I. Dati biografici
Sigmund Freud nacque nel 1856 nella cittadina di Freiberg (oggi Pribor) in Moravia, territorio asburgico fino alla prima guerra mondiale. Figlio di un agiato commerciante di tessuti, egli discendeva da una famiglia ebraica che era stata costretta ad emigrare da Köln prima in Lituania, poi in Galizia, e infine nel 1840 a Freiberg. Le origini israelitiche e l'iniziale educazione allo studio dei testi sacri lasciarono un'impronta indelebile in tutta la sua opera.
Nel 1860, in seguito al declino del commercio della lana in quella zona orientale dell'impero, la famiglia Freud dovette trasferirsi prima a Lipsia per un breve periodo, poi a Vienna, dove Sigmund visse ininterrottamente fino al 1938, quando, a causa dell'occupazione nazista dell'Austria, dovette prendere la via dell'esilio verso l'Inghilterra. A Vienna Freud compì gli studi secondari tra il 1865 e il 1873, dando prova di uno stile espressivo chiaro, elegante, caratteristico, che molti anni più tardi, nel 1930, gli valse il premio Goethe. Deciso inizialmente a iscriversi alla Facoltà di Diritto, si iscrisse invece alla Facoltà di Medicina, conseguendo la laurea nel 1881. Attratto dalle teorie di Ernst Häckel (1834-1919) e di Charles Darwin (1809-1882), seguì con profondo interesse l'insegnamento di Carl Claus, ordinario di anatomia comparata, grazie al cui interessamento ottenne per ben due anni (1875 e 1876) una borsa di studio presso la stazione zoologica di Trieste. Durante quel soggiorno Freud studiò l'attività procreativa delle anguille, di cui fece ampio resoconto nel suo primo lavoro scientifico.
Negli anni successivi si impegnò nel laboratorio di fisiologia diretto da Ernst Brücke, senza trascurare gli studi umanistici. Dopo il fidanzamento e il matrimonio con Martha Bernays, cominciò a svolgere l'attività di tirocinio pratico in strutture ospedaliere in modo non solo da acquisire cognizioni mediche pratiche, ma anche da entrare in contatto con altre eminenti personalità dell'ambiente medico universitario viennese.
Nel 1885 ottenne il conferimento della nomina a libero docente in Neuropatologia nella Facoltà di Medicina dell'Università di Vienna e contemporaneamente ricevette una borsa di studio per un soggiorno di cinque mesi a Parigi, presso la clinica della Salpêtrière, diretta da Jean Martin Charcot. Fu proprio nel periodo di permanenza a Parigi che Freud scoprì il lato psicologico della neuropatologia e fu spinto con maggior decisione verso l'approfondimento della psicologia delle nevrosi. Nel frattempo conobbe Josef Breuer, che lo introdusse al metodo ipnotico, e con il quale condusse una fruttuosa collaborazione che si interruppe dopo qualche anno, a mano a mano che andava scoprendo l'efficacia del metodo delle libere associazioni e approfondiva il tema della resistenza e del transfert.
Una straordinaria testimonianza di uno dei momenti di maggior fervore intellettuale di Freud è data dallo scambio epistolare con Wilhelm Fliess, otorinolaringoiatra berlinese. Fu questo interlocutore privilegiato, infatti, che lo aiutò a maturare la base neurologica delle sue scoperte psicologiche e costituì il terreno confidenziale da cui emerse la scoperta del complesso edipico e del valore del sogno, come “via regia” al funzionamento inconscio della psiche.
Dopo la fredda accoglienza riservata al suo libro L'interpretazione dei sogni (1900), ricevette la nomina a docente straordinario nel 1902 e cominciò a pubblicare alcune opere molto significative, quali Psicopatologia della vita quotidiana (1901-1904), Il motto di spirito e i suoi rapporti con l'inconscio (1905), Tre saggi sulla teoria sessuale (1905). Nel 1908 diede vita alla Società Psicoanalitica di Vienna, cui negli anni seguenti si affiancarono, per iniziativa di allievi e collaboratori, altre associazioni con la medesima prospettiva di approfondimento e di divulgazione della sua teoria.
Nel 1908 ebbe luogo a Salisburgo il primo congresso internazionale di psicoanalisi e l'anno seguente Freud si recò negli Stati Uniti, presso la Clark University di Worcester (Boston), diretta dallo psicologo e pedagogista G. Stanley Hall, per tenere un ciclo di conferenze sulla psicoanalisi e per ricevere la laurea honoris causa in legge. Negli anni seguenti la crescita di consensi che la psicoanalisi andava riscuotendo fu oscurata dall'emergere di profondi contrasti teorici. Le polemiche si indirizzarono soprattutto sulla funzione centrale svolta dalla sessualità nell'eziologia dei fenomeni psichici e sfociarono nella scissione e nell'allontanamento dei due più famosi discepoli e amici di Freud, Alfred Adler (1870-1937) e Carl Gustav Jung (1875-1961).
Lo scoppio della prima guerra mondiale segnò una fase di interruzione nella crescita del movimento psicoanalitico internazionale, per la difficoltà a mantenere i contatti con i membri degli altri paesi e perché molti analisti furono chiamati alle armi. Ma già nel congresso di Budapest del 1918 furono evidenti i segni della ripresa, a livello sia teorico che organizzativo. Gli anni seguenti videro una notevole produzione scientifica di Freud e l'inizio della pubblicazione dell'opera completa dei suoi scritti da parte dell'Editrice Psicoanalitica Internazionale. La sua fama crebbe rapidamente e si moltiplicarono i riconoscimenti, soprattutto all'estero.
L'ascesa del nazismo in Germania (nel 1934 i libri di Freud furono dati alle fiamme a Berlino e nel 1936 a Lipsia fu confiscato il deposito dell'editrice che era stata fondata nel 1919 grazie alla munificenza di Anton von Freund) e l'annessione dell'Austria nel 1938 resero sempre più pericolosa la permanenza di Freud e della sua famiglia a Vienna. In un primo momento egli si rifiutò di espatriare, ma nel 1938, dopo una perquisizione della Gestapo nella sua casa e un breve fermo di polizia che colpì la figlia Anna, si decise a lasciare l'Austria alla volta di Londra, grazie anche al provvidenziale intervento di Marie Bonaparte, di suo marito il principe Giorgio di Grecia e dell'ambasciatore americano a Parigi William Bullit. A Londra Freud morì l'anno seguente, il 23 settembre, nella casa del figlio Ernst ad Hampstead.
II. Inquadramento del pensiero di Freud
Nella metà del XIX secolo cominciò ad essere più vivo, in coloro che si interessavano dell'uomo “malato”, il desiderio di dimostrare che all'origine di specifiche disfunzioni “nervose” non si trovano lesioni anatomiche o disturbi fisiologici, e neppure l'invasione di spiriti maligni, ma un funzionamento anormale di processi tipicamente psichici (volontà, pensiero, emozione, sentimento, memoria...). Ancora non era chiara l'interpretazione della nevrosi come un disordine mentale funzionale, contraddistinto da un turbamento più o meno grave della sfera emotivo-affettiva e motivazionale, che si esprime soprattutto in stati d'ansia, sentimenti di insicurezza e di colpa.
Studiando l'origine dei disturbi psichici, Freud notò che i sintomi si presentano come incomprensibili, ovvero come azioni prive di una causa che le giustifichi. La loro persistenza, tuttavia, è il segno che una ragione c'è, pur se ignorata dal soggetto. Procedendo nelle ricerche, egli intuì che causa della nevrosi è un trauma che il soggetto ha cercato di superare, cancellandolo dalla coscienza; il tentativo però è risultato inefficace: il soggetto non ricorda più il trauma a livello cosciente, ma permane l'impressione penosa di fallimento, di vergogna, di inferiorità. Ciò produce disturbi nell'ideazione, nell'azione, nell'organizzazione generale della persona; concretamente: sintomi nevrotici quali somatizzazioni, idee ossessive, azioni compulsive, sublimazioni.
