I. La nascita dell'arte medica in ambiente greco - II. La medicina e il cristianesimo - III. La nascita degli ospedali nel seno della cristianità - IV. L'affermarsi della medicina scientifica - V. La medicina, scienza della natura o scienza dell'uomo? VI. La medicina scienza, arte e pratica etica - VII. La Chiesa e la medicina oggi: alcuni spunti dal magistero ecclesiale.
Tra i vari ambiti del sapere la medicina occupa un posto certamente particolare. Disciplina di originaria dignità universitaria, essa riunisce gli aspetti di una scienza, teorica e sperimentale, e quelli di un'arte pratica; soprattutto si presenta con un oggetto assai peculiare, per il quale ogni definizione non potrebbe essere che riduttiva: l'essere umano con le sue esperienze di salute e di malattia, di benessere e di sofferenza. Costitutivamente aperta all'interdisciplinarità, la medicina incontra all'interno del suo orizzonte lo sbocciare della vita, ma anche il suo termine: l'uomo può essere aiutato a prevenire e guarire le sue malattie, può riacquistare la salute, ma non può evitare in maniera definitiva la morte. La medicina è inerente alla stessa condizione umana: anche se ha in comune con gli animali superiori la sensibilità al dolore, l'uomo soltanto ha il potere di prestare aiuto a se stesso e agli altri esseri umani con atti specifici che costituiscono una prassi ed una tradizione universale fondata sulla compassione (lat. cum pati, soffrire insieme), radice della stessa moralità. Le cure mediche sono un esercizio della compassione tra esseri umani: l'uomo che patisce un'affezione è, in tal senso, un "paziente". Curare vuol dire prendersi cura del paziente. Il rapporto tra vulnerabilità (malattia) e compassione (cura) costituisce la struttura etico-antropologica della medicina di ogni epoca, anche quando viene messo in evidenza il suo fine di custodire la salute e servire la vita. Non c'è malattia senza salute e non c'è salute senza malattia. I concetti di salute e di malattia non possono essere fissati in termini oggettivi, una volta per sempre. È necessario inserire le esperienze universali di sofferenza e di malattia, in una visione del mondo, dell'uomo e dello sviluppo scientifico della medicina che permetta di comprendere la loro natura, le cause e i modi possibili di prevenirle e di curarle. Poiché la malattia si manifesta, mentre il prodigio della salute si nasconde (cfr. Gadamer 1994, p. 113), sono più numerosi i tentativi di definire la malattia che non la salute, sinonimo di benessere e, in senso pieno, di salvezza.
Le pratiche mediche più antiche erano una mescolanza di interventi empirici, di cui si ignorava la reale causa della efficacia o inefficacia, e di magia, che attribuiva il motivo del dolore e della malattia a forze esterne misteriose, dominabili con procedure enigmatiche riservate ad alcuni membri della tribù i quali, dovutamente iniziati, godevano di speciali poteri curativi. Il mondo della medicina rimane per molti secoli - ed ancora oggi in molte culture - profondamente legato al mondo mitico-religioso. Le conoscenze empiriche terapeutiche si sono col tempo accumulate, arricchite e trasmesse, dando luogo ad un insieme di tecniche curative di cui sono depositarie le diverse culture della terra. Sarà nella Magna Grecia ove nei secoli VI-V a.C. verrà enucleata una vera razionalità medica, fondamento della medicina scientifica. È importante notare che tale sviluppo non segnerà un rifiuto della religione. Il razionalismo medico si sforzerà di spiegare la malattia in termini naturali ma non è, per questo, necessariamente ateo. «La medicina si trova in uno stato di incompatibilità e di tensione con la religione in quei casi, peraltro relativamente rari, in cui la concezione religiosa di benessere non include il benessere del corpo, o in cui la religione considera leciti per il mantenimento o il ripristino della salute fisica esclusivamente mezzi di tipo religioso» (Amundsen, 1996, p. 356). Anche oggi accanto alla medicina (scientifica e alternativa) coesistono altre pratiche di guarigione, tentativi diversi di risposta alla malattia e di cura della propria salute. Sussiste la magia, come pratica non esclusiva dei popoli primitivi. In ambito religioso incontriamo la preghiera, richiesta piena di speranza di un intervento miracoloso di Dio, che non rappresenta una prassi incompatibile né con il ricorso alle cure mediche, né con il progresso delle condizioni di vita (Kee, 1993, p. 17ss).
I. La nascita dell'arte medica in ambiente greco
Il razionalismo medico greco segna il passaggio delle pratiche e delle conoscenze mediche da una fase mitico-religiosa ad un'altra che possiamo considerare "scientifica", in cui si cerca di conoscere la causa di fenomeni naturali (le malattie) che influenzano il comportamento umano in modo da renderlo inadatto al compimento delle sue funzioni fisiche e sociali, diminuendo la sua vitalità fino a poter causare la morte. Il raggiungimento del livello scientifico delle conoscenze mediche coincide con lo sviluppo delle arti (gr. téchnai) ed ha una specifica matrice culturale. La téchne medica si colloca alle soglie di ciò che definiamo scienza ed implica la conoscenza dell'universale. «Una téchne è un sapere intorno a qualche cosa e alla sua natura che sia diretto a giovare agli uomini, e che perciò si attua pienamente, anche in quanto è sapere, solo nell'applicazione pratica» (Jaeger, 1990, vol. III, p. 36). Secondo Gadamer (1994), l'arte medica costituisce una forma peculiare di sapere pratico, non è la semplice applicazione di un sapere teorico. Il modello di téchne è la medicina che, sulla base della conoscenza della natura umana sana, conosce anche il suo contrario, la natura malata, e perciò può trovare la via della guarigione per ricondurla allo stato normale.
