I. I molti volti di Leibniz - II. Unità nella molteplicità - III. Il Dio dell’universo leibniziano - IV. Il rapporto fede-ragione, rivelazione-sapere - V. Il “senso del mistero” nel pensiero di Leibniz.
I. I molti volti di Leibniz
1. Cenni biografici. Leibniz è noto ai più innanzi tutto come filosofo. Se da una parte questa caratterizzazione corrisponde a verità, in quanto è in ultima analisi il pensiero filosofico a dare unità alla molteplicità delle imprese e degli interessi leibniziani, dall’altra la filosofia, anche intesa in senso lato, è ben lontana dall’essere l’unica, né la principale, attività di Leibniz. In questo rispetto, più che rappresentare un’eccezione, Leibniz è piuttosto l’iperbolico esempio dell’intellettuale del XVII secolo: il savant. In un epoca in cui le barriere disciplinari odierne erano ancora in via di formazione, il pensatore tedesco gioca un ruolo centrale nel panorama intellettuale europeo del Sei-Settecento, contribuendo in modo eccezionalmente vario e originale al fecondo dialogo tra i diversi ambiti del sapere, i diversi credi religiosi, le diverse nazioni. L’ampiezza del respiro intellettuale leibniziano è riflessa nella grandissima varietà di interessi, la molteplicità di campi in cui risultati innovativi vengono raggiunti, la vastissima rete di contatti rappresentata, anche se non esaurita, dagli oltre mille corrispondenti sparsi da Madrid a Mosca, da Oxford a Pechino, da Napoli a Stoccolma, da Amsterdam a Sumatra.
Educato dal 1653 al 1661 alla Nikolai-Schule di Leipzig, la sua città natale, Leibniz si iscrive all’università seguendo il normale corso biennale comprendente filosofia, retorica, matematica, latino, greco ed ebraico. Durante il semestre estivo del 1663 studia all’Università di Jena, dove ha modo di approfondire le sue conoscenze matematiche sotto la guida del neopitagorico Erhard Weigel. Di ritorno a Leipzig, intraprende lo studio della giurisprudenza, trasferendosi però nel 1666 all’Università di Altdorf. Qui ottiene, l’anno seguente, il dottorato in legge. Declinata l’offerta di una cattedra, Leibniz muove alla volta della vicina Nürnberg, dove trova impiego come secretario di una società di alchimisti. Proprio l’interesse per l’alchimia lo spinge, nell’autunno del 1667, a mettersi in viaggio per l’Olanda. Il suo itinerario è però molto più breve del previsto: un’epidemia di peste lo ferma infatti a Mainz. Il forzato cambiamento di programma è destinato a segnare una svolta nella vita del giovane Leibniz. Egli entra infatti in contatto con il barone Johann Christian von Boineburg, prominente personaggio alla corte dell’Elettore di Mainz, Johann Philipp von Schönborn. Boineburg, colpito dall’eccezionale erudizione e intelligenza del giovane, lo prende sotto la sua protezione, introducendolo nel circolo di Johann Philipp von Schönborn con incarichi giuridici. L’influenza di Boineburg, convertitosi dal luteranesimo al cattolicesimo nel 1653, e la frequentazione della corte cattolica di Mainz, giocano un ruolo fondamentale nella maturazione dell’attitudine ecumenica del giovane luterano, gettando i semi di quell’instancabile lavoro in vista della riunificazione delle chiese cristiane che segnerà l’intera vita di Leibniz. Il lavoro a fianco di Boineburg lo introduce inoltre nei complessi meandri della diplomazia e della politica dei frammentati stati tedeschi. Sono proprio la diplomazia e la politica a portarlo a Parigi, con un piano concepito di concerto con Boineburg e volto a convincere il “re sole”, Luigi XIV, a spostare le mire espansionistiche francesi dal Nord Europa all’Egitto.
Se, da una parte, la missione diplomatica si risolve in un completo fallimento, dall’altra il periodo parigino (1672-1676), coronato da due visite a Londra (1673 e 1676) e una in Olanda (1676), segna un altro momento chiave nella formazione di Leibniz. Il giovane tedesco ha modo di entrare in contatto con i più prestigiosi e avanzati circoli filosofici, scientifici e matematici europei. Sotto la guida in particolare di Christiaan Huygens (1629-1695), fa enormi progressi in matematica e fisica. A Londra, già in occasione della prima visita nel 1673, viene eletto fellow della Royal Society sulla base dei suoi lavori in fisica e della presentazione di un innovativo calcolatore. Il successo londinese non è però seguito dall’avverarsi della speranza leibniziana di essere chiamato a succedere al matematico Gilles Personne de Roberval presso la parigina Académie royale des sciences. Sfumate le prospettive di un posto di ricerca legato all’accademia, il Nostro si trova costretto ad accettare il posto di consigliere di corte e bibliotecario offertogli dal duca di Hannover. Lascia Parigi nell’ottobre del 1676, tornando però alla terra natale per una via tutt’altro che diretta. Passa infatti per Londra e per l’Olanda, dove incontra, tra gli altri, Baruch Spinoza (1632-1677) e Antonie van Leeuwenhoek (1632-1723), autore di pionieristici studi con il microscopio. Di ritorno in Germania, porta con sé un immenso bagaglio di nuove conoscenze e contatti con i personaggi più prominenti del mondo scientifico e filosofico europeo.
È nel dicembre del 1676 che ha inizio il suo lavoro alla corte del duca di Hannover, Johann Friedrich von Braunschweig-Lüneburg. Al servizio dei vari rami della famiglia Braunschweig, presso le corti di Hannover, Wolfenbüttel, Braunschweig, Celle e Berlino, Leibniz rimane per i restanti quarant’anni della sua vita, ricoprendo vari incarichi tra i quali quello di consigliere di corte in materie legali, diplomatiche e politiche, di direttore di due importanti biblioteche (la biblioteca ducale di Hannover e, partire dal 1690, la Bibliotheca Augusta di Wolfenbüttel), di supervisore dei lavori di drenaggio dell’acqua dalle mine dello Harz e, dal 1686, di storico della stirpe dei Guelfi, di cui è parte il casato Braunschweig. Sulle tracce dei Guelfi, Leibniz intraprende un lungo viaggio che lo porta nel sud della Germania, in Austria e in Italia (1687-1690). Per lunghi periodi soggiorna a Vienna, stringendo rapporti con la corte imperiale, e a Roma, dove ha modo di essere introdotto alla corte papale. Di ritorno in Germania, lavora attivamente alla creazione di una rete di accademie delle scienze, divenendo presidente di quelle di Berlino (1700), Dresden (1704) e Vienna (1713). Tra il 1711 e il 1716 ha intensi contatti con lo zar di Russia, Pietro il Grande, al quale propone, tra l’altro, la creazione di un’accademia delle scienze a s. Pietroburgo. Se l’accademia vedrà la luce solo dopo la morte di Leibniz, il Nostro ottiene però, presso la corte dello zar, l’incarico ufficiale di consigliere in materie matematiche e scientifiche. Dopo quasi due anni passati alla corte imperiale viennese (dicembre 1712-settembre 1714), viene richiamato a Hannover dalla notizia della successione al trono inglese del suo principale patrono, l’Elettore di Hannover Georg Ludwig. Partito con la speranza di poter seguire il nuovo re d’Inghilterra, all’arrivo a Hannover scopre che la corte ha lasciato la città tre giorni prima. Trascorre gli ultimi due anni di vita in solitudine a Hannover, dove muore nel 1716.
