l’aggregato di tutto il pensabile” è una tale molteplicità ... Se invece la totalità degli elementi di una molteplicità può venir pensata senza contraddizione come “con-essente”, zusammenseiend, allora la chiamo una “molteplicità consistente” o una Menge (in francese e in italiano questo concetto viene esattamente espresso con le parole “ensemble” e “insieme”)» (Casari, 1964, p. 57; le parentesi sono di Cantor). Così la matematica prende un assetto speculativo, che si ritrova nelle caratteristiche dell’insieme cantoriano, che possiede le tre seguenti proprietà (cfr. ibidem, pp. 21ss): A) “esistenza” in corrispondenza di ogni molteplicità di enti distinti caratterizzati da una condizione; B) “determinazione completa” da parte degli elementi della molteplicità corrispondente; C) “sostanzialità”, rispettivamente: a) “individuale” (possibilità di godere di attributi come ogni altro “individuo” e di essere, a sua volta, elemento di altri insiemi), e b) “indipendente” (dal modo e dal linguaggio in cui è definito).
Ma l’atteggiamento generale verso il problema dei “paradossi”, a cavallo della fine del secolo, stava cambiando profondamente. Nei Principles of Mathematics (1903), che formano una sorta di spartiacque tra le due tendenze, Russell, manifesta un atteggiamento ambivalente verso l’opera cantoriana. Da un lato una grande ammirazione: tutto il nucleo centrale del suo libro è ispirato ad essa. Dall’altro una ripulsa per la forma “concettuale” che ha assunto, responsabile, secondo lui, di contrabbandare all’interno della nozione “ingenua” di insieme, e quindi nella matematica, le contraddizioni insite nell’impianto della filosofia tradizionale: l’unica soluzione possibile, secondo Russell, sta nel sostituire alla filosofia l’analisi logica del linguaggio e lasciare che, una volta formalizzata, la matematica fondi se stessa. Il dibattito che seguirà per tutto il secolo ancora oggi non può dirsi concluso né per quanto riguarda la matematica né, tanto meno, per i suoi rapporti con la filosofia. La critica ha investito direttamente il nucleo del concetto cantoriano, perché qui si forma l’antinomia di Russell, identificandolo come “platonico”. Ma quando si parla di fondamenti della matematica, “platonismo” significa soprattutto possibilità di trattare un ente come oggetto unitario di pensiero, indipendente dal modo in cui è stato definito: nella Teoria degli insiemi, è il «principio di comprensione», unione di (A), condizione di “esistenza” di un insieme, e di (C), sua possibilità di appartenere, come elemento, ad altri insiemi “più grandi”. Un quadro sommario delle posizioni critiche, individuate in base alla caratteristica del concetto di insieme, ritenuta responsabile delle antinomie, si presenta così (da Casari, 1964, pp. 3-129; per le sigle vedi supra): A) come origine della proliferazione di molteplicità “antinomiche” (Russell, Zermelo) o come fonte di “circoli viziosi” (Quine, gli Intuizionisti; > Gödel, II.1); C) - a) come origine di insiemi patologici, alla base, anch’essi di antinomie (Cantor medesimo, von Neumann, Ackermann, Bernays, Gödel); C) - b) secondo Th. Skolem, porterebbe al relativismo (contro questa posizione si pronuncia Gödel; > Gödel, IV.1).
V. Riflessioni sull’infinito
Attribuendo l’origine delle antinomie, come faranno ancora Brouwer e Hilbert, alla mancanza di una corretta teoria dell’infinito, Cantor intraprende però una strada opposta a quella di Russell e qui, compiendo un’impresa notevole, esamina un numero impressionante di fonti filosofiche e teologiche. Vengono citati più di frequente ed esaminati con cura (da uno spoglio sommario dei Gesammelte Abhandlungen mathematischen und philosophischen Inhalts, 1932): Agostino, Aristotele, Bolzano, Kant, Leibniz, Platone, Spinoza, Tommaso d’Aquino. Inoltre, tra gli “scolastici”: Franzelin, Pesch, Suárez, Tongiorgi; tra i filosofi: Alberto di Haller, Bayle, Berkeley, Boezio, Fichte, Gerdil, Giordano Bruno, Hamilton, Hegel, Kant, Maignan, Nicola da Cusa, Origene, Pitagora, Schelling, Sesto Empirico, Thomasius; tra gli scienziati più antichi: Cavalieri, Euclide, Galilei, Guldino, Lagrange, Newton, Torricelli.