Forte delle esperienze condotte con i suoi pazienti, Freud credette di identificare l'origine delle nevrosi in un trauma di natura sessuale, vissuto in età infantile. Elaborò quindi il seguente schema interpretativo: l'uomo possiede fin da bambino un impulso di natura bio-psichica che lo spinge alla ricerca del piacere che si può ottenere con le varie funzioni corporali; tale impulso (indicato con il termine libido) entra in conflitto traumatico con proibizioni e sanzioni della cultura e dei genitori; non potendo sopportare di essere respinto da quelle persone che rappresentano per lui la sorgente di soddisfazione e di sicurezza, il bambino reprime la sessualità nell'inconscio; tale rimozione diviene la principale sorgente di sintomi nevrotici.
Se la nevrosi deriva dal fatto che un conflitto sessuale è stato vissuto come insopportabile ed è stato perciò rimosso, la terapia consisterà in una rielaborazione del conflitto traumatico, in modo da renderlo sopportabile e, in qualche modo, non più percepito come una grave minaccia all'integrità della persona. Per raggiungere tale elaborazione occorre che il conflitto traumatizzante sia riportato alla coscienza. E ciò avviene attraverso una metodologia di intervento che prevede due momenti: uno preliminare, nel quale viene riportato alla coscienza tutto il nucleo patogeno, conflittuale, vissuto prevalentemente nell'infanzia; ed uno risolutivo, che consente la rielaborazione e il superamento del trauma. Freud comunque si concentrò sulla prima fase, nella speranza che i conflitti, una volta divenuti coscienti, si risolvessero automaticamente.
Molteplici sono anche le vie indicate da Freud per superare la rimozione, alcune delle quali sono specifiche del suo sistema interpretativo e risentono ovviamente della visione antropologica ad esso sottostante (vedi infra, VII). Con la tecnica analitica delle “libere associazioni” si raggiunge il contenuto traumatico inconscio poiché, parlando di tutto ciò che viene alla mente, si riporta alla coscienza un contenuto sessuale. L'interpretazione dei sogni consente di raggiungere più facilmente alcuni contenuti rimossi e sottoposti a censure e a controlli. Tuttavia, dal momento che la funzione di controllo continua anche durante il sogno, occorre distinguere tra contenuto “patente” e contenuto “latente”. Se i traumi sono stati vissuti in tenera età, non possono essere tradotti in parole; il richiamo allora avviene rivivendo o ripetendo la situazione traumatica. Un caso specifico è il transfert affettivo: rivivere con l'analista i conflitti, trasferendo su di lui le cariche emotive inizialmente dirette verso i genitori. Talvolta l'inconscio riesce a sfuggire al controllo e si traduce in parole errate, in scambio di parole (lapsus freudiano). L'analisi di tali errori di linguaggio è fondamentale per evidenziare ciò che, contenuto nell'inconscio, è riuscito a emergere in sede terapeutica.
III. Opinione comune su Freud circa la religione
Secondo l'opinione comune, Freud avrebbe determinato la fine di tutte le costruzioni religiose, collocandole nell'ambito delle sublimazioni della libido o mostrandone la derivazione psichica. Giustificata sembrerebbe, di conseguenza, la reazione della Chiesa cattolica che avrebbe condannato la pratica e la teoria della psicoanalisi. La reazione cui ci si riferisce è concretizzata in una dichiarazione pubblicata nel 1952 sul Bollettino del Clero romanoche, qualificando come “peccato mortale” ogni pratica della psicoanalisi, si rifaceva a un intervento autorevole di Pio XII (1939-1958).
In effetti il Pontefice, parlando il 14 settembre 1952 ai partecipanti al Congresso Internazionale di Istopatologia del Sistema Nervoso sui limiti morali dei metodi medici di indagine e di cura, aveva asserito: «Per liberarsi da pulsioni, inibizioni, e complessi psichici, l'uomo non è libero di eccitare in se stesso, per scopi terapeutici, tutti e singoli quegli appetiti della sfera sessuale che s'agitano o si son agitati nel suo essere, e sommuovono i loro impuri flutti nel suo inconscio o nel suo subconscio. Non può farne l'oggetto delle sue rappresentazioni o dei suoi desideri pienamente consci, con tutte le scosse e le ripercussioni che sono conseguenza di un tale modo di procedere. Per l'uomo e per il cristiano esiste una legge d'integrità e di purità, di stima personale, la quale proibisce d'immergersi così completamente nel mondo delle rappresentazioni e delle tendenze sessuali. L' interesse medico e psicoterapeutico del paziente” trova qui un limite morale. Non è provato, anzi è inesatto, che il metodo pansessuale di una certa scuola di psicoanalisi sia parte integrante indispensabile di ogni psicoterapia seria e degna di tal nome; che l'aver trascurato nei tempi passati questo metodo abbia causato gravi danni psichici, errori nella dottrina e nella pratica dell'educazione, nella psicoterapia e anche e non meno nella pastorale; che sia urgente riempire questa lacuna e iniziare tutti coloro che si occupano di questioni psichiche alle idee direttrici e perfino, se occorre, all'applicazione pratica di questa tecnica della sessualità» (Discorsi e radiomessaggi, XIV, pp. 323-324).
Tuttavia è sfuggito a molti il fatto che Pio XII si riferiva al «metodo pansessuale di una certa scuola di psicoanalisi», e quindi nelle sue parole non era in alcun modo presente una condanna in blocco della psicoanalisi. Ad ogni modo, un ulteriore elemento di diffidenza nei confronti della psicoanalisi fu evidenziato allorché l'allora Sant'Uffizio emise il 15 luglio 1961 un Monitum che, mettendo in guardia dinanzi a «molte e pericolose opinioni circa i peccati contro il 6º comandamento e l'imputabilità degli atti umani», tra l'altro prescriveva: «[...] 3) Clericis et Religiosis interdicitur ne munere psychoanalystarum fungantur, ad mentem can. 139, § 2. — 4) Improbanda est opinio eorum qui autumant praeviam institutionem psychoanalyticam omnino necessariam esse ad recipiendos Ordines Sacros, vel proprie dicta psychoanalytica examina et investigationes subeunda esse candidatis sacerdotii et professionis religiosae. Quod valet etiam si agitur de exploranda aptitudine requisita ad sacerdotium vel religiosam professionem. Similiter Sacerdotes et utriusque sexus Religiosi psychoanalystas ne adeant nisi Ordinario suo gravi de causa permittente» (AAS 53 (1961), II, p. 571; il riferimento è al Codice di Diritto Canonico del 1917, allora vigente).
Due osservazioni possono essere avanzate al riguardo: a) il testo del Monitum manifestava una certa imprecisione nel vocabolario della psicoanalisi: inadeguata ed estranea al linguaggio tradizionale della teoria psicoanalitica era l'espressione proprie dicta psychoanalytica examina et investigationes; b) veniva ritenuta pericolosa anche la sola consultazione dello psicoanalista e, per di più, limitatamente ai sacerdoti e/o ai religiosi/e, introducendo così alcune perplessità circa i fedeli laici, che parevano considerati immuni dagli effetti nocivi della teoria freudiana, sebbene, nell'intenzione, si potesse presumere che l'indicazione mirasse a proteggere la specificità del ministero spirituale di confessori e direttori di anime.
