Basato sul testo di una conferenza tenuta dall’autore nel 1947 in occasione del Convegno di Woodbrook a Bentveld in Olanda, Il cammino dell’uomo è un breve ma prezioso scritto del filosofo Martin Buber (1878-1965), tra le massime voci del pensiero ebraico contemporaneo. Nella prefazione all’edizione italiana, Enzo Bianchi mostra come la riflessione antropologica fosse già al centro di alcuni snodi delle opere principali pubblicate dall’autore, L’io e il tu (1923) e Il problema dell’uomo (1942). Ma in questo testo, ricco di riferimenti ai racconti della tradizione chassidica – un movimento di rinnovamento spirituale sorto all’interno dell’ebraismo ortodosso – l’intento pedagogico delinea un preciso percorso di maturazione umana che parte da una domanda, l’interrogativo rivolto da Dio ad Adamo: “Dove sei?”. Queste parole interpellano la coscienza e invitano a rendere conto della propria vita, mettendo in moto colui al quale vengono rivolte. È così che inizia il “cammino dell’uomo”, un ritorno a sé stessi niente affatto sterile o meramente autoriflessivo ma fertile e capace di conduce l’essere umano a maturazione. Il cammino è infatti sempre personale, specifico di ognuno, perché ogni vita è unica e irripetibile. A nulla vale, secondo la sapienza chassidica, il conformismo o l’imitazione degli altri, seppure degni di ammirazione. Come riportato dall’autore, «la stessa idea è stata espressa con ancor maggior acutezza da Rabbi Sussja che, in punto di morte, esclamò: “Nel mondo futuro non mi si chiederà: ‘Perché non sei stato Mosè?’; mi si chiederà invece: ‘Perché non sei stato Sussja?’”» (pp. 27-28). Tornare a sé vuol dire dunque divenire ciò che si è realmente; ciò deve passare attraverso un’unificazione della propria vita, del corpo e dello spirito (pp. 39-40). Ma, di nuovo, questo traguardo non è mai raggiunto una volta per tutte e richiede un allenamento, un cammino; la meta non consiste però in una separazione dagli altri bensì in un ritorno nel mondo: il percorso parte da sé ma porta all’incontro con l’altro. Scrive ancora Buber: «Abbiamo imparato che ogni uomo deve tornare a se stesso, che deve abbracciare il suo cammino particolare, che deve portare a unità il proprio essere, che deve cominciare da se stesso; ed ecco che ora ci viene detto che deve dimenticare se stesso! […] Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé» (pp. 49-50). La meta del cammino dell’uomo è mettersi al servizio del mondo e tale servizio, conclude Buber, ha il proprio luogo nella vita ordinaria, nel panorama più abituale, nella realtà più familiare: «È qui, nel luogo preciso in cui ci troviamo, che si tratta di far risplendere la luce della vita divina nascosta» (p. 60). Suggestivo e arguto, Il cammino dell’uomo può essere letto come una piccola ma essenziale guida per orientare il proprio percorso di crescita.