1. La medicina ippocratica. Dalle esperienze e dalle indagini dei medici della Magna Grecia (a Crotone, Rodi, Cnido, Kos) derivano le prime conoscenze mediche perseguite con un metodo scientifico che molto deve alle spiegazioni causali dei fenomeni da parte dei filosofi naturalistici ionici. Nell'ambito del razionalismo eziologico di questi filosofi, verso la metà del V secolo a.C., la scienza medica compie i suoi primi passi. Per la sua fama ed il suo prestigio, Ippocrate, capo della scuola di Kos, dà il nome ad un insieme di opere mediche designato Corpus Hippocraticum . Il Corpus costituisce il fondamento più antico ed importante di una scienza medica dotata di un suo proprio statuto epistemologico.
La medicina si costituisce scienza «nel conflitto fecondo con la filosofia, che valse a darle chiara consapevolezza di metodo e la rese capace di elaborare l'espressione classica e perfetta del concetto di scienza a lei proprio» (Jaeger, 1990, vol. III, p. 5). Fu la medicina, e non la filosofia, a elaborare il concetto di una "natura umana" che rimane costante nelle linee essenziali in ogni tempo (cfr. ibidem, p. 10). Il concetto di natura umana ippocratico è inserito nel concetto di natura come totalità cosmica. La malattia non è un fenomeno isolato: l'uomo malato fa parte della totalità della natura ed è soggetto alle leggi universali che la governano. La medicina ippocratica è la scienza del corpo umano soggetto a tali leggi cosmiche e concepito egli stesso come un microcosmo. La base di questa medicina è la conoscenza delle leggi con le quali l'organismo umano reagisce agli effetti delle forze che regolano l'universo, nel suo stato normale come in quello patologico.
Si tratta di un sapere autentico sull'uomo, colto nel suo confrontarsi con la malattia e con la morte. Mediante questo studio l'uomo acquista la consapevolezza che la struttura finita del suo essere non è il segno dell'opposizione esercitata su di lui da forze occulte; il sapere medico, rientrando nelle possibilità della ragione, avrà la possibilità di rendere più lontano il limite pur sempre invalicabile della morte: «solo contro la morte non ha scampo, ma pure a malattie invincibili ha trovato rimedi» (cfr. Sofocle, Antigone, vv. 355-360). L'arte della medicina non è però capace di «allontanare tutte le malattie» (cfr. Eschilo, Prometeo, vv. 482ss).
Dal punto di vista religioso, la struttura teoretica della medicina ippocratica è neutrale. Consente di dare spiegazioni di natura divina sulla causa ultima, attribuisce cioè ai processi naturali una causalità prossima nell'ambito di un cosmo ordinato dalla divinità a cui l'uomo è strettamente congiunto. Il rifiuto ippocratico di un intervento divino nel processo della malattia, e di conseguenza il rifiuto di ogni terapeutica magica mirante a calmare la collera divina, coesiste con il dichiarato rispetto della divinità. Il medico ippocratico sostituisce ad una giustizia divina, più o meno oscura, un ordine dell'universo, divino e naturale, che rende conto di tutte le malattie, compreso il male detto "sacro" (l'epilessia), considerato dai contemporanei più divino degli altri. In Ippocrate si osserva un adeguamento del divino al naturale, nel senso che il divino si manifesta nella regolarità stessa delle leggi naturali (cfr. Jouanna, 1993, pp. 26-28).
La parola greca ánthropos , essere umano, ritorna spesso negli scritti ippocratici. Di fronte a sé il medico aveva prima di tutto un essere umano (cfr. Jouanna, 1994, pp. 112ss). Il fine della medicina si cristallizza nella massima delle Epidemie (I, 5): «nelle malattie, avere due cose in vista: essere utile o almeno non nuocere». Se non riesce ad essere utile, il medico non deve aggravare lo stato del malato con un intervento intempestivo, mosso dalla ricerca smodata di successo. La riflessione del medico ippocratico sulla propria arte sfocia nel Giuramento, testo fondamentale dell'etica medica che riceve dal cristianesimo valenza universale rimanendo in vigore nel corso dei secoli (cfr. Gracia Guillen, 1988).
L'arte medica deve lottare contro il prevalere di teorie filosofiche sostenute anche da medici pratici, come Empedocle. Il medico ippocratico, fiero delle sue conquiste, frutto di un'attenta osservazione dei particolari e tutto immerso nella cura del malato, tiene a bada le speculazioni dei filosofi naturalisti e configura una volta per sempre la scienza medica come arte indipendente (cfr. Jaeger, 1990, vol. III, p. 32-33). Nel suo trattato L'Arte , Ippocrate risponde ai detrattori dell'arte medica, dimostrando che questa esiste e ha il potere di guarire e di attenuare i mali nei limiti che le sono dati: è la nascita dell'epistemologia medica (cfr. Jouanna, 1993, pp. 35-39; 1994, p. 247ss). La confutazione ingloba, nella sua parte introduttiva, la difesa di tutte le arti operata questa volta da uno scienziato e non, come era fino allora consueto, da un filosofo. Quando lo scienziato ippocratico restringe le sue argomentazioni per dimostrare quali siano i criteri scientifici della téchne medica, intesa come un insieme di arte e scienza, sottolinea come essa non si affida né al caso né alla fortuna. La medicina acquisisce un nuovo statuto: non è più antropologia filosofica, ma scienza dell'uomo.