In quegli anni, contestualmente al Monitum, era oggetto di ampie discussioni il fatto che Gregorio Lemercier, abate del Monastero della Risurrezione nella diocesi messicana di Cuernavaca, si era affidato alla psicoanalisi per risolvere alcune difficoltà spirituali, morali e disciplinari sorte nella sua comunità monastica, appoggiato dal vescovo del luogo, mons. Mendez Arceo. È interessante anche notare che lo stesso mons. Mendez, durante la 137acongregazione generale del Concilio Ecumenico Vaticano Il (23 settembre 1965), così si espresse: «Non mi so spiegare il silenzio dello schema 13 sulla psicoanalisi. — La psicoanalisi ci si presenta come una vera scienza, con il suo oggetto, il suo metodo e la sua teoria propria. Tale scienza non è ancora completamente matura e non è priva di pericoli di cui bisogna tenere conto, ma non possiamo per questo ignorare la “rivoluzione psicoanalitica” che non è meno importante di quella tecnica […]. Il discorso analitico fa parte della cultura umana, esige un rinnovamento del concetto di uomo e solleva dei problemi di cui prima non si aveva la minima idea. La Chiesa, a causa del dogmatismo anticristiano di certi analisti, ha preso una posizione che richiama il caso Galileo; ma non c'è un solo settore della pastorale in cui non sia necessario fare i conti con la psicoanalisi. Gli interventi della Chiesa, troppo imbevuti di diffidenza, non hanno esercitato fino ad oggi nessuna influenza su coloro che si occupano di tale scienza. Non mancano cattolici che nutrono l'illusione di una psicoanalisi cristiana o cattolica, mentre la vera scienza non è né cristiana né non cristiana. Pertanto, se la Chiesa vuole intessere un dialogo sincero e leale con l'uomo d'oggi, non può ignorare gli analisti autentici, cui deve rivolgersi direttamente e con fiducia, e non per l'intermediario della morale o della teologia. Ne deriverà un bene grande, poiché questa scienza possiede una capacità di purificazione di grande aiuto per quelle persone la cui fede si trova mescolata con deviazioni psicologiche che la pervertono o l'inibiscono» (Acta Synodalia, vol. IV, pars II, pp. 626-627).
In realtà, sul sospetto nei confronti della psicoanalisi ha sempre giocato un peso determinante il fatto che Freud si fosse dichiarato ateo (cfr. Gay, 1989). Così come un influsso notevole è stato esercitato in proposito dal dogmatismo antireligioso e anticristiano di alcuni psicoanalisti. Ciò non toglie che Freud, come ha dimostrato lo psicoanalista statunitense Gregory Zilboorg nella sua opera Freud and Religion (1958), non fosse anch'egli assillato, per tutta la durata della sua vita, dal problema religioso; più precisamente, non tanto dal fatto psicologico della fede, ma dall'interrogativo del destino ultimo della vita umana, della morte, del giudizio finale. Ed è quindi opportuno passare in rassegna, in una prospettiva evolutiva e dinamica, le varie affermazioni espresse da Freud nei confronti della religione, così da comprenderne sia i condizionamenti che le diverse caratterizzazioni.
IV. Primi interventi sulla religione
Scrivendo all'amico Wilhelm Fliess, il 12 dicembre 1897, Freud commenta: «Immagini che cosa possano essere i miti endopsichici? Ebbene essi sono le ultime produzioni della mia attività cerebrale. L'oscura percezione interiore da parte del soggetto del suo apparato psichico suscita delle illusioni che, naturalmente, si trovano proiettate all'esterno e in modo caratteristico nel futuro, in un al di là. L'immortalità, la ricompensa, tutto l'al di là; queste sono le concezioni della nostra psiche interiore [...]. È una psico-mitologia» (cit. in Plé, 1978, p. 190).
Pochi anni dopo, esattamente nel 1901, dando alle stampe Psicopatologia della vita quotidiana , Freud prende in considerazione la psicologia della superstizione e ritiene di poterne individuare le radici nell'ignoranza cosciente e nella conoscenza inconscia della motivazione delle causalità psichiche. « Perché il superstizioso non sa nulla della motivazione delle proprie azioni casuali, e perché il fatto di questa motivazione pretende un posto nel suo riconoscimento, egli è obbligato a sistemarla mediante spostamento verso il mondo esterno. Se si giunge a stabilire una siffatta connessione, difficilmente essa si limiterà all'applicazione singola. Credo infatti che gran parte della concezione mitologica del mondo, che si estende diffondendosi sino alle religioni più moderne, non sia altro che psicologia proiettata sul mondo esterno. L'oscura conoscenza (per così dire la percezione endopsichica) di fattori e rapporti psichici inerenti all'inconscio si rispecchia — è difficile dire diversamente, l'analogia con la paranoia deve qui esserci di aiuto — nella costruzione di una realtà sovrasensibile, che la scienza deve ritrasformare in psicologia dell'inconscio» (Psicopatologia della vita quotidiana, pp. 279-280).
Nel primo numero della nuova rivista Zeitschrift für Religionspsychologie (1907) Freud pubblicò un testo, relativamente breve, nel quale l'accenno alle pratiche e ai cerimoniali religiosi, a cui vengono accostate le azioni ossessive, gli consentì di prospettare la tesi che la nevrosi ossessiva sia una sorta di religione privata, mentre la religione avrebbe il carattere di una nevrosi ossessiva universale: «la nevrosi ossessiva non è che la caricatura, per metà comica e per metà tragica, di una religione privata» (Azioni ossessive e pratiche religiose, p. 343). Prendendo in esame i meccanismi della nevrosi ossessiva, Freud sviluppò il concetto dell'azione ossessiva come formazione di compromesso fra una pulsione rimossa e l'istanza rimovente, e il principio del ritorno del rimosso nel rimovente. Su questa base egli presentò cauti cenni al fatto che anche nella religione si constata un analogo successo soltanto parziale della repressione pulsionale e uno spostamento di accento dall'essenziale a un particolare soltanto accessorio.
Volendo delineare schematicamente quanto Freud affermò in questo testo, basta sottolineare i seguenti punti: a) è abbandonata l'analogia con la paranoia e si ricorre all'analogia con la nevrosi ossessiva (cioè un conflitto psichico che si manifesta con sintomi coatti, che si è costretti a fare, quali atti indesiderabili, e con riti di scongiuro); b) in seguito alla forte tensione tra Es, Io e Super Io nel soggetto avviene la rimozione di un moto pulsionale, cioè di una componente della pulsione sessuale (osserviamo che l'Es, soggetto impersonale della lingua tedesca, indica in Freud la parte di inconscio costituita dagli istinti repressi, una parte della psiche più grezza e antica dell'inconscio rappresentato dal Super Io, mentre l'Io rappresenta la parte cosciente, sulla cui attività, però, l'inconscio non cessa mai di agire); c) nel corso del processo di rimozione si produce l'angoscia che il soggetto cerca di abbassare ricorrendo a tutta una serie di cerimoniali. Ogni infrazione infatti crea enormi sensi di colpa. Le pratiche esorcizzano sia l'ansietà che la colpevolezza; d) in ogni caso, il cerimoniale è una soluzione illusoria; e) se la nevrosi ossessiva è la religione dell'individuo ammalato, la religione è la nevrosi ossessiva dell'umanità.
All'interno del ricco epistolario con l'amico Oskar Pfister, pastore protestante, è evidenziato un famoso passaggio, contenuto in una lettera del 9 febbraio 1909: «In sé la psicoanalisi non è più religiosa che irreligiosa. È uno strumento neutrale di cui possono servirsi sia religiosi sia non credenti unicamente però come servizio di liberazione di esseri sofferenti. Sono molto colpito di non aver pensato io stesso all'aiuto straordinario che il metodo psicoanalitico possa recare alla guarigione delle anime; ma questo consiste senza dubbio nel fatto che, essendo un eretico incallito, tutto questo campo di nozioni mi è sconosciuto» (cit. in Plé, 1978, p. 29).
Per evidenziare il rapporto tra fede in Dio e complesso edipico (vedi infra, V.3) è interessante leggere Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci (1910), da cui risulta che il Dio personale non sarebbe altro, psicologicamente, che un padre innalzato. «La psicoanalisi — egli scrive — ci ha insegnato a riconoscere l'interconnessione esistente tra complesso paterno e fede in Dio, ci ha indicato che il Dio personale non è altro, psicologicamente, che un padre innalzato, e ci pone ogni giorno sotto gli occhi i casi di giovani che perdono la fede religiosa appena crolla in loro l'autorità paterna. Nel complesso parentale noi riconosciamo così la radice del bisogno di religione; il Dio onnipotente e giusto, la natura benigna ci appaiono come grandiose sublimazioni del padre e della madre, anzi come repliche e reintegrazioni delle immagini che il bambino piccolo ha di entrambi. La religiosità si riconduce, biologicamente, al lungo periodo di inermità e bisogno di aiuto della piccola creatura umana che, quando più tardi riconosce il suo reale abbandono e la sua debolezza di fronte alle grandi potenze della vita, percepisce la propria situazione in modo simile a come la percepiva nell'infanzia e tenta di negarne la desolazione con un ripristino regressivo delle potenze protettive dell'infanzia stessa. La protezione contro la malattia nevrotica, che la religione garantisce ai suoi fedeli, si spiega facilmente col fatto che essa li solleva dal complesso parentale, al quale è legato il senso di colpa così del singolo come dell'intera umanità, e lo risolve in vece loro, mentre il non credente deve sbrigare questo compito da solo» (Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci, pp. 262-263).