2. Gli interessi scientifici, filosofici, politici. Se la vita di Leibniz esemplifica una notevolissima varietà di interessi e attività, ancora più eccezionali sono l’originalità che egli manifesta in una serie di campi del sapere e la sua incomparabile capacità di assorbire le mille voci della tradizione, rielaborandole in una potente e innovativa sintesi.
Leibniz non è ancora trentenne quando, nel 1675, inventa, indipendentemente da Newton (1642-1727), il calcolo infinitesimale, destinato ad avere un enorme impatto in matematica e in fisica. Sebbene Newton arrivi alla determinazione del calcolo in epoca appena precedente, è Leibniz che pubblica per primo la scoperta con un articolo apparso nel 1684 sulla rivista Acta Eruditorum. Prescindendo dalla successiva acre polemica circa la priorità dell’invenzione e dalle accuse di plagio scagliate contro Leibniz dal circolo dei newtoniani, è certamente Leibniz a introdurre la chiara notazione algebrica e la terminologia tuttora in uso. Il calcolo non è però il solo insigne contributo di Leibniz alle scienze matematiche: sempre durante il periodo parigino, egli è uno dei primissimi a concepire un’aritmetica binaria, anticipando l’era dei computer tramite una prima, per quanto ancora molto rudimentale, applicazione della sua scoperta alla macchina calcolatrice. Nel 1679, in risposta alla geometria analitica cartesiana, propone un nuovo tipo di topografia, battezzata analysis situs. Come spesso accade con le invenzioni leibniziane, si tratta però di una scoperta troppo avanzata per essere compresa. Verrà ripresa solo nel XIX secolo per diventare una teoria di centrale importanza per la geometria non euclidea.
Le stesse eccezionali capacità di anticipazione dei tempi e di innovazione si riscontrano nell’apporto leibniziano alla fisica. In polemica ancora una volta con Cartesio (1596-1650), egli contribuisce al chiarimento del fondamentale concetto di forza (anche se le sue conclusioni sono ancora inesatte rispetto alla sistemazione definitiva della meccanica newtoniana come la conosciamo oggi). Tale nozione, sostiene Leibniz, non va identificata (come proposto da Cartesio) con la quantità di moto data dal prodotto di massa e velocità, mv. La forza è invece, secondo Leibniz, proporzionale al prodotto tra la massa e il quadrato della velocità, mv2. È quest’ultima quantità, denominata da Leibniz vis viva, a essere conservata, secondo lui in natura, e non, come voleva Cartesio, la quantità di moto (cfr. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Torino 1968, vol. II, p. 194). Solo più tardi si è compreso che la forza newtoniana non si può identificare né con la quantità di moto, né con la “forza viva”, che oggi, proprio per evitare equivoci, si preferisce ormai universalmente denominare “energia cinetica”.Anche la meccanica newtoniana lo lascia d’altra parte insoddisfatto. Ancora anticipando i futuri sviluppi della fisica, Leibniz sostiene che la cinematica (ovvero lo studio del moto) elaborata da Newton deve essere affiancata dallo studio delle forze (dinamica). A questo studio egli stesso si applica attivamente, lasciando ai posteri diversi abbozzi della sua dinamica. Arriva così alla conclusione che la materia va ridotta a un complesso di forze, precorrendo i risultati della moderna teoria dei campi in cui le particelle materiali vengono considerate come campi di forza concentrati. Ulteriore anticipazione della fisica moderna è la convinzione della relazionalità di spazio e tempo, tenacemente difesa nel 1715-1716 contro il portavoce di Newton, Samuel Clarke (1675-1729).
Il contributo di Leibniz alla scienza e alla tecnologia non si ferma qui, ma si estende a una varietà di altri aspetti. Per citare solo qualche esempio, oltre a lavorare per tutta la vita al miglioramento della sua macchina calcolatrice, egli è tra i primi a comprendere la correlazione tra tempo e pressione atmosferica, inventa il primo barometro aneroide, disegna un prototipo della moderna pompa rotante, studia la formazione di fossili e minerali, intuisce la possibilità di sfruttare la forza del vento e dell’acqua e raccoglie dati in vista della determinazione del grado di latitudine attraverso l’inclinazione dell’ago magnetico.
In qualità di bibliotecario, archivista e storiografo, migliora i metodi di catalogazione, stende comprensive bibliografie di opere essenziali per la creazione di una biblioteca universale, propone di stabilire un archivio centrale di stato, pubblica voluminose documentazioni pertinenti la stirpe dei Guelfi, accompagnando il lavoro con preziosi commenti sulla teoria e metodo della storiografia e sull’edizione delle fonti. Ancora più notevoli sono i numerosi studi linguistici, comprendenti pionieristiche ricerche etimologiche e saggi sull’origine e sulla struttura di un ventaglio di idiomi che va dal cinese alle lingue slave.
A tutto questo si affianca un’intensa attività politica, diplomatica e giuridica. Fin dal periodo di Mainz, il problema della divisione tra le chiese cristiane gli sta particolarmente a cuore. Leibniz si adopera instancabilmente nell’opera di riunificazione, partecipando in prima persona a una serie di trattative e lavorando alacremente alla formulazione di un originale sistema teologico che potesse essere accettato dalle maggiori confessioni cristiane, grazie al raggiungimento del difficile equilibrio tra il bisogno di una precisa dogmatica e la necessità di trovare punti di incontro sulle materie controverse. Il lavoro politico e diplomatico si allarga però anche a una serie di materie più mondane, quali, ad esempio, la proposta di un sistema sanitario pubblico, l’introduzione di una banca di stato, di un servizio antincendio, di assicurazioni sulla vita, di una pubblica illuminazione delle strade e così via. La sua educazione giuridica lo rende d’altra parte, per i suoi patroni, un preziosissimo consigliere in materie complesse e delicate quali la ricodificazione delle leggi germaniche o la questione del grado di sovranità degli stati tedeschi nel contesto del Sacro Romano Impero. Una volta di più, Leibniz produce in questi ambiti idee anticipatrici di una serie di sviluppi futuri.
Un ultimo esempio di questa capacità di precorrere i tempi, è la fondamentale importanza assunta dalla logica nel sistema leibniziano. È questo un caso particolarmente significativo in quanto illumina un altro tratto caratteristico del pensiero leibniziano: il profondo apprezzamento del patrimonio proveniente dal passato, coniugato con un’originale rielaborazione in un’innovativa sintesi. Leibniz non ha mai condiviso il disprezzo di F. Bacone, Cartesio e Locke per l’aristotelismo e la scolastica. Al contrario, nel 1669 scrive al maestro Jakob Thomasius di aver trovato più verità nella Fisica di Aristotele che nelle Meditazioni di Cartesio. Già da ragazzo trascorre ore riflettendo su come migliorare le categorie aristoteliche e ricorda di aver provato grande piacere nello studio di autori aristotelici e scolastici quali Giacomo Zabarella, Pedro Fonseca e Francisco Suarez. Sulla scia di questa tradizione, vede, ben al di là di altri grandi pensatori del Sei-Settecento, l’importanza degli strumenti volti a garantire la validità e la correttezza del ragionamento, come testimoniano il suo apprezzamento per la logica classica e gli innumerevoli studi volti all’elaborazione e al perfezionamento di una logica combinatoria e di una logica della possibilità. La logica sta però alla base del sistema leibniziano anche nel senso più ampio di una moderna teoria sulla natura delle proposizioni e della verità. Proprio l’originalità e la fecondità della logica leibniziana è probabilmente la principale ragione all’origine della forte rinascita dell’interesse per il pensiero di Leibniz registratosi nel XX secolo. Le questioni, discusse da Leibniz, riguardanti possibilità, necessità, contingenza, identità, libertà e mondi possibili, stimolano infatti l’interesse e provvedono ispirazione per rappresentanti di punta della logica moderna quali Gottlob Frege, Bertrand Russell e Saul Kripke.