2. L'episteme aristotelica e la medicina galenica. L'opera di Aristotele (384- 322 a .C.) costituisce una chiarificazione del problema dei rapporti tra la medicina e la filosofia con indubbi vantaggi per entrambe. Lo Stagirita avviò la pratica metodica della vivisezione animale contribuendo ad allargare le conoscenze biologiche e zoologiche, a costruire su nuove basi una filosofia della natura e a indicare una nuova articolazione del sapere medico: «è proprio dello studioso della natura considerare i princìpi fondamentali della salute e della malattia, perché né salute né malattia possono interessare le cose prive di vita. Perciò quasi tutti gli studiosi della natura approdano alla medicina, e i medici che posseggono la loro arte con maggiore consapevolezza teorica si rifanno per la medicina alla scienza della natura» (De sensibus, 1). Il sapere anatomico aristotelico spinse la medicina a superare i limiti osservativi del Corpus Hippocraticum. La téchne medica si sviluppa all'interno della epistéme aristotelica.
La medicina ippocratica, sia teorica che pratica, era centrata sul concetto di malattia e sulla figura del medico come professionista interamente dedicato alle esigenze cliniche (diagnosi e terapie). La clinica ippocratica, non conoscendo l'interno del corpo umano, tenta di ricostruire i fenomeni interni, invisibili, per analogia con i fenomeni visibili all'esterno. Il corpo non è esplorato dall'indagine anatomica. Saranno i medici ellenistici a partire dal III secolo a.C., soprattutto Erofilo e Erasistrato, attivi nella scuola di Alessandria, a modificare strutturalmente la scienza medica (cfr. Vegetti, 1993, pp. 74ss), ponendo in primo luogo al centro di essa il problema della salute, e cioè la comprensione dello stato naturale, normale dei corpi, invece di privilegiare lo studio della malattia. Questa nuova dimensione della scienza medica era accompagnata dalla costituzione di nuove conoscenze anatomo-fisiologiche offerte dalla tradizione aristotelica, ma soprattutto ottenute attraverso la dissezione del corpo animale ed umano. Accanto ai medici praticanti ippocratici, per lo più itineranti, che svolgono anonimamente i loro compiti professionali curando le malattie, si propone la figura del medico scienziato e ricercatore, autore di trattati in cui si esprime il frutto della ricerca.
La sintesi della medicina antica è opera di Galeno di Pergamo (129-210 d.C.), chiamato a Roma dall'imperatore Marco Aurelio. Autore di una grandiosa enciclopedia del sapere medico, pervenutaci solo in parte, Galeno si presenta come il restauratore della dignità, anche etica, attribuita al medico già da Ippocrate. La sua affermazione che il vero medico è sempre anche filosofo sta a significare una scelta metodologica che contempera, a somiglianza del Corpus Hippocraticum , il momento logico (la via conoscitiva dell'intelletto) e il momento sperimentale dell'osservazione (attraverso la vista, il tatto, e gli altri sensi). Sono i sensi ad informare l'intelletto sulla natura delle malattie. Galeno intende operare nell'ambito della ragione, in modo che il processo terapeutico possa avere risultati prevedibili.
Dalla tradizione aristotelica Galeno ricava la struttura portante del suo sistema: il teleologismo. Il suo sforzo epistemologico sarà quello di far coesistere la filosofia aristotelica della natura con l'anatomo-fisiologia dei medici del Museo di Alessandria ed anche con la clinica di ispirazione ippocratica (cfr. Vegetti, 1993, p. 113). La concezione teleologica di Galeno si ispira al finalismo platonico e al principio aristotelico «la natura non fa nulla invano» (Politica I, 1253a 7), dando così per presupposto l'esistenza di un rapporto provvidenziale fra struttura degli organi e relative funzioni: non ci sono organi inutili. Il finalismo descrive la natura come artefice provvidenziale del vivente: «niente, di ciò che serve alla vita, che contribuisce ad una migliore qualità di vita, potrebbe essere meglio consegnato di quanto non sia attualmente» (Sull'utilità delle parti del corpo, XIII, 1). Nell'uomo tutto ciò si rivela in maniera mirabile. La salute ideale non è, secondo Galeno, di questo mondo, ma è piuttosto un'idea cui si può far riferimento per valutare la salute reale di una persona concreta: è in questo spazio fra buona salute assoluta e malattia vera che si può collocare l'azione del medico (cfr. Gourevitch, 1993, p. 148). La metodologia sperimentale galenica ricorre, come quella ippocratica, simultaneamente all'esperienza e alla ragione, ma con una forte innovazione in entrambe le vie di conoscenza. L'esperienza non è limitata all'osservazione sensibile, ma è arricchita da notevoli informazioni ricavate dalla dissezione del corpo umano già iniziata nel secolo III a.C. dai medici alessandrini. Sulla base dell'osservazione clinica e dell'esperienza anatomo-fisiologica, Galeno struttura il ragionamento diagnostico nel quale svolge un ruolo importante la filosofia naturale di Aristotele. Molti erano i limiti delle conoscenze mediche di Aristotele e dello stesso Galeno, ma il suo programma di unificazione epistemologica della medicina entro un quadro teoretico platonico-aristotelico permeato di religiosità, segnò il punto più alto della costituzione del sapere medico e dell'arte medica in vera scienza. Si tratta di una sintesi della medicina antica che sopravviverà fino al Seicento.
II. La medicina e il cristianesimo
1. Una nuova visione dell'uomo. L'impronta che il cristianesimo dà alla giovane scienza medica è soltanto un aspetto del suo fecondo rapporto con il mondo classico pagano. È alquanto significativo che Luca, il cronista dei primi eventi cristiani, autore del terzo Vangelo e degli Atti degli apostoli, sia un medico di Antiochia, città dove fioriva una delle scuole mediche ellenistiche.