V. Totem e tabù
1. Elementi caratteristici dell'opera. Dopo aver concluso che la religione è una nevrosi, Freud intraprende un nuovo cammino che lo porterà alle origini stesse della religione. Il tema viene da lui studiato sul piano socioculturale e su quello psicologico nella famosa opera Totem e tabù, del 1912- 1913, in cui conclude che la vita religiosa dell'uomo primitivo si sviluppa attorno a un nucleo: il totem, al quale vengono offerti sacrifici e della cui carne e del cui sangue si diviene partecipi.
Chiara è l'intenzione fin dalle prime pagine. «I quattro capitoli di quest'opera [...] rappresentano un primo tentativo [...] di applicare punti di vista e risultati della psicoanalisi a problemi non ancora risolti della psicologia dei popoli» (Totem e tabù, p. 7). Si tratta cioè di intraprendere «con un certo ardire, il tentativo di svelare il significato originario del totemismo riscoprendone le tracce nell'infanzia, ossia nei tratti che di esso riaffiorano nello sviluppo dei nostri bambini» (ibidem, p. 8).
Freud considerò sempre questo libro come una delle sue opere migliori, anche se l'accoglienza — come da lui previsto — fu del tutto negativa. I materiali su cui condusse il suo studio erano infatti di seconda mano, e cioè relazioni di esploratori e missionari già manipolate e interpretate dagli etnologi e dagli antropologi, quali Sir J. Frazer, C. Darwin, J.J. Atkinson, W. Robertson Smith, e ciò non depose certo a favore del riconoscimento del carattere scientifico dello scritto. Comunque gli servirono per raggiungere il suo obiettivo, che era quello di confrontare i sintomi della nevrosi ossessiva con le usanze-tabù dei primitivi, individuando parallelamente l'origine della religione nella specie e nell'individuo.
Come si sa, le tribù primitive erano divise in gruppi o clan, ognuno dei quali era portatore di un “totem”, che di solito era un animale commestibile, innocuo o pericoloso, e temuto; oppure, più raramente, era una pianta o un elemento naturale (pioggia, acqua) legato a tutto il clan da un rapporto particolare. Secondo la descrizione che ne fa Freud, il totem «è in primo luogo il capostipite del clan, ma ne è anche lo spirito tutelare e il soccorritore che trasmette oracoli alla sua gente e, se pur pericoloso agli altri, riconosce e risparmia i suoi figli. I membri del clan, per contro, soggiacciono all'obbligo sacro — pena una sanzione che vige di per sé — di non uccidere (o distruggere) il loro totem e di astenersi dal consumare la sua carne (o comunque dal trarne godimento)» (ibidem, p. 11).
Proseguendo la sua ricerca sul totem, Freud evidenzia il carattere di obbligazione dell'“esogamia”, ossia della legge «secondo cui membri di uno stesso totem non possono avere rapporti sessuali tra di loro e non possono quindi contrarre matrimonio » (ibidem , p. 13). E una tale proibizione non solo previene l'incesto con la madre e le sorelle, ma «rende impossibile all'uomo anche l'unione sessuale con tutte le donne del suo clan (e cioè con un certo numero di femmine che sono sue parenti di sangue) dal momento che egli le considera tutte sue consanguinee» (ibidem, p. 14).
L'insieme di obblighi cui l'uomo primitivo si sottometteva, il rispetto del totem, la serie di pratiche e di cerimonie con cui manifestava la venerazione nei suoi confronti, supponevano una specie di culto, una “religiosità” , che Freud chiama totemica. E tra i diversi riti di tale religiosità totemica trova un posto centrale il “pasto totemico” , una cerimonia che conteneva due elementi fondamentali, facilmente distinguibili: il “sacrificio” nel senso più ampio della parola e “l'animale sacrificato” . «Oggetto del sacrificio erano commestibili o bevande; l'uomo offriva al suo dio le stesse cose di cui si nutriva personalmente: carne, cereali, frutta, vino e olio» (ibidem, p. 137). Tale sacrificio rappresentava una cerimonia pubblica, una festa solenne dell'intero clan. La religione perciò veniva considerata un fatto comunitario e il dovere religioso risultava una componente degli obblighi sociali. La festa sacrificale inoltre era l'occasione per allontanarsi per un po' dai problemi quotidiani in un clima di gioia e così sottolineare la comunione con il gruppo e con la divinità. Il mangiare e il bere insieme infine esprimevano il fatto che «il dio e i suoi adoratori sono “commensali”, ma implicava nel contempo tutte le altre relazioni esistenti tra loro» (ibidem, p. 138).
L'animale sacrificale era l'altro elemento fondamentale. Esso era considerato sacro e la sua vita intoccabile. Ovviamente poteva essere ucciso, ma solo per solenni circostanze e la sua morte richiedeva la partecipazione e la responsabilità di tutto il clan. Anzi, si riteneva che lo stesso dio fosse presente al sacrificio. Un tale atto rituale e sacro significava che «l'animale sacrificale veniva trattato come un membro della tribù; la comunità che celebrava il sacrificio, il dio e l'animale sacrificale erano dello stesso sangue, membri di un unico clan» (ibidem, p. 140). E, portando la relazione d'identità fino alle sue ultime conseguenze, si può dire che l'animale sacrificale non era altro che il medesimo dio primitivo. Mangiare la sua carne, assorbire la sua sostanza voleva dire irrobustirsi ed essere capaci di affrontare eventuali pericoli.
Il secondo elemento che Freud chiama in discussione per delineare sia la religione dei primitivi che la sua permanenza nella psicologia dei popoli è quello del “tabù”. «“Tabù” è un vocabolo polinesiano che ci è difficile tradurre perché non possediamo più il concetto che corrisponde a tale vocabolo. Il concetto era ancora familiare agli antichi romani: il termine latino sacer è l'esatto equivalente del “tabù” dei polinesiani [...]. Per noi il significato del tabù si sviluppa in due direzioni opposte e divergenti. Da un lato vuol dire: santo, consacrato. Dall'altro lato: perturbante, pericoloso, proibito, impuro. L'opposto del tabù si chiama in lingua polinesiana noa, ossia “usuale”, “generalmente accessibile”. Di conseguenza col tabù è connessa la nozione di una sorta di riserva: esso si esprime infatti essenzialmente in divieti e restrizioni. Il significato del tabù potrebbe coincidere spesso con la nostra espressione “orrore sacro”» (ibidem, p. 27).