Va però subito aggiunto che la logica è per Leibniz “specchio” della realtà, nel senso che i princìpi che provvedono la fondazione di logica e metafisica sono gli stessi. Sono il principio di identità/non contraddizione e il principio di ragion sufficiente a enunciare le fondamentali caratteristiche che ogni realtà deve avere. Su di essi Leibniz costruisce una metafisica che rappresenta una potente, teistica spiegazione della struttura dell’universo e della natura della sostanza capace di evitare, da una parte, il dualismo cartesiano, dall’altra, il monismo panteistico di stampo spinoziano. In questo sistema, mille voci — da Platone ad Aristotele, da Pitagora a Plotino, dagli Stoici a Epicuro, da Agostino a Tommaso, dalla scolastica alle filosofie rinascimentali — convergono, riemergendo rimodellate in una profonda, per quanto stratificata, unità, il cui sfondo è costituito da una tradizione cristiana riletta in luce ecumenica.
II. Unità nella molteplicità
Il caleidoscopio di attività e interessi che caratterizza la vita di Leibniz si sposa, guardando al suo pensiero, con il fermo convincimento dell’unità del sapere. La molteplicità, egli sempre ritiene, può e deve essere ricondotta a unità e solo in essa trova il suo senso ultimo. Ultimo Universalgelehrte, Leibniz segna uno spartiacque tra l’ideale dell’unità del sapere condiviso dalle precedenti generazioni e la moderna, crescente specializzazione disciplinare. Ironicamente, egli finisce per contribuire a quest’ultima, tramite i suoi numerosi contributi in una varietà di campi. Il suo resta tuttavia l’ultimo grande tentativo volto a presentare un’universale sintesi delle conoscenze, sulle orme di una tradizione enciclopedica e pansofica fiorita in Europa centrale nelle generazioni immediatamente precedenti. Se tale tentativo fallisce, scontrandosi con la dura realtà della sua crescente impraticabilità in un’epoca di enorme accelerazione del progresso scientifico e dell’accumulazione delle conoscenze, l’idea dell’unità del sapere conserva il suo valore quale profondo convincimento che le diverse conoscenze, provenienti da ambiti con fini e metodi disparati, possano e debbano integrarsi nell’unità del sistema intellettuale e morale di una persona. Quest’ultimo aspetto dell’unità del sapere trova certamente compimento in Leibniz, come mostra la chiara convergenza dei suoi sforzi in una molteplicità di campi verso un progetto unificante che rappresenta, al tempo stesso, una visione metafisica della realtà e un ideale morale verso cui indirizzare l’attività pratica.
Il grande progetto di Leibniz è la creazione di un’enciclopedia “dimostrativa” o “combinatoria”. Questo piano onnicomprensivo viene concepito nella giovinezza come Demonstrationes Catholicae, in seguito come Scientia Generalis, quindi, negli ultimi anni, come Éléments de la philosophie générale et de la théologie naturelle. In sostanza si tratta dello stesso sogno, tenacemente perseguito nel corso di tutta la vita: il sogno della riduzione della molteplicità della conoscenza umana a un’unità logica, metafisica e pedagogica, centrata intorno agli insegnamenti chiave della teologia cristiana. Letti alla luce di questo programma, molti dei frammenti e degli abbozzi dello sterminato Nachlaß leibniziano prendono una forma sorprendentemente coerente. Diventa chiaro come Leibniz stesse preparando materiale e suggerendo passi concreti in vista della realizzazione della sua grande sintesi.
Il primo passo doveva essere l’inventario completo degli elementi fondamentali alla base del crescente patrimonio di conoscenze, perseguibile attraverso il sistematico studio dei migliori lavori dei più autorevoli autori in ogni campo. Tramite gli sforzi comuni di gruppi di studiosi organizzati nelle accademie delle scienze, sarebbe possibile, secondo Leibniz, giungere a un completo catalogo delle cruciali definizioni e dei teoremi a fondamento delle varie scienze. Il passo successivo richiederebbe la riduzione di queste proposizioni fondamentali dall’ambiguità del linguaggio naturale alla loro forma elementare. Il necessario strumento di questa riduzione verrebbe a essere costituito da un linguaggio filosofico universale esprimibile tramite una notazione formale; in altre parole, sarebbe necessario sviluppare quella che Leibniz chiama characteristica universalis. Una volta raggiunto questo obiettivo, tutte le verità potrebbero essere scoperte combinando gli “elementi dimostrativi” della conoscenza secondo le regole di una nuova logica: l’ars combinatoria o ars inveniendi et judicandi. Il risultato sarebbe la Scientia Generalis, una scienza generale comprendente tutta la conoscenza presente insieme ai metodi della sua scoperta nel passato e a quelli del suo sviluppo futuro.Lo scopo della nuova enciclopedia dimostrativa sarebbe quello di esporre sistematicamente questa Scientia Generalis.
Il fine ultimo del progetto non è però, come si è anticipato, esclusivamente teoretico. Fedele al suo motto theoria cum praxi, Leibniz concepisce l’enciclopedia dimostrativa come un potente strumento di pace e riconciliazione. La characteristica universalis e l’ars inveniendi et judicandi provvederebbero infatti il metodo per la soluzione di controversie politiche e religiose. Per mezzo loro sarebbe pertanto possibile, in primo luogo, chiarire i termini del problema e, in secondo luogo, “pesare” le ragioni delle parti opposte, raggiungendo un accordo in cui tutti gli esseri razionali si troverebbero a consentire. L’opera necessaria per la realizzazione dell’enciclopedia combinatoria verrebbe perciò a coincidere con il lavoro verso l’ideale ecclesiale dell’unità, l’ideale politico della pace e l’ideale morale della virtù e felicità di tutti gli esseri umani.