Di fronte alle sette gnostiche che disprezzavano il corpo e a quanti, come i medici, si dedicavano alle sue cure, i Padri della Chiesa tracciano le linee dell'antropologia personalista cristiana in cui sia il corpo che l'anima sono ugualmente essenziali. S. Gregorio Nisseno (335-394) è il testimone più qualificato della nuova visione cristiana dell'uomo che corregge il cosmocentrismo greco. Nell'opera De hominis opificio, commentando il racconto biblico della creazione dell'uomo, afferma: «senza dubbio la realtà umana supera in grandezza tutto ciò che noi conosciamo perché solo l'uomo fra tutti gli esseri, è simile a Dio» (Proemio : PG 44, 125D - 128A). L'uomo è molto di più che un puro microcosmo, perché è stato creato a immagine della natura del suo Creatore (cfr. ibidem, XVI: PG 44, 177D - 180A).
Nella sua opera De medicina l'autore pagano Celso (II sec. d.C.) - confutato da Origene perché considerava Cristo un volgare mistificatore - tramanda la notizia della vivisezione dei condannati a morte che Erofilo ed Erasistrato, anatomisti operanti ad Alessandria nel III secolo a.C., operavano per studiare i loro corpi. Un secolo dopo, Tertulliano (160-215 ca.) riprenderà le informazioni di Celso per condannare le sperimentazioni su esseri umani viventi anche prima della nascita (cfr. De anima X, 4: PL 2, 662). Problemi morali, filosofici e teologici della letteratura cristiana antica s'intrecciano con le conoscenze mediche. Si va così enucleando una nuova visione antropocentrica; l'universo si spiega soltanto in rapporto all'uomo, immagine di Dio Creatore e ragione della sua esistenza. Molte sono le conseguenze di questa nuova visione sullo studio della malattia e della salute dell'uomo. La malattia non è né punizione della divinità, né sfortuna o fatalità cosmica, ma prova esistenziale (cfr. Lain Entralgo, 1978, p. 141) che riguarda l'uomo nella sua interezza e nella sua unità somatico-spirituale. La malattia tocca l'essenza della condizione umana nel mondo, e perciò la sua cura non ha di mira solo il benessere fisico, ma tutta la persona che nel corpo è malata. L'uomo non è solo il suo corpo, quindi attraverso la sua cura si può e si deve raggiungere la persona nella sua realtà concreta, anche spirituale e religiosa.
2. La medicina universitaria. È significativo che quello che è stato considerato il germe della prima università dell'Europa medievale sia stata una istituzione medica: la Scuola di Salerno (cfr. Kristeller, 1986, p. 11). Gli storici della medicina hanno messo in rilievo i suoi contributi alla cultura e alla letteratura medica, soprattutto durante i secoli XI-XIII. Gli storici delle università hanno cercato di far luce sull'oscurità dei suoi sviluppi istituzionali e dei suoi metodi di insegnamento. È anche controversa la questione se la Scuola di Salerno fosse in origine ecclesiastica o laica. È comunque certo un suo collegamento con l'arcivescovo di Salerno, Alfano (poeta e autore di scritti medici) e con l'abate di Montecassino, Desiderio. Nel periodo documentato della sua origine, durante la seconda metà del secolo X, la Scuola era rinomata principalmente per la sua capacità pratica, mentre nel secolo XI appariranno le prime tracce di letteratura medica che indicheranno l'inizio di un insegnamento teorico.
Base dell'insegnamento medico a Salerno, e poi in tutte le università medievali, furono i trattati medici di Ippocrate e di Galeno e le opere di scrittori arabi (Haly Abbas, Isaac Iudaeus e altri) tradotte dal monaco Costantino l'Africano (m. 1087), il quale, pur essendo guidato da interessi di medicina pratica, nelle sue prefazioni considera la medicina una scienza connessa alla filosofia. L'antica qualifica di "seconda filosofia" o "filosofia dei corpi" era vicina a corrispondere al suo reale statuto epistemologico. Costantino pubblicò con il proprio nome, con il titolo Pantegni (Tutta l'arte ), l'opera di Haly Abbas Rappresentazione completa dell'arte medica . L'opera, rigidamente sistematica, sembrò ai medici europei quanto di meglio potesse esserci per lo studio e la consultazione.
A metà del secolo XII l'opera di Costantino fu sostituita dal Canone di Avicenna, che apparve a Toledo nella traduzione latina di Gherardo da Cremona. I due manuali, entrambi divisi in una parte teorica ed una pratica, avevano in comune il sapere medico galenico, l'ispirazione filosofica aristotelica e la sintesi delle conoscenze anatomo-fisiologiche del Museo alessandrino e della clinica ippocratica. Con queste istanze scientifiche furono poste le condizioni necessarie per l'ammissione della medicina nelle nascenti università, a differenza di altre arti, come l'architettura, l'economia e l'alchimia, alle quali tale ammissione fu invece in quel momento preclusa. L'insegnamento della medicina nelle università medievali coincide con il suo affermarsi come disciplina scientifica, che s'impone irreversibilmente con il suo specifico statuto epistemologico ed intellettuale, alla società e al mondo (cfr. Jacquart, 1993, p. 262).
Il secolo XI segna il momento di massimo splendore della Scuola salernitana. La maggior parte della sua produzione medica appartiene a questo secolo: trattati sulla terapia generale o su argomenti più specifici (le febbri, le urine, i polsi, le diete), il Trattato di chirurgia di Ruggiero e alcuni trattati di anatomia. Il progresso del sapere medico che traspare da queste opere è basato sia sull'osservazione diretta del malato che sull'assimilazione delle opere tradotte da Costantino e altri suoi discepoli. La maggior parte delle opere furono scritte a scopo didattico e alcune di esse contengono chiari riferimenti all'insegnamento del tempo che diveniva sempre più metodico.