2. L'interpretazione freudiana del rapporto fra religiosità e organizzazione sociale primitiva. Da quanto detto si può intuire come Freud sia pronto per compiere l'ultimo passo: considerare l'animale totemico come un sostituto del padre, fonte di proibizioni e di comandi. E la spinta gli viene dagli studi di Darwin e di Atkinson, secondo i quali l'uomo primitivo viveva in orde nelle quali era assolutamente obbligatorio sottomettersi all'autorità di un padre dispotico. «Un certo giorno i fratelli scacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo così fine all'orda paterna. Uniti, essi osarono compiere ciò che sarebbe stato impossibile all'individuo singolo (forse un progresso nella civiltà, l'uso di un'arma nuova, aveva conferito loro un senso di maggiore forza). Che essi abbiano anche divorato il padre ucciso, è cosa ovvia trattandosi di selvaggi cannibali. Il progenitore violento era stato senza dubbio il modello invidiato e temuto da ciascun membro della schiera dei fratelli. A questo punto, nell'atto di divorarlo, essi realizzarono l'identificazione con il padre, ognuno si appropriò di una parte della sua forza. Il pasto totemico, forse la prima festa dell'umanità, sarebbe la ripetizione e la commemorazione di questa memoranda azione criminosa, che segnò l'inizio di tante cose: le organizzazioni sociali, le restrizioni morali e la religione. Per trovare credibili — a prescindere dalla premessa — queste conseguenze, basta ipotizzare che la schiera bellicosa dei fratelli riuniti fosse dominata dagli stessi sentimenti contraddittori verso il padre che possiamo rintracciare come contenuto dell'ambivalenza del complesso paterno in ognuno dei nostri bambini e dei nostri nevrotici. Essi odiavano il padre, possente ostacolo al loro bisogno di potenza e alle loro pretese sessuali, ma lo amavano e lo ammiravano anche. Dopo averlo soppresso, aver soddisfatto il loro odio e aver imposto il loro desiderio di identificazione con lui, dovettero farsi sentire i moti di affetto nei suoi confronti fino a quel momento rimasti sopraffatti. Ciò accadde nella forma del rimorso, sorse un senso di colpa che coincide in questo esempio con il rimorso collettivo. Morto, il padre divenne più forte di quanto fosse stato da vivo, secondo un succedersi di eventi che ravvisiamo ancor oggi nel destino degli uomini. Ciò che prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora spontaneamente nella situazione psichica dell'“obbedienza posteriore”, che conosciamo così bene attraverso la psicoanalisi. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l'uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili. In questo modo, prendendo le mosse dal loro filiale senso di colpa, crearono i due tabù fondamentali del totemismo (risparmiare l'animale totemico e vietare l'incesto), che proprio perciò dovevano coincidere con i due desideri rimossi del complesso edipico. Chi vi contravveniva si rendeva colpevole dei due soli delitti che preoccupavano la società primitiva» (ibidem, pp. 145-147).
Diverse quindi appaiono per Freud le soluzioni adattative per assicurare la sopravvivenza del gruppo: a) l'immagine del padre viene sacralizzata nel totem perché rappresenta l'antenato, è il modello ideale ed è oggetto di espiazione postuma, finalizzata all'abbassamento del senso di colpa; b) la libido sessuale è regolata con appropriati tabù, ossia con la proibizione dell'incesto, mentre viene ammessa l'esogamia, e con la proibizione dell'omicidio, fondando così la società su basi matriarcali; c) la libido è dirottata su altri oggetti, su attività non genitali. Ed è proprio sulla rinuncia all'esercizio della sessualità genitale e sulla necessità di superare il senso di colpa che si fonda l'inizio della religione, della morale, della cultura.
Infatti per Freud le religioni storiche ripropongono il classico schema dell'orda primordiale: capo amato e odiato, seguito e temuto; ucciso per liberarsene; riconosciuto grande dopo morto, divinizzato; religione come espiazione. «La religione totemica era nata dal senso di colpa dei figli, nel tentativo di attenuare questo sentimento e di riconciliarsi il padre offeso con l' “obbedienza posteriore”. Tutte le religioni successive si dimostrano altrettanti tentativi di soluzione del medesimo problema, tentativi che variano in relazione ai livelli di civiltà in cui vengono intrapresi e alle strade che imboccano; ma sono tutte reazioni rivolte allo stesso fine, reazioni al medesimo grande avvenimento con il quale ebbe inizio la civiltà e che da allora non dà pace all'umanità» (ibidem, p. 148).
3. Lettura freudiana del complesso di Edipo. In tutta la descrizione freudiana esiste una struttura di fondo che costituisce il nucleo a cui bisogna ricorrere per trovare la motivazione profonda: «il complesso di Edipo». Non c'è dubbio infatti che Freud abbia voluto offrire una soluzione unitaria a tutta la problematica che prende in esame, e questa è rappresentata dall'atteggiamento che si assume nei confronti del padre.
Gli studi di psicologia collettiva gli avevano fatto vedere che il padre rappresenta il tiranno dominatore che impone e detta le leggi e obbliga a metterle in pratica. I figli si ribellano e lo uccidono. Ma dopo la sua morte soffrono e avvertono il rimorso. Ed egli acquista importanza, appunto, dopo la sua uccisione. Le sue qualità risaltano maggiormente, poiché a causa del patto fraterno nessuno potrà uguagliarlo. Il comportamento ambivalente che ne consegue, e che ha come centro l'animale totemico, sostituto del padre, serve per manifestare tale complesso paterno di cui i figli soffrono. La coscienza della colpa collettiva condiziona tutto un comportamento che Freud chiama religioso. Nasce così la religiosità come culto a un padre e come frutto di un complesso paterno.
Nella psicologia del singolo è più facile vedere all'opera tale complesso. Esso viene collocato attorno al quinto anno di vita ed ha le seguenti caratteristiche dinamiche: il padre viene visto come fattore disturbante; la libido, fino ad allora canalizzata sull'oggetto materno, trova un ostacolo nella figura paterna; il padre appare più potente e precede il bambino nel possesso affettivo della madre; il bambino avverte il desiderio di uccidere il padre, per potersi impossessare della madre; la paura di essere castrato fa sì che il bambino avverta la sua impotenza e, dilaniato da un forte senso di colpa, si veda costretto a piegarsi al principio della realtà; ne deriva un atteggiamento ambivalente nei confronti del padre: odio e ammirazione.
Il riflesso sulla religiosità è per Freud immediato. «Dalla ricerca psicoanalitica condotta sul singolo individuo — egli scrive — risulta con particolarissima insistenza che il dio si configura per ognuno secondo l'immagine del padre, che il rapporto personale con il dio dipende dal rapporto che si ha con il padre carnale, oscilla e si trasforma con lui, e che in ultima analisi il dio altro non è che un padre a livello più alto. Anche qui, come già nel caso del totemismo, la psicoanalisi ritiene giusto prestar fede ai fedeli, i quali chiamano Dio col nome di Padre, così come chiamavano progenitore il totem. Se la psicoanalisi merita qualche considerazione, all'elemento paterno dell'idea di dio dev'essere attribuita una grande importanza, a prescindere da tutte le altre origini e significati dell'idea di dio, sui quali la psicoanalisi non è in grado di far luce» (ibidem, pp. 150-151). Ne deriva che la religione è accompagnata e seguita dal senso di colpa, appartiene alla sfera del “Super Io”, deriva dalla repressione della libido sessuale che si disloca su una figura ingigantita. In questo senso è utile, fa bene, almeno nel periodo infantile dell'umanità (controlla l'aggressività), ma è destinata a scomparire perché il controllo è dentro di sé e non c'è bisogno di ricorrere al padre.
Lo schema proposto da Freud per l'origine della religione primigenia e della religione ebraico-cristiana, se preso alla lettera, va necessariamente incontro a molte critiche e obiezioni storiche, etnologiche, sociologiche, teologiche, ma anche psicologiche. Perciò, egli stesso riconosce la mancanza di storicità al racconto; insinua che si tratta semplicemente di un “apologo psicologico”, sotto cui si cela simbolicamente un processo che ritiene universale e che pensa di aver potuto scoprire nell'analisi clinica dei processi di maturazione genetica dell'uomo di oggi. È probabile — riconosce Freud — che non sia avvenuta “realmente” nessuna uccisione del padre, né in illo tempore, né al tempo di Mosè; è invece realistico pensare che si siano prodotti dei rapporti ambivalenti tra padre e figli, sfociati nella necessità di disciplinare la libido e, di qui, nello sviluppo di sentimenti religiosi, della morale, della cultura.
L'uccisione del padre può essere anche solo mentale, a livello di desiderio, ma il quadro psichico che l'accompagna è in grado di dare origine alle nuove condotte analizzate. La ricostruzione “storica” di Freud non è dunque per nulla storica; è un “genere letterario”, è una sorta di “proiezione a ritroso” di alcune strutture psichiche che egli ritiene universali nel tempo e nello spazio. Il primum non è l'uccisione “reale” del padre primigenio, ma è il processo di maturazione del complesso di Edipo che egli ritiene si verifichi in ogni gruppo umano in cui ci siano un padre, una madre, un figlio.
VI. La religione nelle altre maggiori opere freudiane
1. L'avvenire d'una illusione. Mentre in Totem e tabù Freud utilizza un punto di vista storico nella ricostruzione, talora fantastica, della religione, ne L'avvenire d'una illusione (1927) si colloca in una prospettiva squisitamente razionale. Interrogandosi infatti sulla religiosità dell'adulto, egli intende mostrare che la civiltà, di cui la parte forse più importante è costituita dalle rappresentazioni religiose, è fondata sulla rinuncia all'istintualità, sulla base di repressione e di frustrazione. Di conseguenza la religione non ha alcunché di reale, ma è una pura e semplice illusione.