1. Aspetti filosofici. Le considerazioni sull’infinito in ambito filosofico si possono dividere in due gruppi. Il primo, favorevole all’infinito in atto, si può far risalire a Platone; il secondo, ostile, si rifà invece ad Aristotele. Di Platone Cantor scrive: «Teoria delle molteplicità (Mannigfaltigkeit). Indico con questo termine un concetto teorico molto comprensivo che finora ho cercato di elaborare solo nella forma specifica di una teoria aritmetica o geometrica degli insiemi. Per “molteplicità” o “insieme” (Menge) intendo infatti, in generale, ogni “Molti” che si possa pensare come “Uno”, ovvero ogni classe composta di elementi determinati che possa essere unita in un tutto da una legge, e credo di definire in questo modo qualcosa di affine all’eîdos o idéa di Platone, nonché a ciò che lo stesso Platone, nel Filebo “o del sommo bene”, chiama miktón. Egli contrappone questo miktón sia all’ápeiron, cioè all’illimitato e indeterminato, che io chiamo infinito improprio, sia al péras o limite, e lo descrive come una “ordinata mescolanza” dei due» (Saggi 1872-1883, a cura di G. Rigamonti, p. 127; cfr. anche Casari, 1964, p. 23). Infatti nel Filebo,al quale egli si riferisce, Platone distingue un primo genere di esseri preda dell’«illimitato e indeterminato» (Filebo 24e, 7 - 25a, 1), un secondo genere «limite» e «misura» (ibidem, 25a, 7 - 25b, 1), poi un terzo, «misto» (ibidem, 25e, 3-4): «Terzo genere […] non è soltanto una mescolanza di due certi elementi, ma è il genere di tutti gli elementi infiniti i quali siano stati legati dal finito» (ibidem, 27d, 7-9). Questo è, secondo Cantor, l’“insieme” che porta costitutivamente dentro di sé l’infinito. Resta il dubbio se la forza dirompente delle antinomie più gravi provenga semplicemente dall’indeterminatezza.
La posizione di Aristotele consente di completare il quadro complessivo, dando una risposta negativa all’ultimo quesito, corredata dalle relative ragioni. Cantor, che dipende per la sua interpretazione da E. Zeller (La Filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Lipsia 1869-1882, cap. II.2), si limita a registrare l’opposizione di Aristotele all’infinito in atto e ad osservare, in parte a ragione, che essa deriva dalla matematica coeva (vedi supra, II). Ma la posizione aristotelica è molto più articolata, perché comporta al di là dell’“indefinito” negativo e dissociante, che rientra nelle proprietà della materia (determinata per sua natura dalla forma), la scoperta di tutto un filone di antinomie che invece provengono da “totalità infinite” e “definite” perché compiute. Successivamente se ne individua la radice nell’essere in atto dell’infinito. Si conclude allora che esso in natura non si dà “separato”, esistente. Ma Aristotele non nega a priori l’“infinità”, anzi usa ampiamente, in relazione al tempo e al continuo (in subordine, per discutere i paradossi di Zenone), una sua versione “aporetica”, senza specificare se “in atto” o “in potenza” (cfr. Fisica,III, 4-8; VI, 2-7). Quest’uso ricorda quello cantoriano, forse più di quanto lo stesso Cantor riuscisse ad avvertire: un processo infinito, qui di suddivisione, viene considerato “come” concluso ed identificato con l’insieme di “tutti” i suoi stadi (si veda l’applicazione alla suddivisione del continuo: supra, III). Questo per Aristotele può avvenire, perché l’essere umano ha nell’attività di per sé “senza fine” del proprio intelletto quella stretta connessione con l’infinito che gli rende possibile “pensarlo”, anche in atto (cfr. Fisica, III, 4; cfr. Tommaso d’Aquino, In Physicorum, III, lect. 7). D’altra parte la dottrina aristotelica dell’infinito potenziale presenta qualche anomalia, perché a differenza degli altri enti che, in natura, sono in potenza, esso non si attua mai: Tommaso d’Aquino, dà la soluzione, ma nota la difficoltà (cfr. Summa theologiae, I, q. 7, a. 4, ob. 1a e ad 1um) e pur ribadendo la dottrina tradizionale, aggiunge alcune prospettive complementari di grande interesse (cfr. De Veritate, q. 2, a. 9, resp.; Quaestiones Quodlibetales, I, q. 9, a. 1).