Questo grande progetto trova però la sua giustificazione ultima a livello metafisico, sul piano cioè della concezione leibniziana della realtà. Leibniz indica con il nome di “monade” — vale a dire «unità» o «ciò che è uno» (Principes de la Nature et de la Grace, fondés en raison, 1714, § 1) —, la fondamentale realtà metafisica di cui tutto l’universo è fatto. Le monadi sono sostanze semplici, individuali e inestese, costituenti il principio di unità di ogni cosa. A sua volta, ciascuna monade è “specchio” dell’intero universo: ciascuna monade riflette dal suo peculiare punto di vista l’intero universo, in perfetto accordo o armonia con le rappresentazioni di tutte le altre monadi. In altre parole, in ciascuno di questi “atomi metafisici”, costituenti tutta la realtà, la molteplicità dell’universo è ricondotta a unità. D’altra parte, anche la molteplicità delle monadi è ricondotta a unità grazie all’armonia o accordo stabilito da Dio fin dal principio tra le rappresentazioni di tutte le monadi. Al livello strutturale più profondo, il mondo è dunque caratterizzato da quella che Leibniz chiama “armonia universale”, vale a dire, dall’unità nella molteplicità, dalla diversità compensata dall’identità (diversitas identitate compensata). L’enciclopedia combinatoria è in ultima analisi possibile proprio in quanto è pictura mundi, rappresentazione cioè di questo universo profondamente caratterizzato da unità nella molteplicità. È infatti a causa di questa struttura metafisica, in cui tutte le cose sono intimamente correlate, che l’intera molteplicità e varietà della conoscenza umana può, secondo Leibniz, essere ridotta all’unità dell’enciclopedia. In quanto pictura mundi, questa perfetta enciclopedia verrebbe dunque a essere costituita da un’armonia di pensieri che rifletterebbe, a livello gnoseologico, la metafisica armonia universale governante il mondo secondo l’eterno disegno divino. Conoscere il sistema del mondo ci condurrebbe infine alla suprema felicità, in quanto riconosceremmo che grazie alla perfetta armonia stabilita fin dal principio da Dio nell’universo, tutto è stato fatto nel miglior modo possibile. Non potremmo dunque concludere altro, se non che questo è il migliore dei modi possibili, proprio in virtù del fatto di essere stato scelto da Dio, onnipotente, onnisciente e supremamente buono, tra gli infiniti mondi possibili. Su questo fa leva la grande difesa di Dio, intentata da Leibniz nella Teodicea (1710), dall’accusa di aver voluto il male nel mondo.
III. Il Dio dell’universo leibniziano
La concezione leibniziana della realtà è dunque una concezione indubbiamente teista. L’universo, così come si dispiega ai nostri occhi, rivela e richiede Dio come suo creatore e supremo monarca. Che dire allora della pesante accusa lanciata dal newtoniano Samuel Clarke nel famoso scambio epistolare che lo oppone a Leibniz tra il 1715 e il 1716, secondo cui Dio sarebbe in effetti escluso dall’universo leibniziano? Leibniz, presentando Dio come un bravo orologiaio, capace di costruire il meccanismo del mondo in modo così perfetto da non richiedere successivi interventi e aggiustamenti, avrebbe aperto le porte al naturalismo, vale a dire alla tesi dell’indipendenza della natura da Dio, avente come estrema conseguenza niente meno che l’ateismo. Il Dio leibniziano, incalza Clarke, somiglia a un monarca che è re solo di nome e non di fatto, in quanto non interviene per nulla negli affari del suo regno. Newton, al contrario, sostenendo la necessità di un continuo, diretto intervento di Dio per il buon funzionamento della macchina del mondo, restaurerebbe l’assoluta sovranità di Dio nell’universo.
La ferma risposta di Leibniz mostra l’infondatezza dell’accusa di Clarke. In primo luogo, fa notare Leibniz, se l’orologio del mondo avesse bisogno di essere continuamente modificato e ricaricato, rivelerebbe non il Dio onnipotente e onniscente della tradizione cristiana, bensì un imperfetto artefice, un incapace orologiaio sempre costretto a correre ai ripari. In secondo luogo, il fatto che Dio abbia costruito un buon meccanismo non significa che il mondo possa fare a meno di Lui. Al contrario, abbracciando una tradizionale dottrina di origine tomista, Leibniz sostiene che il mondo ha la necessità di venire continuamente conservato nell’essere da parte di Dio. In sostanza, lungi dall’aprire le porte all’indipendenza della natura da Dio tramite la negazione di continui, straordinari interventi divini per il buon funzionamento dell’orologio del mondo, Leibniz sposta la dipendenza dell’universo da Dio dal piano fisico a quello metafisico. Viene così proposta una dipendenza molto più robusta di quella suggerita da Clarke, in quanto si tratta di radicale dipendenza ontologica: è l’essere stesso delle cose, sia potenziale che attuale, a richiedere Dio. Con questa mossa, Leibniz non solo dà scacco matto a Clarke, costretto, se non proprio a sonoramente ritrattare, quanto meno a mettere in sordina la sua accusa. Il Nostro indica anche il percorso verso un’affermazione dell’autonomia del mondo e dei sui meccanismi che non significa indipendenza da Dio, bensì distinzione di piani: l’uno fisico, l’altro metafisico.
La stessa, fondamentale, tesi metafisica della radicale dipendenza ontologica degli enti (compresi gli enti logici e gli enti possibili) da Dio, emerge da una delle prove dell’esistenza di Dio proposte da Leibniz — la prova di origine agostiniana ex veritatibus aeternis — e, più in generale, dalla famosa dottrina leibniziana secondo cui le essenze delle cose si trovano nell’intelletto divino. Per “essenze delle cose” Leibniz intende le idee di cose possibili, vale a dire le idee di individui che sono possibili. Queste idee, come tutte le idee, non possono esistere, per così dire, a mezz’aria, senza cioè essere pensate da qualcuno. Detto in termini leibniziani, le essenze o possibilità delle cose devono essere fondate in qualcosa di esistente o attuale. A loro volta, anche le verità necessarie che si possono enunciare intorno a queste essenze devono essere fondate in qualcosa di esistente. Trattandosi però appunto di verità “necessarie”, il loro fondamento non può essere dato che da un esistente necessario, ovvero da Dio. Dio è dunque la «radice della possibilità» (Specimen inventorum de admirandis naturae Generalis arcanis, in Die philosophischen Schriften, vol. VII, p. 311), vale a dire il fondamento ultimo delle essenze o delle nature delle cose grazie a cui queste sono possibili. L’argomento è complesso e può essere pienamente valutato solo alla luce dell’ancor più complessa ontologia leibniziana. Lo si è qui richiamato nei suoi tratti principali in quanto da esso traspare come la concezione leibniziana della realtà sia intessuta al livello ontologico più profondo della presenza di Dio e come sia di conseguenza improponibile la tesi insinuata da Clarke secondo cui Dio potrebbe tranquillamente essere eliminato dall’universo leibniziano senza che il grande orologio del mondo perda un colpo nel suo regolare ticchettio.
Ammettendo dunque che Dio sia richiesto dal sistema leibniziano, è però questo Dio, secondo Leibniz, il Dio cristiano? Altrimenti detto, il teismo leibniziano è, come è stato a volte suggerito, di carattere deista? Gli scritti di Leibniz certamente non giustificano una conclusione di questo genere. Al contrario, nel corso di tutta la vita, Leibniz difende in modo adamantino dottrine centrali e distintive della rivelazione cristiana quali la Trinità e l’Incarnazione. Nell'elaborazione di una sua teologia trinitaria e di una sua cristologia, ricostruibili sulla base di una serie di scritti frammentari e dell'Examen Religionis Christianae (Systema Theologicum) (ca. 1686), è chiaro come egli si muova all'interno della sia pur variegata ortodossia delle tre maggiori confessioni cristiane: la luterana (a cui egli ufficialmente appartiene), la riformata e la romano-cattolica.