La tesi fondamentale del libro è appunto che l'illusione è la religione e il suo avvenire è in realtà quello di non avere avvenire, di scomparire dal bagaglio degli atteggiamenti umani, man mano che la mentalità infantile, delirante, prescientifica dell'uomo religioso cederà il posto alla lucida acquisizione razionale di una “vita ostile”, ma reale, senza illusioni, man mano che nell'uomo verrà attuandosi il «primato dell'intelletto», che è «senz'altro in un futuro molto, molto lontano, ma probabilmente non indefinitamente lontano» (L'avvenire d'una illusione, p. 482). «Caratteristico dell'illusione è il suo derivare dai desideri umani; [l'illusione] non necessariamente è falsa, cioè irrealizzabile o in contraddizione con la realtà [...]. Diciamo dunque che una credenza è un'illusione qualora nella sua motivazione prevalga l'appagamento di desiderio, e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà, proprio come l'illusione stessa rinuncia alla propria convalida» (ibidem, p. 461). Si comprende quindi come Freud, mentre non nasconde l'estremo interesse nei confronti della religione come fenomeno psicologico individuale e collettivo, tuttavia la ritenga un'illusione, di cui deve sbarazzarsi chi si affida ai princìpi della ragione.
Punto di partenza è la considerazione delle grandi frustrazioni dell'umanità: l'impotenza di fronte all'ostilità della natura; l'impotenza di fronte alla legge ineluttabile del destino e della morte; l'impotenza di fronte ai disagi inerenti al vivere sociale. Incapace di sopportare il suo stato di frustrazione radicale e strutturale, l'uomo si rifugia in un'immaginazione rassicurante: le rappresentazioni religiose, l'idealizzazione di un padre buono. In tale prospettiva «gli dèi serbano il loro triplice compito: esorcizzare i terrori della natura, riconciliarsi con la crudeltà del fato, specialmente quale si manifesta nella morte, risarcirci per le sofferenze e per le privazioni imposte dalla civile convivenza» (ibidem, pp. 447-448). Il richiamo al padre buono è l'illusoria proiezione di un desiderio infantile dinanzi alle gravi difficoltà della vita. Le rappresentazioni religiose «non sono esiti dell'esperienza o risultati conclusivi di un'attività di pensiero, ma sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell'umanità; il segreto della loro forza sta nella forza stessa di questi desideri» (ibidem, p. 460).
Fondata sulla nostalgia di un padre consolatore, la religione sarebbe, in conclusione, un delirante sistema di dottrine e di promesse che offre all'uomo un'interpretazione rassicurante del mondo, retto da una Provvidenza benevola che tutto spiega e che a tutto viene incontro. Il prezzo di questa illusione è la fissazione o regressione ad un infantilismo psichico. La religione perciò sarebbe un freno e un ostacolo alla maturazione dell'individuo e della collettività, al progresso scientifico, allo sviluppo di un maturo senso etico, alla ricerca della felicità umana.
2. Il disagio della civiltà. Sviluppando e approfondendo il filone degli studi psicoanalitici sulle grandi costruzioni sociali, etiche e religiose della civiltà umana, nell'opera Il disagio della civiltà (1929) Freud si chiese: «Cosa cercano gli uomini come scopo e intenzione della loro vita?», e trovò come risposta che essi «tendono alla felicità, vogliono diventare e rimanere felici. Questo desiderio ha due facce, una meta positiva e una negativa: mira da un lato all'assenza del dolore e del dispiacere, dall'altro all'accoglimento di sentimenti intensi di piacere» (Il disagio della civiltà, p. 568). Tuttavia, le possibilità di felicità sono limitate a causa di tre fonti di sofferenza: la forza soverchiante della natura, la fragilità del corpo umano e l'inadeguatezza delle istituzioni che regolano le reciproche relazioni degli uomini nella famiglia, nello Stato e nella società.
C'è un eterno contrasto tra l'amore e gli interessi della cultura. Da un lato l'amore che è esclusivo e vede negli estranei degli intrusi, dall'altro la civiltà che cerca di regolare le passioni erigendo severi tabù. Gli uomini hanno cercato di eludere questo antagonismo negandolo. Un esempio sarebbe per Freud il comandamento del cristianesimo: ama il prossimo tuo come te stesso. Amare tutti però significa non amare fortemente nessuno. Inoltre, il prossimo non merita in genere il nostro amore: «Devo confessare onestamente che egli ha più diritto alla mia ostilità, anzi al mio odio».
L'appello cristiano all'amore universale è così insistente e così assoluto proprio perché esso appare una difesa indispensabile e urgente contro l'aggressività e la crudeltà umana. L'uomo non è una creatura nobile, amorevole, amabile, «ma può contare piuttosto, nel suo corredo istintuale, una parte cospicua di tendenze aggressive». I due grandi antagonisti, l'amore e l'odio, lottano per assicurarsi il controllo della vita sociale dell'uomo, nonché del suo inconscio, secondo le medesime modalità e con le stesse tattiche. L'aggressività visibile è la manifestazione esteriore di una invisibile pulsione di morte. «Ed ora, mi sembra, il significato dell'evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione, come si attua nella specie umana. Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l'evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana. E questa battaglia di giganti vorrebbe placare le nostre bambinaie con la “canzone del premio celeste!”» (ibidem, p. 609).
3. L'uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi. L'ultima opera nella quale è presente e vivo il tema religioso è L'uomo Mosè e la religione monoteistica, del 1939. Si tratta di un libro singolare in cui Freud manifesta uno spirito di sfida nel proclamare la sua origine ebraica. Esso però sembra voler ferire gli ebrei, anziché difenderli. Inoltre rappresenta un curioso prodotto basato su mere ipotesi. La stessa forma letteraria è insolita: tre saggi, collegati strettamente, ma con lunghezza diversa (Mosè egizio: rapido schizzo di una manciata di pagine; Se Mosè era egizio: quattro volte più lungo del precedente; Mosè, il suo popolo e la religione monoteistica: più spazio dei primi due messi insieme, con due prefazioni e una terza a metà del saggio).
Volendo rintracciare le premesse storiche di tale scritto occorre ricordare che nel 1909, in occasione della seconda traumatica scissione avvenuta all'interno della Società Internazionale di Psicoanalisi, Freud paragonò Jung a Giosuè che si appropriò della terra promessa della psichiatria, mentre lui (che nell'analogia rappresentava Mosè) era destinato ad ammirarla solo da lontano. Nel 1914, inoltre, pubblicò uno studio anonimo sulla famosa statua del Mosè di Michelangelo (dopo essersi fermato a lungo a contemplarla nel corso delle visite fatte a Roma nel 1901 e nel 1912). Nel 1934 poi, scrivendo ad Arnold Zweig, Freud dichiarò che Mosè era «un forte antisemita», che «non nascondeva di esserlo. Forse era in realtà un egizio. E aveva comunque ragione». A Lou Salomè infine scrisse di aver combattuto con «il problema di che cosa abbia effettivamente contribuito a creare il carattere particolare degli ebrei». Il suo interesse in quel momento era per il mistero dell'essenza ebraica. La conclusione fu: «L'ebreo è una creazione dell'uomo Mosè», che era un aristocratico egizio. Chi fosse questo Mosè è l'interrogativo che intese risolvere con «una sorta di romanzo storico». L'opera completa uscì nell'autunno del 1938, anche se l'editore vi impresse la data del 1939.