2. Aspetti teologici. L’infinito in atto concepito in stretta dipendenza dagli attributi divini, ripensati dalla teologia ebraica, cristiana e islamica durante tutto il medioevo, entrerà nel patrimonio comune della cultura moderna, anche quando sarà negato. Esso manterrà sempre alcune caratteristiche teologiche anche se in forme latenti o depauperate. Così sarà per la caratteristica aristotelica totalizzante spesso usata con intenti opposti a quelli originari, come farà G. Bruno. L’infinito in atto sarà operante nella costituzione di concetti nei campi più disparati: dalla fisica, dove l’Universo, da Newton ai predecessori di Einstein, è una Totalità infinita, fino alla filosofia dell’Idealismo trascendentale, dove sono tali gli Ideali o la Storia. Ma con l’eccezione di poche suggestioni sparse (B. Cavalieri, G. Galilei, G.W. Leibniz, N. Cusano), secondo Cantor soltanto Bernard Bolzano (1781-1848) costruirà una vera teoria dell’infinito attuale, sia pure da emendare e integrare. Però la teologia, alla fine del XIX secolo, è prevalentemente scolastica. E qui il problema dell’infinito attuale lo si incontra principalmente in “luoghi” quali la natura angelica, l’immortalità dell’anima, la conoscenza che Dio ha di tutti gli enti possibili, la scienza di Cristo. Mentre quasi tutti gli autori noti a Cantor escludono dalla realtà fisica l’infinito in atto (e che Dio possa crearlo) essi mantengono aperta la discussione sulla possibilità di concepirlo in alcune situazioni-limite. La prima è la “totalità degli atti” di angeli e uomini (dotati dalla creazione, di anima immortale e, dopo la resurrezione, di corpi incorruttibili) che potrebbe essere un esempio di infinito in atto distinto da Dio. Le altre situazioni sono più complesse.
Cantor naturalmente non ne esplora nei dettagli tutti i risvolti teologici, ma trova un loro dossier abbastanza completo, con il punto sulla situazione, nel trattato teologico di G.B. FranzelinDe Deo Uno Secundum Naturam (Romae, 18833, Thesis XLI, pp. 408-415) al quale qui ci atteniamo come alla fonte coeva più autorevole per Cantor, che riporta le dottrine dei principali autori che se ne sono occupati. La scienza che Dio ha dei possibili, poiché la conoscenza divina non può essere una somma di atti distinti sempre imperfetti, sembrerebbe richiedere che la loro totalità, che Dio non può non conoscere, per essere colta in un atto unico debba costituire un insieme infinito in atto, “categorematico”, cioè non solo senza limite, ma che superi ogni limite. La soluzione del Franzelin è quella classica: l’unicità (e la perfezione) dell’atto con cui Dio conosce non richiede l’unicità (e la perfezione) di ciò che è conosciuto, altrimenti Egli non potrebbe conoscere nulla di quel che accade nell’Universo. Ma oltre a questa conclusione negativa, Cantor può trovarne una positiva nella interpretazione che Suárez dà della scienza che Cristo ha della “totalità degli atti” delle creature razionali. Se si considera la reale esistenza dei termini della serie che essi formano come atti “passati”, in se stessa essa si deve intendere come infinita in senso sincategorematico, cioè come una successione “senza limite”. Ma se si considerano i termini in quanto conosciuti insieme, nella visione eterna, allora essi formerebbero un insieme infinito categorematico, positivo, nella visione di Dio che è semplice. Poiché Suárez conclude che la distinzione tra i due è più de nomine che de re (cfr. Franzelin,cit., pp. 412-413), ecco un caso di infinito attuale. Ma in quale senso va intesa la sua realtà, come quella degli altri casi “teologici”?
3. Un bilancio conclusivo. Cantor certamente si pose almeno il problema: il suo «realismo logico e forse ontologico» di tipo “platonico” non gli impediva di praticare «un realismo gnoseologico di chiara ispirazione aristotelica» (Casari, 1964, p. 27) che lo portava a concepire due “generi” di realtà, una «intrasoggettiva o immanente» nel pensiero (contro lo “psicologismo”: > Gödel, IV.3), i cui soli criteri di esistenza sono non-contraddittorietà e coerenza, e perciò egli poteva dichiarare che «l’essenza della matematica […] sta nella sua libertà»; l’altra «transoggettiva o transiente» nella natura corporea e spirituale, il cui «accertamento», egli afferma, non è compito della matematica ma «fra i compiti più faticosi e difficili della metafisica» (Saggi 1872-1883, a cura di G. Rigamonti, 1992, pp. 97-99) e forse della teologia. Tenendo conto di ciò, la mappa cantoriana dell’infinito si fonda sull’opposizione indeterminato/determinato e, solo secondariamente, su quella finito/infinito. Si distinguono allora: a) l’assolutamente indeterminato, o infinito inconsistente (il «cattivo» infinito, per es.: «L’insieme di tutto ciò che è pensabile», vedi supra, IV); b) le molteplicità determinate e “finite”; c) il “finito” iterato, infinito potenziale, improprio, ma non «cattivo» (contro Hegel), importantissimo in analisi matematica; d) le molteplicità «infinite ben determinate», come i transfiniti; ed infine e) Dio, assolutamente infinito.