Qual è la relazione tra questa presa di posizione in favore di una concezione trinitaria di Dio e la metafisica leibniziana? Innanzi tutto va rilevato come tracce della classica dottrina dell'analogia Trinitatis — secondo cui la natura trinitaria del Creatore è riflessa in quella delle sue creature, le quali manifestano per questo un ordine triadico analogo a quello delle tre persone della Trinità — si trovino disseminate lungo gli scritti di Leibniz: tanto è vero che persino alcuni aspetti centrali del pensiero metafisico leibniziano vengono occasionalmente presentati nei termini dell'analogia Trinitatis. Due esempi particolarmente rilevanti si trovano rispettivamente nell'Examen Religionis Christianae e nella Teodicea, dove la fondamentale distinzione tra essenza ed esistenza delle cose e la dottrina tradizionale che vede nella Trinità posse, scire e velle, vengono rilette l'una alla luce dell'altra. Nel caso dellaTeodicea, la discussione della dottrina manichea dei due princìpi offre a Leibniz anzitutto l’opportunità di riproporre la sua tipica soluzione al problema del male nel mondo basata sulla tesi secondo cui, mentre l’intelletto divino contiene le idee di infiniti mondi possibili, la volontà divina, tendente solo al bene, conferisce l’esistenza al nostro mondo proprio perché è il migliore dei mondi possibili; d’altra parte, ciò offre anche l’occasione per rileggere, forse meno familiarmente, questa stessa dottrina in un senso trinitario. Vi sarebbero davvero, argomenta Leibniz, due princìpi, presenti però entrambi in Dio: rispettivamente l’intelletto divino, luogo delle essenze o nature delle cose, e la volontà divina. A questi va aggiunto un terzo principio, la potenza divina: questa precede intelletto e volontà, ma agisce secondo quanto è mostrato dal primo e quanto è voluto dalla seconda. Ora, conclude qui Leibniz, si può vedere in questo un segreto rimando alla Trinità, in quanto la potenza si rapporta al Padre, l’intelletto al Figlio e la volontà allo Spirito Santo. L’approccio inverso si trova nell'Examen Religionis Christianae. In questo caso è la tradizionale distinzione tra posse, scire, velle nella Trinità a essere riletta alla luce della distinzione tra essenza delle cose (dipendente dall’intelletto divino) ed esistenza delle cose (dipendente dalla volontà divina). Una simile applicazione dell’analogia Trinitatis compare nella Monadologia (1714), dove Leibniz scrive (§ 48): «Vi è in Dio la Potenza, che è la sorgente di tutto, poi la Conoscenza, che contiene il dettaglio delle Idee, e infine la Volontà, che opera i cambiamenti o produzioni secondo il principio del Meglio. E ciò corrisponde a quanto nelle Monadi create costituisce il soggetto o la Base, la Facoltà percettiva e la Facoltà Appetitiva». Questa volta l’analogia è lasciata tacita, ma l’associazione di Padre, Figlio e Spirito Santo con potenza, conoscenza e volontà è un luogo comune così ben stabilito in teologia, da rappresentare — proprio qui, al cuore della metafisica leibniziana — una lampante allusione alla Trinità.
È però forse la concezione dell'armonia universale l'aspetto del pensiero leibniziano che sembra essere più profondamente connesso alla teologia trinitaria a cui egli aderisce. In diverse occasioni Leibniz arriva addirittura a identificare Dio e armonia universale o armonia delle cose. Il significato di questa identificazione viene alla luce attraverso un confronto tra alcune tipiche definizioni leibniziane di armonia e la terminologia da lui adottata per esprimere la natura trinitaria di Dio. Negli Elementa Juris naturalis (1670-1671) Leibniz scrive che l'armonia maggiore si trova dove la più grande diversità è ricondotta all'identità. Questa idea viene in seguito ulteriormente sviluppata in una serie di scritti in cui l’armonia è definita come unitas plurimorum o diversitas identitate compensata. Entrambe queste formulazioni possono essere messe in stretta relazione con la concezione leibniziana della Trinità. Nel caso di armonia come “unità del molteplice”, il linguaggio è molto simile. In scritti quali De Scriptura, Ecclesia, Trinitate (ca. 1680-1684) e Sceleton Demonstrationis (1695), il mistero trinitario è precisamente caratterizzato come in unitate pluralitatem. Nel caso poi della seconda formulazione, non è difficile sostenere che, se l’armonia è definita come diversitas identitate compensata, il più perfetto esempio di armonia è rappresentato proprio dalla tradizionale dottrina di una trinità di distinte persone in un'unica essenza. Nella Trinità, l'unità nella pluralità è così perfetta e la diversità delle persone, pur rimanendo tale, è così perfettamente compensata dall'identità dell'unica singolare essenza, da far sì che l’“entità” in questione superi i limiti dell'umana comprensione e si qualifichi quindi non come una dottrina della filosofia, bensì come un mistero della teologia. Anche cominciando dalla parte opposta dell'equazione — dalle formulazioni sviluppate per esprimere la dottrina trinitaria — si arriva a risultati strettamente connessi con la concezione leibniziana di armonia. Negli ultimi anni, Leibniz occasionalmente usa il termine teologico di perichoresis, impiegato dalla teologia patristica per indicare l’intima relazione tra le Persone trinitarie, per esprimere la sua concezione dell'armonia universale, secondo cui, nell’universo, tutte le cose sono in intima relazione con tutte le cose. Sembra dunque giustificato riconoscere la coerenza tra la concezione leibniziana della struttura metafisica dell’universo e la concezione trinitaria di Dio, distintiva della rivelazione cristiana, a cui egli esplicitamente aderisce (Ú Dio, IV.2).
IV. Il rapporto fede-ragione, rivelazione-sapere
Leibniz s’impegna con costanza, fin a partire dagli anni giovanili, alla difesa della rivelazione cristiana, giustificando lo statuto gnoseologico delle proposizioni rivelate come verità superiori alla ragione. Egli abbraccia infatti la tradizionale distinzione tra ciò che è contro la ragione e ciò che è sopra la ragione. Una verità non può mai essere contro la ragione, ovvero non può mai implicare contraddizione. Sul principio di non contraddizione, in quanto criterio ultimo di distinzione del vero dal falso, riposa infatti la possibilità stessa di giungere alla verità. Se esso venisse a cadere nell'ambito sovrannaturale, se non avesse cioè validità assoluta, non avrebbe più nemmeno senso parlare di verità e falsità. Le verità rivelate nei misteri, proprio in quanto verità, non possono dunque mai essere contrarie alla ragione, o, altrimenti detto, devono essere sempre conformi al principio di non contraddizione. Esse possono però essere superiori alla ragione, dove per “ragione” si intende la ragione finita dell'uomo e non la ragione in senso assoluto: ciò che per l'uomo è incomprensibile, è invece perfettamente compreso dall'infinita ragione divina.