Le prime due parti dello scritto sono moderatamente rivoluzionarie. L'idea che Mosè fosse egizio era infatti già stata avanzata, partendo dall'analisi etimologica del nome, da eminenti studiosi e ad essi Freud fa esplicito riferimento fin dalle prime pagine del saggio. Essendo quindi Mosè un nome egizio, la storia che una principessa egizia scoprì il bambino tra i giunchi appare, almeno agli anticlericali, un trasparente alibi, una spiegazione «chiaramente inadeguata» (ibidem, p. 338). Inoltre, non nuovi né specifici ai tempi di Freud erano i dubbi sul libro dell'Esodo, fondati in modo particolare sulla difficoltà a spiegare l'esclusione di Mosè dalla terra promessa e a trovare un accordo sulle circostanze della sua morte. Mentre Voltaire nel 1764 si domandava: «È esistito davvero un Mosè?», e mentre lo storico Eduard Meyer sosteneva nel 1906 che Mosè, più che un personaggio reale, era una leggenda, Freud ribadì — come aveva fatto Max Weber nel suo studio sull'antico giudaismo — che Mosè non era un ebreo.
Triplice è la prospettiva lungo la quale Freud si mosse per esporre le sue tesi fondamentali, anche se esse non coincidono con la suddivisione dell'opera. L'affermazione della estraneità di Mosè al popolo ebreo viene dedotta sia dall'analisi linguistica del nome che, a dire dello stesso Freud, non riscuote molti consensi, e sia dalla «leggenda dell'esposizione» sulle acque del Nilo, secondo cui «il faraone sarebbe stato avvertito, da un sogno profetico, che un figlio della figlia avrebbe minacciato lui e il suo regno», e quindi «avrebbe [...] fatto esporre nel Nilo il bambino dopo la nascita. Ma questi sarebbe stato salvato da certi Ebrei e allevato come loro figlio» (ibidem, p. 343). Attorno al 1375 a .C., inoltre, il faraone Amenofi IV introdusse per un breve periodo un rigido e intollerante monoteismo, il culto di Atòn, la cui dottrina fu trasmessa al popolo ebraico, allora in schiavitù, da Mosè, nobile egizio di rango elevato. Tale austera ed esigente teologia cadde però su un terreno sassoso: infatti, gli ebrei che vagarono nel deserto adottarono un Dio (Jahvè) rozzo, vendicativo, assetato di sangue.
In una monografia del 1922, cui Freud si rifece abbondantemente, Ernst Sellin avanzò l'ipotesi che Mosè fosse stato assassinato dal popolo che guidò fuori dall'Egitto e dopo la sua morte la sua religione fu abbandonata. Una tale ipotesi era fondata sull'interpretazione della rivolta di Shittin, descritta nel libro del profeta Osea: «Efraim provocò Dio amaramente, il Signore gli farà cadere addosso il sangue versato e lo ripagherà del suo vituperio. Quando Efraim parlava, incuteva terrore, era un principe in Israele. Ma si è reso colpevole con Baal ed è decaduto. Tuttavia continuano a peccare e con il loro argento si sono fatti statue fuse, idoli di loro invenzione, tutti lavori di artigiani. Dicono: “Offri loro sacrifici” e mandano baci ai vitelli» (Os 12,15 – 13,1-2). Pur se eccessivamente audace e scarsamente documentata, l'ipotesi apparve a Freud fortemente plausibile, anzi probabile, in quanto «permette di continuare a dipanare il nostro filo, senza contraddire risultati degni di fede della ricerca storica» (ibidem , p. 364). Jahvè restò per circa otto secoli il Dio del popolo ebraico, finché un nuovo profeta, che assunse il nome di Mosè, li costrinse a sottostare alla fede che il precedente Mosè aveva invano cercato di imporre loro.
La “verità storica” su Mosè portò quindi Freud a riprendere e rielaborare l'interpretazione psicologica della religione, già avanzata nelle opere precedenti, offrendone una chiave di lettura dal punto di vista sociale, quale causa di nuovo progresso. A suo parere infatti «i fenomeni religiosi devono essere evidentemente assegnati alla psicologia delle masse» (ibidem, p. 395), pur mantenendo sempre la prospettiva totemica e la venerazione di un sostituto paterno. E applicando il suo tema del «ritorno del rimosso» (ibidem, p. 444), egli ritenne che, «se si accetta la [...] presentazione della storia primordiale come complessivamente credibile, si riconoscerà nelle dottrine e nei riti religiosi un duplice elemento: da un lato il fissarsi all'antica storia familiare, le reminiscenze di essa, dall'altro il rinnovarsi del passato, i ritorni del dimenticato, dopo lunghi intervalli» (ibidem, p. 406). Si tratta quindi di un aspetto «finora trascurato, e per questo non compreso», grazie al quale è possibile spiegare la forza che la fede religiosa esercita sulle masse. «Mette particolarmente conto rilevare il fatto che ogni porzione del passato che ritorna dall'oblio s'impone con forza particolare, esercita un potere incomparabile sulle masse umane e pretende irresistibilmente di esser tenuto per vero, mentre l'obiezione logica resta impotente. Al modo del Credo quia absurdum.Questa peculiarità notevole può intendersi solo facendo ricorso al modello del delirio degli psicotici» (ibidem, p. 407).
E tale forma psicotica delirante è possibile che si sia trasformata in fattore di progresso in collegamento con il sorgere del monoteismo. «Gli Ebrei si considerano veramente il popolo eletto da Dio, credono di essergli particolarmente vicini e questo li rende fieri e sicuri. [...] Fu l'uomo Mosè a scolpire nel popolo ebraico questa impronta indelebile. Egli accrebbe la presunzione degli Ebrei assicurandoli che erano il popolo eletto da Dio, diede loro la consacrazione e li obbligò a distinguersi dagli altri. Non che gli altri popoli mancassero di presunzione. Allora come oggi ogni nazione si considerava migliore di ogni altra. Ma con Mosè la presunzione degli Ebrei mise radice nella religione e divenne una parte della loro fede religiosa. In virtù della loro relazione particolarmente intima con il loro Dio gli Ebrei furono resi partecipi della sua grandezza. E considerato che dietro il Dio che aveva prescelto gli Ebrei e li aveva liberati dagli Egizi c'era la persona di Mosè, il quale aveva fatto proprio questo, apparentemente per ordine divino, non è avventato dire che l'uomo Mosè creò, lui, gli Ebrei. A lui questo popolo deve la sua estrema tenacia ma anche molta dell'ostilità che ha incontrato e tuttora incontra» (ibidem, pp. 425-426). E causa importante di progresso fu anche la proibizione di farsi un'immagine di Dio, in quanto consentì di «posporre la percezione sensoriale alla rappresentazione cosiddetta astratta, un trionfo della spiritualità sulla sensibilità, a rigor di termini una rinuncia pulsionale con le necessarie conseguenze psicologiche» (ibidem, p. 431).
Seguendo le pagine dell'opera freudiana, emerge con chiarezza che Mosè fu un fondatore assassinato dai suoi seguaci che, incapaci di innalzarsi al suo livello, ereditarono le conseguenze del loro crimine e si redensero sotto il peso del suo ricordo. Il che corrisponde alla fantasia congeniale a Freud che, già in Totem e tabù, aveva postulato un analogo crimine alla base della cultura umana. Freud interpretò l'assassinio di Mosè ad opera degli ebrei come una ripetizione del delitto primevo contro il padre. In quanto riedizione di un trauma preistorico, esso rappresentò il ritorno del rimosso. Pertanto, il racconto cristiano di un Gesù senza macchia, che si sacrificò per l'umanità peccatrice, doveva nascondere «naturalmente opportunamente distorto» un altro crimine del genere.
Freud si chiese: «Come può [...], chi è innocente dell'assassinio, prendere su di sé la colpa degli assassini consentendo di essere ucciso? Nella realtà storica tale contraddizione del genere non si dava. Il “redentore” non poteva essere altri che il primo colpevole, il caporione della banda dei fratelli che avevano sopraffatto il padre» (ibidem, p. 408). Ovviamente egli non ritenne necessario affermare che tale crimine fosse avvenuto o se questo capo ribelle fosse mai esistito. Se il delitto è solo immaginario, «Cristo è l'erede di una fantasia di desiderio rimasta inappagata»; se vi fu, «Cristo [...] è il successore e la reincarnazione» del grande criminale (ibidem, p. 409). Quale che sia la verità storica, la «cerimonia cristiana della santa comunione», sarebbe una ripetizione di questo antico pasto totemico, sia pure in una versione incruenta e accettabile.