È da notare che già all'inizio del XII secolo la Scuola di Salerno passò dal compendio e dalla collezione di ricette alla forma del Commentario , che segna il passaggio definitivo dall'insegnamento pratico a quello teorico. È il primo segno che la Scuola subì l'influsso della Scolastica o contribuì al suo sorgere (cfr. Kristeller, 1986, p. 40). I Commentari , usati come libri di testo sia a Salerno sia altrove, sono i primi testi del genere che si conoscano e sono basati sullo stesso gruppo di testi di medicina, greci ed arabi, che appare intorno al 1270 come nucleo del curriculum medico a Parigi, a Napoli e a Salerno, poi stampato in modo unitario nei secoli XV e XVI con il titolo di Articella . Altro metodo di insegnamento inaugurato a Salerno fu la Quaestio. Alla maniera dei teologi e dei giuristi, i medici salernitani ricorrevano a questa procedura sia per risolvere argomenti contraddittori, quando la lettura di un testo sollevava difficoltà di interpretazione, sia per formulare delle questioni non legate ad un testo specifico. Le Quaestiones salernitanae servirono a nutrire un'infinità di discussioni universitarie, veri dibattiti scientifici. La Scuola di Salerno raggiunge il culmine della sua attività scientifica alquanto prima che le istituzioni accademiche medievali avessero conseguito la loro forma definitiva, durante la rinascita degli studi della seconda metà del secolo XIII. Fu allora che il quasi monopolio della formazione medica fu assicurato da tre grandi università: Bologna, Montpellier e Parigi (cfr. Jacquart, 1993, pp. 273-276).
Nella Scuola salernitana si manteneva la suddivisione tra teoria e pratica, ma entrambe erano considerate discipline scientifiche fondate sulla riflessione e sul ragionamento. La teoria è la scienza delle cause di matrice aristotelica, la pratica è la scienza dei segni; non vi può essere pratica senza previa teoria. Viene dunque fissato il modello del medico praticante erudito, la cui azione terapeutica si fonda sulla ricerca delle cause. Non fu però facile far rientrare in questo statuto epistemologico una parte irriducibile di abilità pratica. Nelle università medievali si pose con forza il dilemma: la medicina è una scienza o un arte? Alla base di tale questione si trovavano ancora una volta i ruoli rispettivi della ragione (lógos) e dell'esperienza (empeiría) che Galeno chiamò le "due gambe" della medicina (Commento al trattato sugli umori di Ippocrate, I, 7), e in definitiva il rapporto tra medicina e filosofia. Ma nei secoli XIV e XV la medicina è ormai orientata verso l'attività pratica. Nel 1335 la Facoltà di medicina di Parigi aveva imposto l'obbligo di un tirocinio per i suoi laureati fissandone i limiti: si trattava semplicemente di verificare i princìpi della fisiologia e della patologia, peraltro non unanimemente accettati, non di metterli in discussione e tanto meno di inventarli. Danielle Jacquart (1993) ha spiegato come l'espressione ingenium sanitatis , derivata dal titolo che Gherardo da Cremona diede (De ingenio sanitatis) alla traduzione dall'arabo del Metodo terapeutico di Galeno, designò il processo attraverso il quale il medico passava dalla riflessione, dai princìpi generali, alla loro messa in opera in una situazione particolare. Il procedimento terapeutico medievale non si limitava più alla prescrizione di una droga specifica in funzione di un tipo definito di malattia, ma teneva conto della personalità del paziente, della sua età, del suo ambiente. La scientia ingeniorum rispecchiava sia il carattere scientifico della pratica medica, sia la capacità di "improvvisare" in funzione della diversità dei casi particolari.
III. La nascita degli ospedali nel seno della cristianità
L'impatto del cristianesimo sulla cura e l'assistenza dei malati è talmente visibile e insistente da poter essere erroneamente interpretato in chiave esclusivamente religiosa. Indubbiamente l'ispirazione e il fondamento di tale azione assistenziale, che si materializza nell'invenzione degli ospedali, è di origine evangelica. Essa radica nell'esempio della persona di Gesù Cristo, il quale, oltre a dare indicazioni precise sulla cura dei malati (cfr. Mt 25,31-34), è "medico" che guarisce le malattie del corpo ed ha assunto su di sé, con l'Incarnazione e la sua passione, la passibilità della carne (cfr. Gv 1,14) e il peso di tutte le sofferenze umane. Le guarigioni operate da Gesù non sono alternative alla medicina. È stato sottolineato come nelle narrazioni evangeliche siano del tutto assenti tracce di magia, ma anche di tecniche mediche propriamente dette (cfr. Kee, 1994, pp. 131-132).