Come può la ragione umana giudicare però della contraddittorietà o non contraddittorietà di ciò che per definizione è superiore alle sue capacità di comprensione? Se tale giudizio le è precluso, cade anche la possibilità stessa di distinguere tra sopra la ragione e contro la ragione. Dalla negazione di tale distinzione si dipartirebbero due percorsi opposti: da una parte il fideismo, di cui al tempo di Leibniz è rappresentante, almeno “ufficialmente”, Pierre Bayle (1647-1706); dall’altra un tipo di razionalismo teologico, giunto a piena maturazione nelle generazioni immediatamente successive a Leibniz, in cui si propone di eliminare dall’ambito della religione tutto ciò che la ragione umana non può comprendere. Nel primo caso si tenterebbe di “salvare” la rivelazione e la fede in essa sostenendo l'assoluta separazione e incommensurabilità tra fede e ragione, e tra rivelazione e sapere di carattere razionale, per cui i due ambiti sarebbero regolati da leggi completamente diverse. Potrebbe così essere accettato come rivelazione divina, superiore alle capacità di giudizio della ragione umana, anche ciò che è riconosciuto come contraddittorio e dunque come contrario alla ragione. Nel secondo caso, facendo leva su una conformità tra fede e ragione condivisa anche da Leibniz, si proporrebbe di eliminare come contraddittorio, e dunque contrario alla ragione, tutto ciò che la ragione umana non riesce a comprendere. In breve, alla radice di entrambe le posizioni starebbe proprio l’eliminazione di fatto di quella distinzione tra sopra e contro la ragione tenacemente difesa da Leibniz: nel caso del fideismo, ciò che è contrario alla ragione sarebbe assorbito da ciò che le è superiore; nel caso del razionalismo teologico di stampo deista, ciò che è superiore alla ragione sarebbe assorbito da ciò che le è contrario.
Ma com’è possibile evitare gli estremi opposti di fideismo e razionalismo? Come si può, in altre parole, assicurare la conformità dei misteri alla ragione, vale a dire la loro non contraddittorietà, salvando contemporaneamente il loro carattere di verità sovrarazionali? Leibniz risolve la difficoltà facendo innanzi tutto presente come giudicare della non contraddittorietà di una data proposizione sia altra cosa rispetto alla dimostrazione della verità di tale proposizione. Il fatto che i misteri superino le nostre capacità di comprensione preclude la possibilità per la ragione umana di giungere alla dimostrazione della loro verità, ma non la possibilità di giudicare circa la non contraddittorietà delle proposizioni rivelate. Il giudizio sulla non contraddittorietà è soggetto però a un'ulteriore limitazione: nonostante alcune ambiguità di Leibniz in proposito, dovute a oscillazioni riguardanti più la terminologia che la dottrina, emerge sempre più fermamente, con il passare degli anni, come tale giudizio non sia una positiva dimostrazione della possibilità (vale a dire, non contraddittorietà) dei misteri. Una positiva dimostrazione della possibilità porterebbe infatti al dissolvimento stesso dei misteri. Secondo la descrizione proposta nelle Meditationes de Cognitione, Veritate et Ideis (1684), vi sono due modi di conoscere la possibilità delle cose: il primo a priori, il secondo a posteriori. A priori, quando la nozione viene risolta nei suoi elementi, ovvero in altre nozioni di cui si conosce la possibilità: condotta l'analisi fino ai termini ultimi, se non compare alcuna contraddizione, la possibilità della nozione è dimostrata in modo inoppugnabile. A posteriori, quando si sperimenta che la cosa esiste in atto, perché ciò che esiste, o è esistito, in atto è anche certamente possibile. Ora, l'applicazione ai misteri di una dimostrazione a priori avente i requisiti sopra descritti, avrebbe come conseguenza l'eliminazione completa dell'ambito sovrarazionale, in quanto coinciderebbe con la conoscenza adeguata. D'altra parte, Leibniz è il primo ad ammettere che in natura non si trova alcun esempio che corrisponda in modo adeguato a quanto indicato dai misteri e che possa quindi dimostrare a posteriori la loro possibilità.
La possibilità dei misteri andrà dunque assicurata per altra via: da una parte, passando da un'argomentazione di carattere positivo a un'argomentazione di carattere negativo, vale a dire, dalla dimostrazione della possibilità alla dimostrazione che l'impossibilità non è stata fino ad ora provata; dall'altra, facendo ricorso al ragionamento per analogia. Nel primo caso si tratta dell'applicazione alle verità rivelate della nozione (di derivazione giuridica) di “presunzione di verità”, combinata con un procedimento argomentativo ben stabilito all'interno dell'ars disputandi: la “strategia della difesa”. Per una proposizione la cui verità non è stata ancora dimostrata, o, ancor più, non è possibile dimostrare, si può invocare una presunzione di verità, che vale fino a prova contraria. È precisamente quanto Leibniz invoca in favore dei misteri trasmessi lungo i secoli dalla tradizione ecclesiale: primo fra tutti il mistero più problematico dal punto di vista logico, il dogma della Trinità, insieme all'altro mistero centrale della rivelazione cristiana a esso direttamente collegato, il dogma dell'Incarnazione. È dunque l'accettazione della dottrina tradizionale di quella che Leibniz chiama “la chiesa universale” a provvedere il punto d'avvio: facendo appello alla presunzione di verità, si ammette in partenza che i misteri siano veri (e quindi non contraddittori) benché superiori alle nostre capacità di comprensione. La presunzione di verità è però valida, come si è detto, solo fino a quanto non si dia prova contraria. Se i negatori dei misteri (nella fattispecie, gli antitrinitari) fossero in grado di dimostrare che i misteri presunti veri, implicano in realtà contraddizione, tale dimostrazione ammonterebbe a un’inoppugnabile prova di falsità. Entra in gioco a questo punto la “strategia della difesa”. La presunzione di verità ha il potere di spostare l'onus probandi da chi difende una tesi a chi invece l’attacca. Saranno dunque i negatori dei misteri a dover positivamente dimostrare che il mistero in questione comporta contraddizione. Al difensore basta mostrare che tale contraddittorietà, o impossibilità, non è stata ancora provata, limitandosi a respingere gli argomenti dell'avversario, senza dover fornire una prova positiva della possibilità o non contraddittorietà della tesi difesa. Fino a quando egli è in grado di mostrare la mancanza di conclusività degli argomenti avversari, rimane intatta la presunzione di verità o, nel caso specifico del dogma trinitario, la presunzione della non contraddittorietà di tale mistero. Non si tratta dunque di una dimostrazione della possibilità del mistero, bensì di una dimostrazione che l'impossibilità non è stata provata e che di conseguenza il mistero è legittimamente presunto possibile (non contraddittorio). Stabilita la strategia generale, si tratterà a questo punto di vincere le singole battaglie, respingendo di volta in volta le accuse di contraddizione. Leibniz non si tira indietro, ingaggiando con i negatori dei misteri un raffinato duello logico volto a mostrare la fallacia delle argomentazioni nemiche: un confronto serrato che inizia già nel periodo giovanile, per proseguire con costanza negli anni a seguire.