Autore prediletto da Cantor, anche se nemico dichiarato dell’infinito attuale in Natura, Spinoza (1632-1677) fornisce un modo per salvaguardare, se non la trascendenza, l’assolutezza di Dio: l’infinito numero dei Suoi attributi, ciascuno dei quali è a sua volta infinito (cfr. Ethica, I, def. 6), supera di gran lunga le possibilità dell’essere umano, che pure esiste proprio grazie all’Infinito e nell’Infinito. Davanti a simili percorsi, al loro intrecciarsi con problematiche tanto lontane dalla matematica, si possono comprendere bene le riserve di gran parte dei logici del XX secolo, che forniscono utili deterrenti contro un concordismo immediato fra scienze, filosofia e teologia. Ma quando Gödel, forse il più grande logico contemporaneo, dopo aver sancito “logicamente” il fallimento della prospettiva russelliana, si dedica, nella seconda parte della sua vita, alla filosofia ed alla teologia, senza abbandonare né l’impegno logico né quello matematico, facendo professione, in fondo, di “cantorismo”, ci si può legittimamente chiedere se, con le necessarie cautele, non sia inevitabile seguire ancora, in futuro, la via aperta tra tante fatiche e sofferenze, dal genio di Georg Cantor su quei difficili confini che distinguono, ma proprio per questo uniscono, matematica, filosofia e teologia.
Opere di G. Cantor: Gesammelte Abhandlungen mathematischen und philosophischen Inhalts (1932), a cura di E. Zermelo, Springer, Berlin 1980; Contributions to the Founding of the Theory of Transfinite Numbers (1915), a cura di Ph.E.B. Jourdain, Dover, New York 1965; La formazione della teoria degli insiemi. Saggi 1872-1883, a cura di G. Rigamonti, Sansoni, Firenze 1992.
Altre opere: E. CASARI, Questioni di filosofia della matematica,Feltrinelli, Milano 1964; B. BOLZANO, I paradossi dell’infinito (1851), Feltrinelli, Milano 1965; H. MESCHKOWSKI, Cantor George, in DSB, vol. III, 1972, pp. 52-58; C. MANGIONE, Logica e problema dei fondamenti nella seconda metà dell’Ottocento, in “Storia del pensiero filosofico e scientifico”, a cura di L. Geymonat, Garzanti, Milano 1976, vol. V, pp. 786-807; W. SIERPINSKI, Cardinal and Ordinal Numbers (1958), inOeuvres choisies, vol. III: Théorie des ensembles et ses applications. Travaux des années 1930-1966, PWN, Warsaw 1976;E. PICUTTI, Sul numero e la sua storia,Feltrinelli, Milano 1977; P. THUILLER, Dieu, Cantor et l’infini,“La Recherche” n. 84, Dicembre 1977, pp. 1110-1116; U. BOTTAZZINI, Il calcolo sublime: storia dell’analisi matematica da Euler a Weierstrass, Boringhieri, Torino 1981;W. PURKERT, H.J. ILGAUDS, Georg Cantor: 1845-1918, Birkhäuser, Basel 1987; C.B. BOYER, Storia della matematica (1968), Mondadori, Milano 1990; J.W. DAUBEN, Georg Cantor: His Mathematics and Philosophy of the Infinite (1979), Harvard Univ. Press,Cambridge (MA) 1990;P.J. COHEN, R. HERSH, Teoria non cantoriana degli insiemi, in “Logica - I Quaderni di Le Scienze”, a cura di C. Mangione, Milano 1991, pp. 42-51; G. BINOTTI, La metafisica e il sapere, “Divus Thomas” 6 (1993), n. 3, pp. 159-189; I. GRATTAN-GUINNESS (a cura di), Companion Encyclopedia of the History and Philosophy of the Mathematical Sciences,Routledge, London-New York 1994; J. DAUBEN, Set theory and point set topology, in ibidem, pp. 351-359; A.R. GARCIADIEGO, The set-theoretic paradoxes,in ibidem, pp. 629-634; J. FERREIRÓS, Labyrinth of Thought. A History of Set Theory and its Role in Modern Mathematics, Birkhäuser, Basel 1999.