Le opere di misericordia corporale, la compassione di Cristo verso i malati, le sue stesse infermità, possono essere comprese pienamente soltanto se inserite nel nuovo ordine della carità soprannaturale che segna un evidente stacco dalla filantropia pagana. Nel ribadire il primato assoluto della carità nella vita cristiana - la quale, unendo a Dio mediante l'affetto, fa diventare simili a Lui -, Tommaso d'Aquino (1224-1274) precisa il valore della misericordia che rende simili a Dio nell'operare (cfr. Summa theologiae , II-II, q. 30 a . 4 ad 3um). L'unione con Dio mediante la carità si deve tradurre in opere di misericordia corporale. Non devono trarre in inganno né suscitare perplessità espressioni o modi particolari di intendere questi obblighi lungo i secoli. È evidente che le premesse e il contesto dell'agire cristiano sono soprannaturali, come salvifici ed eterni sono le sue motivazioni e i suoi scopi, senza che per questo venga smarrita la loro validità temporale e quindi l'attenzione ad ogni esigenza strettamente umana delle misericordie sanitarie. Tanto più si persegue l'ordine della carità soprannaturale, tanto più essa si traduce in atti concreti di assistenza materiale a chi soffre nel corpo, tenuto conto dei livelli raggiunti dal sapere medico. L'attenzione alla vita spirituale e alla salvezza eterna del malato, la natura stessa della malattia e le sue eventuali connessioni morali, non alterano le forme e i tempi dell'assistenza. Salute del corpo e salute dell'anima, per quanto inseparabili nella stessa persona, sono tenute ben distinte. Distinte sono la condizione umana di infermità, che la rivelazione cristiana fa risalire al peccato originale, e le cause naturali della singola malattia che è lecito e doveroso indagare e curare. La valenza patogena del peccato fu chiaramente ridimensionata da Gesù (cfr. Gv 9,1-41), il quale, alla domanda se la malattia fosse da attribuire al peccato del cieco nato o a quello dei suoi genitori, rispose che essa non dipendeva affatto dal peccato. Egli non mancò di aggiungere che la malattia non è mai priva di significato religioso perché consente alle opere di Dio di manifestarsi (cfr. Gv 11, 11-15).
Da questa spinta profondamente religiosa e innovativa non scaturiscono solo risposte individuali; esse assumono subito una dimensione comunitaria e istituzionale. Il primo concilio ecumenico di Nicea (325) stabilisce che in ogni città cristiana si riservi un luogo per l'accoglienza e l'assistenza dei pellegrini, dei poveri e dei malati (cfr. O'Neill, 1985, p. 29). Come si vede, l'area dell'infirmitas resta spesso indifferenziata, per cui non sarà sempre garantita un'attenzione specifica ai malati. L'assistenza si limiterà all'esercizio della virtù della carità mediante una pedagogia della sofferenza ad uso di sani e di malati, tanto valida quanto insufficiente; ciò porta alcuni storici a dare interpretazioni parziali o troppo ambigue di questo capitolo della medicina. Le opere di misericordia corporale, proprio perché opere e corporali , sono destinate in primo luogo a promuovere, nei limiti del contesto storico e del livello raggiunto dalle conoscenze scientifiche, la guarigione e il benessere dei malati; assicurare la loro salvezza eterna e potenziare la salute spirituale di chi le compie, è un sovrappiù che sostiene e rafforza medico e malato nelle loro relazioni reciproche di fronte alla malattia.
Le regole monastiche, sia di Oriente che di Occidente, sono assai attente alla ospitalità e alla cura dei malati, prima di tutto dei monaci. Nascono gli ospizi monastici. Si disciplinano le penitenze corporali del monaco onde prevenire mortificazioni superbe e debilitanti. È creata l'infermeria monastica con una stanza riservata al medico per accogliere monaci infermi bisognosi di cure specifiche. «Si danno così le condizioni per lo sviluppo di un'attività terapeutica che per lungo tempo, almeno fino all'XI secolo, costituirà l'unica forma organizzata di esercizio della medicina» (Agrimi e Crisciani, 1993, p. 240). L'esperienza monastica eserciterà un'innegabile influenza sulle nuove istituzioni ospedaliere che la rinascita del secolo XII farà sorgere un po' dovunque. Sono principalmente i monasteri ad assicurare la conservazione e la trasmissione della letteratura medica antica e del sapere farmacologico. La sovrapposizione di ruoli nella persona del chierico o del monaco, tra chi soccorre il corpo e cura l'anima, e la gestione da parte della gerarchia ecclesiastica degli ospedali tenderanno a scomparire nel XII secolo. Il medico acquista una dignità scientifica e professionale ottenendo i corrispondenti titoli nelle varie scuole universitarie di medicina, il che lo autorizza ad esercitare la professione e a percepire una mercede come premio dovuto alla sua preparazione.
Ma la rinascita urbana, religiosa e culturale, suscita nella cristianità ciò che è stata chiamata "l'urgenza della carità". Sorge un'immagine nuova di ospedale cittadino: la medicalizzazione è in linea con le più qualificate forme di esercizio della medicina e la secolarizzazione della gestione amministrativa, spesso curata dalle autorità comunali, riduce sempre più i compiti di supplenza che la Chiesa ha svolto per secoli. Gli ospedali urbani assumono una funzione sociale sempre più rilevante e si dotano di strutture permanenti dove vengono meglio definite le differenze tra malattia e semplice invalidità, tempo della malattia e tempo della convalescenza, malattia curabile e incurabile.
Una nota manchevole di questa storia dell'assistenza ai malati, connessa certamente allo statuto epistemologico del sapere medico medievale e allo sviluppo storico delle università, fu l'assenza di rapporti stabili tra la medicina universitaria e le istituzioni ospedaliere. Nel 1300 Pietro di Abano raccomandava ai futuri medici patavini, sul modello delle scuole mediche arabe, di visitare assiduamente gli ospedali per studiare anche i casi più rari di malattia. Quasi contemporaneo fu l'obbligo del tirocinio pratico della Facoltà di medicina di Parigi per i suoi laureati. Esistono anche diverse testimonianze italiane, anteriori e coeve, che sottolineano la necessità di frequentare i lecta infirmorum per diventare medico doctus et espertus (cfr. Agrimi e Crisciani, 1993, p. 246).
In conclusione, l'istituzione ospedaliera medievale evidenzia che essa sarà un pilastro importante della medicina, sia come scienza finalizzata all'assistenza dei malati sia come sapere scientifico che si arricchisce di nuove conoscenze al capezzale dei malati.