Il secondo modo scelto da Leibniz per sostenere la possibilità dei misteri è (come si è sopra anticipato) il ragionamento per analogia. Percorso classico della cristianità, di cui l'insegnamento agostiniano rappresenta l'esempio più eclatante per quanto riguarda in particolare il mistero trinitario, viene a essere, ancora una volta, non una positiva dimostrazione della possibilità, bensì la scoperta di “una traccia”, “un'immagine”, “un'ombra” nell'ambito naturale, di quanto viene affermato dell'ambito sovrannaturale. Se non è infatti possibile portare esempi adeguati dell'esistenza in natura di quanto sostenuto nella Rivelazione cristiana, si può però mostrare che di fatto si realizza nella sfera naturale un rapporto analogo a quello indicato dal mistero in questione e questa esistenza di fatto è indicazione della possibilità che si dia qualcosa di simile anche nella sfera del divino. Sulla falsariga dei due modi di provare la possibilità proposti dalle Meditationes de Cognitione, Veritate et Ideis, questo procedimento potrebbe essere visto come una prova a posteriori “indebolita”, in quanto condotta per analogia. Pur nella sua mancanza di stringente conclusività, l'analogia con esempi naturali — nel caso della Trinità, la mente e in particolare la riflessione della mente su se stessa; nel caso dell'Incarnazione, l'unione nell'uomo di anima (mente) e corpo — permette di raggiungere una delle condizioni sine qua non della fede nelle proposizioni rivelate: vale a dire, un certo grado di conoscenza, per quanto parziale e confusa, del loro significato. Leibniz è infatti convinto che la fede sia un sapere dotato di valore conoscitivo.
Oggetto di fede non sono le parole, bensì il loro significato. Credere è «verum putare» (Commentatiuncula de Judice Controversiarum, 1669-1671, in Sämtliche Schriften und Briefe, serie VI, vol. I, p. 550), cioè ritenere che le proposizioni che esprimono i misteri corrispondano a verità. Ora, perché si possa parlare di verità, si deve in qualche misura sapere ciò che le parole significano. Ritorna però qui il problema posto dal particolare statuto gnoseologico delle verità rivelate. Come è possibile conoscere il loro significato se le proposizioni che esprimono i misteri sono per definizione superiori ai limiti di comprensione della ragione umana? La soluzione proposta da Leibniz ricalca la fondamentale distinzione dei gradi della conoscenza disegnata dalle Meditationes de Cognitione, Veritate et Ideis: sebbene non si possa giungere a una comprensione adeguata dei misteri, affinché questi possano legittimamente porsi nell'ambito conoscitivo è sufficiente che vi sia una conoscenza confusa del loro significato. La conoscenza non si restringe infatti a ciò che è chiaro e distinto, ma abbraccia, sia pure con gradi diversi di adeguazione, anche l'ambito delle nozioni di cui abbiamo solo una conoscenza confusa. Questo è il modo per sciogliere anche il nodo relativo all'uso dei concetti di “natura”, “sostanza”, “persona”: è in grado la ragione umana di averne il possesso ed è di conseguenza giustificato l'uso che se ne fa per spiegare il mistero trinitario? Secondo Leibniz, pur essendo vero che non abbiamo una conoscenza chiara e distinta di tali concetti (soprattutto quando riferiti all'ambito divino), proprio perché la conoscenza non si restringe a ciò che è chiaro e distinto, resta legittimo il loro uso anche quando sia esteso, nella fattispecie, alla spiegazione del mistero trinitario. Per quanto imperfetta e inadeguata questa spiegazione possa essere, non si deve rinunciare a essa.
Leibniz individua così tre grandi categorie sotto cui è possibile raccogliere i “motivi di credibilità” da presentare davanti al tribunale della ragione, affinché questa possa cedere il passo a una fede che non scada nel fideismo e a un credere che rimanga ben distinto dalla credulità. Se il punto di partenza della fede è l'accettazione dell'insegnamento della rivelazione contenuta nelle Scritture e trasmessa dalla tradizione ecclesiale, primo fondamentale compito affidato alla ragione è quello di verificare con gli strumenti della filologia, della critica testuale e della storia, la genuinità e autenticità delle Scritture e la fedeltà della tradizione. Si tratta di un compito preliminare, che non entra ancora nel merito della rivelazione. La ragione ha però i suoi diritti di cittadinanza anche per quanto riguarda il merito delle proposizioni rivelate. Secondo compito a essa affidato è infatti la spiegazione dei misteri quanto basta perché si possa credere ad essi: si tratta in altre parole della conoscenza almeno confusa del significato delle proposizioni rivelate, necessaria affinché queste non si riducano a flatus vocisprecludendo la possibilità stessa della fede in esse. La conoscenza confusa deve essere però accompagnata da un'indispensabile condizione: l'assenza di una provata contraddizione in ciò a cui si presta fede. È questo il terzo, fondamentale compito della ragione, chiamata a garantire la non contraddittorietà dei misteri attraverso la “strategia della difesa”.
V. Il “senso del mistero” nel pensiero di Leibniz
Abbracciata in uno sguardo d'insieme, la discussione leibniziana dei problemi posti dalle verità rivelate svela una profonda (e per molti versi sorprendente) apertura del pensiero di Leibniz — grande filosofo, matematico e scienziato —al senso del mistero, non solo nell'ambito soprannaturale. Particolarmente significativo da questo punto di vista è uno scritto del 1701 in cui Leibniz contesta le tesi di John Toland (1670-1722) volte all’eliminazione dalla religione cristiana di ciò che è superiore alla ragione (Annotatiunculae subitaneae ad Tolandi Librum De Christianismo Mysteriis carente). Vi è, secondo Leibniz, un limite strutturale delle capacità di comprensione dell'intelletto umano, dato dalla sproporzione tra la sua finitezza e l’infinità insita in ogni sostanza. Nella sfera di ciò che è superiore alla ragione umana, vale a dire, di ciò che supera le nostre capacità di comprensione, egli include dunque non solo “le cose divine” (e prima fra tutte la natura divina in quanto infinita), ma anche le stesse “nozioni complete” delle sostanze. Il nostro intelletto finito non è infatti in grado di giungere a una considerazione distinta dell’infinita varietà che rientra nella costituzione della nozione completa di una sostanza e si deve quindi accontentare di una perfetta intellezione delle sole “nozioni incomplete” quali sono quelle dei numeri o delle figure.