Il giudaismo e il cristianesimo comunque, pur avendo in comune molte affinità, differiscono profondamente soprattutto nel rispettivo atteggiamento nei confronti del padre. «È degna di nota la maniera in cui la nuova religione s'acconciò all'antica ambivalenza nel rapporto con il padre. Il suo contenuto principale fu sì la riconciliazione con Dio Padre, l'espiazione del delitto commesso contro di lui, ma l'altro lato della relazione emotiva compariva nel fatto che il figlio, che aveva preso su di sé l'espiazione, divenne egli stesso dio accanto al padre e propriamente al posto del padre. Scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di doversi sbarazzare del padre» (ibidem, p. 452).
VII. Riflessioni conclusive
Una valutazione conclusiva del pensiero di Freud e delle teorie della psicoanalisi non può non registrare alcune contraddizioni in cui cadono le tesi freudiane, sempre in bilico tra una visione scientista della teoria e una visione fenomenologica della prassi terapeutica. Freud stesso percepiva la difficoltà di fondare la psicologia sulle basi della fisica e della meccanica biologista, e allo stesso tempo affrontare attraverso la psicoanalisi i problemi dell'esistenza umana, religione compresa, legati alla psiche. Da qui la crisi della sua antropologia filosofica e della sua metapsicologia, un tentativo di sistematizzazione scientifica della psicologia che sapesse inquadrare in un'otticascientista l'uomo e il suo mondo, liberandolo dalla metafisica e dai miti che da essa derivavano, come quelli dell'idea di Dio e della religione. Nella Lezione 35 dell' Introduzione alla psicoanalisi dirà che «pur non essendo unaWeltanschauung », la psicoanalisi non può che riferirsi a Eine Weltanschauung , cioè ad un'unica visione del mondo, quella della Scienza (ipostatizzata positivisticamente), fuori della quale non v'è verità e alla quale, secondo lui, si oppongono senza possibilità di conciliazione tutte le religioni. In questo senso, il vecchio illuminismo settecentesco sembra qui ammantarsi della versione atea ottocentesca (cfr. Magnani, 1996, p. 58).
La scelta di Freud per una metapsicologia fisicalista e biologista è condizionata dalla sua volontà di dare una spiegazione meccanicistica del funzionamento della psiche, che fosse accettabile dallo Zeitgeist del suo tempo, ma la sua elaborazione metapsicologica è anche espressione di una “razionalizzazione” del problema religioso. La riduzione della qualità a quantità, mediante un'unica energia che cresce e decresce come quella fisica, si muove all'interno di un determinismo universale che esclude la libertà, eliminando anche il problema religioso (l'idea di Dio) e morale (la scelta, la decisione, il libero arbitrio). In questo senso si parla di riduzionismo freudiano verso la morale e la religione. Il primato dell'inconscio (vita pulsionale) e del complesso edipico (motore universale della vita psichica e del processo di ominizzazione), sostenuto dal postulato della sublimazione, mantiene l'unità onniesplicativa della metapsicologia riduzionista, che appunto riduce il conscio ad una percezione-coscienza dell'Io-corpo e interpreta gli aspetti esistenziali della cultura umana, la religione e la morale, come esplicitazioni verso l'esterno delle nevrosi ossessive.
Ponendo all'inizio della sua costruzione l'idea dell' homo natura , Freud interpreta la storia come uno sviluppo unicamente naturale e spiega l'arte, il mito, la religione in base a questa natura e a questa storia. Ma in questo modo egli non incontra l'uomo quale si dà nella sua esperienza propriamente umana, nella sua dimensione antropologica, bensì l'uomo che si ottiene proprio dalla preliminare distruzione di questa esperienza. L'Urmensch freudiano non rappresenta l'origine o l'inizio della storia umana, ma un'esigenza della ricerca naturalistica che riduce la totalità dell'esperienza umana a una particolare modalità d'esperienza. Invece, in una visione dell'uomo non naturalistica ma globale, ossia capace di descrivere la sua dimensione storica e temporale di essere-nel-mondo, i fenomeni indicati dalla psicoanalisi come identificazione, transfert, resistenza, vengono intesi non come proprietà di un apparato psichico, ma come effettive relazioni interumane, perché né l'organo cerebrale della psichiatria classica, né l'apparato psichico della teoria psicoanalitica sono, di per sé e in quanto tali, capaci di recepire o percepire qualcosa, ma lo è solo l'essere umano nella sua totalità.
La debolezza logica del paradigma freudiano era stata segnalata già da Wittgenstein e poi da Popper. In generale, i filosofi della scienza hanno rivolto la loro attenzione a studiare e controllare la verificabilità o la falsificabilità delle principali proposizioni della psicoanalisi freudiana, accusando spesso Freud di non essere riuscito a dimostrare la scientificità della psicoanalisi come “scienza naturale”. Anche oggi i critici di Freud, insieme a molti psicoanalisti credenti, separano la teoria psicoanalitica freudiana, da lui inquadrata nel paradigma scientifico positivista, dalla prassi clinica, costretta a confrontarsi con la globalità dell'uomo, che necessita un approccio fenomenologico, e non di rado metafisico, ritenendo di dover pertanto superare un fisicalismo e un biologismo naturalisti. Va anche rilevato che nella pratica dell'analisi terapeutica, nonostante l'implicita negazione della libertà contemplata da un paradigma determinista e naturalista, Freud invitava il soggetto a esprimere verbalmente tutto ciò che gli passava per la mente, per libera associazione. Sono infatti proprio quei fattori collegati alla libertà del paziente, come le modalità dell'enunciazione che traspaiono nell'atteggiamento, nel comportamento, nell'espressione mimico-gestuale — e che non si colgono con alcuna teoria, bensì solo con la percezione diretta — a essere importanti più dello stesso contenuto enunciato.
Sono molti oggi coloro che considerano la psicoanalisi come una “psicologia della comprensione” e non la ritengono traducibile, in quanto teoria clinica e terapia, in termini di una pura scienza naturale, come avrebbe voluto invece Freud. Alcuni hanno suggerito di abbandonare la teoria sessuale freudiana proprio allo scopo di recuperare alcune intuizioni cliniche dello psicanalista viennese, liberandole dalla struttura metapsicologica che ne condizionava la valorizzazione. Altri hanno richiamato l'attenzione sul rapporto di transfert, proponendo di intenderlo nel quadro di una più equilibrata e profonda visione del dialogo tra analista e paziente. Tra i filosofi va ricordato il saggio di Paul Ricoeur Della interpretazione. Saggio su Freud (1965), ove si analizzano i rapporti fra interpretazioni dei sogni, desideri del soggetto e linguaggio simbolico, mostrando che al di sotto dell' homo natura , legato alla metapsicologia razionalizzatrice della visione scientista, appare un homo interpres irriducibile alle categorie biologiche anche là dove, come nelle nevrosi, ne sembra più soggetto (cfr. Magnani, 1996, p. 47).
Nella psicoanalisi sembrano oggi permanere due linee: una esplicativa, più vicina alle scienze naturali, e l'altra interpretativa, che integra i contributi provenienti dalla riflessione esistenziale e fenomenologica. Nell'ottica di un'antropologia aperta alla trascendenza dell'essere umano, che rivaluta le istanze positive dell'esistenzialismo e la fenomenologia applicata alla psicoanalisi, è importante, assieme agli apporti di M. Scheler, M. Buber, L. Biswanger e K. Jaspers, ricordare soprattutto quello di
Viktor Frankl (1905-1997), il quale, oltre ad aver elaborato un approccio che supera e combatte una comprensione antropologica basata sul complesso edipico e sul complesso di colpa, ha centrato la ricerca della pratica terapeutica su una visione della persona umana aperta verso il continuo trascendimento della contingenza e la ricerca non frustrata di senso, e quindi libera di superare ogni cieco determinismo attraverso la scelta, la volontà e la responsabilità. La «logoterapia» sviluppata da Frankl è “terapia della parola” che si struttura attraverso il dialogo e la scoperta del logos nell'incontro intersoggettivo autotrascendente, capace di rivelare il significato di sé e dell'altro nella relazione, e che resta costitutivamente aperta, proprio sulla via di quella “ragione” che anche Freud intendeva in ultima analisi seguire, alla trascendenza di un incontro con un Tu e con un Dio personale.