IV. L'affermarsi della medicina scientifica
Nello stesso anno in cui veniva pubblicato il De Revolutionibus orbium caelestium di Copernico, dando alle stampe il De humani corporis fabrica (1543) Andrea Vesalio (1514-1564) operava anch'egli una sorta di rivoluzione in ambito medico, dando origine ad una nuova era che interrompeva la lunga e incontrastata egemonia del modello ippocratico-galenico. La rivoluzione vesaliana porta a compimento le precedenti ricerche anatomiche in Italia, rese possibili dalle dissezioni didattiche e dalle autopsie giudiziarie, che fino ai primi decenni del XVI secolo restavano confinate nelle università. Le dissezioni permettevano di studiare le relazioni fra le manifestazioni cliniche dei malati in vita e i cambiamenti morfologici delle strutture interne costatate post mortem . Le autopsie consentivano inoltre l'identificazione di stati patologici fino ad allora invisibili. I modelli anatomici galenico-medievali apparivano subito incompleti e pieni di errori.
Grmek e Bernabeo (1996) hanno precisato come «contrariamente ad una opinione diffusa, la Chiesa cattolica non ha ostacolato ma ha piuttosto favorito lo sviluppo della ricerca anatomica» (p. 5). L'interesse per i fenomeni naturali che caratterizza la modernità si salda con quella fiducia nelle capacità conoscitive dell'uomo e nell'intelligibilità del reale sottolineate dalla filosofia cristiana: la novità è ora nel metodo, nelle domande che l'uomo moderno si pone, nelle vie innovatrici per ottenerne risposta e negli strumenti di accertamento della verità.
Le derive razionaliste e scientiste del nuovo metodo scientifico non tardarono però a manifestarsi anche in medicina. Questa diventa una scienza strettamente naturalistico-positivista, mentre la vita viene progressivamente "devitalizzata" e ridotta a struttura fisico-chimica. Cartesio (1596-1650) studierà il corpo umano con criteri meccanicisti (res extensa) separandolo chiaramente dall'anima (res cogitans), mentre quest'ultima, abbandonata a se stessa, scomparirà quasi definitivamente dall'orizzonte del medico, divenuto scienziato materialista e quindi monista. Il meccanicismo si estenderà dalla natura allo spirito, dall' animal machine di Cartesio a l'homme machine di Lametrie, i cui pezzi, tutti dello stesso valore, sono scomposti e rimontati con criteri strettamente utilitaristici (cfr. Morra, 1988).
La rivoluzione scientifica operata da Copernico, Galileo e Newton non muta soltanto l'immagine dell'universo, ma anche quella del corpo umano. L' episteme che aveva fino a quel momento guidato la costituzione del sapere medico come arte e come scienza, e sostenuto l'esercizio della professione medica, viene profondamente rinnovata; nasce la medicina scientifica il cui tratto più caratteristico è l'introduzione del metodo sperimentale. Secondo Grmek (1998) nella storia delle scienze biomediche nate dalla rivoluzione scientifica del Seicento, si distinguono tre svolte epistemologiche che segnano una netta linea di distinzione con il pensiero medico biologico delle epoche precedenti (cfr. p. 492).
La prima, portata a maturazione nel Settecento, significò una rottura del paradigma ippocratico-aristotelico-galenico, predominante da quasi quindici secoli. Oltre alle prime innovazioni scientifiche di Vesalio, la grande scoperta di questa prima rivoluzione è quella di W. Harvey (1578-1657) che descrive la circolazione del sangue e l'impulso propellente della pompa cardiaca. La scoperta di Harvey, oltre al suo valore scientifico, costituì una delle basi sperimentali del meccanicismo filosofico postulato da Cartesio. La sintesi tra nuove conoscenze anatomiche e più raffinate osservazioni cliniche e sintomatologiche svolte al capezzale del malato è merito di Giovanni Battista Morgagni (1682-1771) con la sua opera più importante De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis. Questa prima svolta della medicina scientifica si arricchisce della fisiopatologia dei tessuti per opera del medico francese Xavier Bichat. Le parole con cui Bichat riassume il suo approccio scientifico spiegano bene il punto a cui è giunta la medicina: «sezionare in anatomia, sperimentare in fisiologia, seguire il decorso della malattia ed effettuare un'autopsia in medicina; questa è la triplice via all'infuori della quale non può esservi né anatomista, né fisiologo, né medico» (cit. in Risse, 1996, p. 325).
La seconda svolta, in pieno Ottocento, è caratterizzata da nuove scoperte, come la patologia cellulare di R. Virchow nel 1858, che identifica la malattia con le alterazioni delle cellule, riconosciute come la struttura biologica elementare e il luogo degli scambi molecolari dell'organismo, ora compreso come la risultante di un'associazione di cellule strutturalmente e funzionalmente diversificate. Gli sviluppi della teoria cellulare sono legati ai progressi dell'embriologia e della genetica le cui implicazioni si fanno sentire ancora oggi. I progressi della fisiologia sperimentale, soprattutto tedesca, costituiscono la base della medicina sperimentale di Claude Bernard (1813-1878). I princìpi base del suo ragionamento di fisiologo e di clinico sono il determinismo scientifico e il concetto di milieu intérieure. Il determinismo del mondo inorganico è da lui esteso, malgrado l'apparente spontaneità degli organismi viventi, al mondo organico: «Bisogna ammettere come assioma della sperimentazione che negli organismi viventi, così come nei corpi non viventi, le condizioni di esistenza di ogni fenomeno sono determinate in maniera assoluta [...] La negazione di questa proposizione non sarebbe altro che la negazione della scienza stessa» (cit. in Holmes, 1998, p. 109). La vita degli elementi nell'ambiente interno del corpo umano è per Bernard indispensabile alla medicina scientifica moderna. Il difetto fondamentale di un organismo malato non risiede necessariamente in una delle sue parti, ma può riguardare il suo potere di integrazione armoniosa delle parti e di adattamento ai cambiamenti dell'ambiente esterno. Sono intuizioni che avranno successivi sviluppi con l'endocrinologia e l'immunologia.