Lungi dunque dall’approvare l’eliminazione del sovrarazionale dalla religione cristiana, Leibniz sembra addirittura allargare l’ambito del “sopra ragione” a tutto ciò che esce dai ristretti confini degli oggetti studiati dalle matematiche. Il punto cruciale è qui il riconoscimento dei diversi gradi d’intelligibilità delle cose e, come conseguenza, del fatto che conoscere non è equivalente a comprendere. Si può parlare di “comprensione”, precisa Leibniz, soltanto quando si hanno idee non solo distinte, bensì anche adeguate: quando cioè gli elementi che rientrano nella definizione o risoluzione dei termini proposti vengono a loro volta risolti fino a giungere ai termini primitivi. A questo grado di conoscenza, la ragione creata dell’uomo, essendo segnata dalla finitezza, può giungere solo molto raramente: ovvero, come si è detto, solo nel caso di “nozioni incomplete” quale quella dei numeri. La conoscenza è però più ampia della comprensione: essa si allarga fino ad abbracciare le tante nozioni di cui abbiamo solo idee chiare e non distinte, restringendosi poi, in base al crescente grado di adeguazione, alle nozioni distinte, fino alle pochissime perfettamente adeguate. Proprio per questo motivo, mentre non vi è nessuno scandalo nel credere ciò che non può essere compreso, è invece corretto affermare che si può credere solo ciò che l’intelletto concepisce. Per poter credere è infatti necessario cogliere in qualche modo il significato dei termini, sebbene ben diverso rimanga, anche nell'ambito naturale, l'intendere le parole (intellectus verborum) dal comprendere la cosa (comprehensio rei). Occorre inoltre distinguere conoscenza attuale e conoscenza possibile. Se si intende per mistero ciò che supera la nostra conoscenza attuale, innumerevoli sono i misteri nell'ambito naturale. Si tratta però solo di una situazione provvisoria: grazie al continuo accrescimento della conoscenza, molti di questi “misteri” potranno essere progressivamente svelati. Vi sono però molte cose che superano non solo la conoscenza attuale, bensì anche la conoscenza possibile. In senso forte, “mistero” sta dunque a indicare ciò che supera i limiti “strutturali” di una ragione finita quale quella umana. E qui, di nuovo, Leibniz estende l'ambito del mistero vero e proprio, non solo alle verità rivelate soprannaturali, bensì anche alla conoscenza adeguata di ciò che esiste in natura. All'uomo è possibile rendere perfettamente ragione solo delle “apparenze” e non delle “cose in sé”, in quanto la comprensione delle sostanze singolari sfugge all'intelletto finito: «[A] chi chiami mistero qualunque cosa è superiore a ogni ragione creata, oserei dire che certo nessun fenomeno naturale è superiore alla ragione, ma che tuttavia la stessa comprensione delle sostanze singolari è impossibile per l’intelletto creato, in quanto esse involvono l’infinito. Per questo non è possibile rendere perfetta ragione delle cose dell’universo. E nulla proibisce che siano tali anche certi dogmi divinamente rivelati» (Annotatiunculae subitaneae, in Opera omnia, a cura di L. Dutens, vol. V, p. 147).
In conclusione, sembra che la concezione leibniziana possa venir rappresentata attraverso una linea continua che va dai gradi più bassi di conoscenza (caratterizzata da idee chiare e tuttavia confuse), fino alla perfetta comprensione permessa dalle idee adeguate e possibile in larga misura solo a un intelletto infinito come quello divino. La differenza è però solo di grado: la ragione umana è omogenea a quella divina; i misteri sono superiori alla ragione non in senso assoluto, ma solo in senso relativo alla ragione limitata dell'uomo nella sua condizione mondana. Non solo Dio comprende perfettamente ciò che per l'uomo è mistero: Leibniz ipotizza anche che, da una parte, possano esservi intelletti creati superiori a quello umano capaci di cogliere ciò che a noi sfugge, dall'altra, che gli stessi esseri umani possano raggiungere questo grado di conoscenza nella vita ultramondana. Anche l'incomprensibilità, per altro, ha gradi diversi. Il primo grado è quello di un'incomprensibilità solo provvisoria: è il caso dei fenomeni naturali regolati da leggi che è possibile scoprire con le sole forze dell'intelletto umano, risolvendo così il “mistero” nella luce del “chiaro” e “distinto”. Si ha poi un'incomprensibilità “di fatto”. È il caso di verità non di per sé superiori alla ragione, ma che necessitano di una rivelazione per essere conosciute in quanto hanno a che fare con dati di fatto (l'esempio portato è quello della caduta di Adamo); in questa categoria potrebbero rientrare quelli che Toland considera “misteri” tout court: verità che erano ignote prima della rivelazione, ma che una volta svelate sono perfettamente intelligibili. Ancora un'incomprensibilità solo “di fatto” parrebbe essere quella dei miracoli, in quanto si tratta di avvenimenti permessi grazie a una deroga temporanea alle leggi normali (o “di fatto”) della natura e definiti perciò da Leibniz come misteria transitoria. Sia il caso dei miracoli che il caso di verità legate a dati di fatto conoscibili solo tramite una rivelazione, sembrerebbero potersi in generale associare a quello delle “verità di fatto”. Infine si ha l'incomprensibilità dei misteri in senso forte, di cui il più alto esempio pare essere proprio la natura trinitaria di Dio. Qui l'incomprensibilità non è solo «della storia», ma «della dottrina» (Annotatiunculae subitaneae, in ibidem, p. 148). Leibniz rivendica, contro Toland e il deismo, la permanenza nella religione cristiana di questo senso forte del concetto di mistero, richiamando allo stesso tempo l’attenzione anche su quanto di “misterioso” in senso forte (vale a dire, strutturalmente superiore alle capacità di comprensione dell’intelletto finito dell’uomo) rimane e continuerà a rimanere nell’universo.
Opere di Leibniz: Edizione critica (ancora in via di svolgimento) comprendente tutti gli scritti e la corrispondenza: Sämtliche Schriften und Briefe, a cura dell’Accademia delle Scienze di Berlino, serie I‑VII, Darmstadt (in seguito: Leipzig, quindi: Berlin) 1923ss. Altre maggiori collezioni di scritti e corrispondenza in lingua originale includono le seguenti: Opera omnia, nunc primum collecta, in classes distributa, praefationibus et indicibus exornata, a cura di L. Dutens, 6 voll., Apud Fratres de Tournes, Genevae 1768; Mathematische Schriften, a cura di C.I. Gerhardt, 7 voll., A. Asher, Berlin e H.W. Schmidt, Halle 1849-1863, rist. Olms, Hildesheim 1971; Nouvelles lettres et opuscules inédits de Leibniz, a cura di A. Foucher de Careil, Durand, Paris 1857, rist. Olms, Hildesheim 1971; Die Werke von Leibniz, a cura di O. Klopp, 11 voll., Klindworth, Hannover 1864-1884; Die philosophischen Schriften, a cura di C.I. Gerhardt, 7 voll., Weidmannsche Buchhandlung, Berlin 1875‑1890, rist. Olms, Hildesheim 1960‑1961; Opuscules et fragments inédits, a cura di L. Couturat, Alcan, Paris 1903, rist. Olms, Hildesheim 1961 e 1966; Textes inédits d'après les manuscrits de la Bibliothèque Provinciale de Hanovre, a cura di G. Grua, 2 voll., Puf, Paris 1948. Tra le traduzioni italiane si ricordano le seguenti: Monadologia, a cura di S. Vanni Rovighi, La Scuola, Brescia 19636-;Scritti politici e di diritto naturale, a cura di V. Mathieu, Utet, Torino 19652; Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, 2 voll., Utet, Torino 1967; Scritti di logica, a cura di F. Barone, Zanichelli, Bologna 1968; Scritti di metafisica, a cura di D.O. Bianca, Paravia, Torino 1969; Scritti di logica, a cura di M. Vignato Rizzo, R.A.D.A.R., Padova 1972; Teodicea, a cura di V. Mathieu, Zanichelli, Bologna 1973; Nuovi saggi sull’intelletto umano, a cura di M. Mugnai, Editori Riuniti, Roma 1982; Monadologia. Causa Dei, a cura di G. Tognon, Laterza, Roma-Bari 1991; Confessio philosophi e altri scritti, a cura di F. Piro, Cronopio, Napoli 1992; Saggi di Teodicea, introduzione di G. Cantelli, traduzione e note storico-bibliografiche di M. Marilli, Rizzoli, Milano 1993; Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, 3 voll., Utet, Torino 2000.
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