Il medico sperimentale, dopo aver osservato i suoi pazienti nella maniera più completa possibile, deve analizzare tutti i sintomi cercando di riportarli a spiegazioni e leggi della vita che dovranno comprendere la relazione dello stato patologico con lo stato normale o fisiologico. La medicina sperimentale di Bernard aggiunge alla "qualificazione clinica" della malattia al letto del malato, la "quantificazione tecnico-strumentale" dei fenomeni fisiopatologici in laboratorio. Questa quantificazione acquisterà un ruolo preponderante nella diagnostica e nella terapia sia a livello individuale che sociale (biostatistica, epidemiologia, medicina della comunità).
La terza ed ultima svolta della medicina può invece considerarsi ancora in corso. Il vecchio concetto di predisposizione organica viene riformulato come reazione immunitaria da P. Ehrlich (1854-1915) e J. Mechnikov (1845-1916), principio che sta alla base dell'immunologia. La farmacologia e la chimica di sintesi sono all'origine della rivoluzione chemioterapica. Ma è soprattutto con le scoperte della biologia molecolare che la medicina cambia ancora una volta la sua struttura scientifica. Si scoprono nel 1949, ad opera di L. Pauling, le alterazioni molecolari causa di "malattie molecolari" ereditarie. Nel 1953 Watson e Crick enunciano il modello della "doppia elica" del DNA, che è il materiale cromosomico vettore dell'informazione genetica. Nasce l'ingegneria genetica e con ciò la possibilità di ottenere nuovi farmaci e di praticare terapie genetiche. L'inattesa epidemia dell'AIDS e la comparsa della encefalite spongiforme (il virus della "mucca pazza") richiedono approcci virologici che, per quanto rinnovati, ripropongono idee e paradigmi che si consideravano superati.
Come ha ricordato Grmek (1998), i successi del riduzionismo scientifico e della medicina specialistica non hanno mai sostituito del tutto gli approcci e le interpretazioni globalizzanti dei fenomeni vitali. In medicina ha fatto fortuna il termine «olismo», coniato nel 1926 dallo statista sudafricano J. Ch. Smuts e divulgato dal biologo Haldane, il cui postulato è: «un insieme integrato non è soltanto la somma delle sue parti [.]. Ma se l'organismo non è la somma delle sue parti, nemmeno la malattia è la somma degli stati e dei processi patologici locali. [.]. Nell'accezione più completa del termine, riguarda allora l'organismo nel suo insieme» (p. 500). Queste visioni olistiche della medicina spesso si limitano a sottolineare le perturbazioni dei processi di integrazione biologica (nervoso, chimico ecc.) dell'organismo, senza prendere in considerazione un principio spirituale di integrazione e di unità dell'essere umano. L'olismo può comportare perciò sia una visione monistico-materialista dell'uomo sia una visione unitaria personalista (aristotelica, kantiana, tomista).
I fattori psichico-spirituali elusi dalla maggior parte dei modelli medico-naturalistici della malattia sono sempre più ammessi da diverse scuole mediche che recepiscono idee di matrice psicologico-dinamica e analitica, da Freud a Jung, da Adler a Frankl. La medicina psicosomatica di Victor von Weizsäcker (1990) ha esaltato il ruolo della costituzione della personalità e della biografia, attirando l'attenzione sul fatto che, nel triangolo ippocratico (malattia-paziente-medico), il medico partecipa alla determinazione del modo di espressione della malattia. È, con certa analogia, l'applicazione in medicina del principio della meccanica quantistica: «non è possibile eliminare dalla realtà osservata, l'impatto dell'osservazione». Il determinismo scientifico della medicina sperimentale di Bernard viene messo in discussione. Il medico non è un osservatore freddo ed estraneo di una regolarità deterministica.
Anche se la medicina psicosomatica viene collegata attualmente, come altre specializzazioni mediche, ad un gruppo determinato di malattie, essa propugna una visione antropologica che, superando i modelli meccanici e naturalistici, prende in considerazione l'intero paziente con la sua struttura psichica, il suo ambiente e la sua posizione sociale. Nasce una medicina antropologica nuova, non più legata al concetto di sintomo psicosomatico, che in un certo modo manteneva l'infelice dualismo tra corpo e mente e, quindi, tra malattie del corpo e malattie mentali rigidamente classificate dalla medicina meccanicistica dei secoli XVII-XX. Che con la rivoluzione biomedica del XX secolo sia iniziato un cambiamento di paradigma nella concezione della malattia, è presto per dirlo. Ma che la visione unitaria dell'uomo sia tornata ad essere considerata in sostituzione di quella meccanicistica è un dato di fatto.
L'incontro della medicina con le scienze sperimentali apre numerosi e importanti problemi dovuti all'impossibilità di omologare la medicina a queste scienze. L'oggetto della medicina non è un soggetto passivo né neutrale; non è semplicemente un oggetto fisico-chimico ipercomplesso: la natura dell'essere umano è intrinsecamente etica. La nuova medicina del millennio appena incominciato è ancora alla ricerca di un paradigma che potremmo chiamare "neo-umanesimo clinico", «dove salute e malattia, nascita e morte, invecchiamento e sopravvivenza richiedono al medico risorse non soltanto scientifiche, tecniche, ma anche antropologiche, umane» (Cosmacini e Rugarli, 2000, p. 21) e, aggiungiamo, soprattutto etiche.
V. La medicina scienza della natura o scienza dell'uomo?
Nella sua opera postuma La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1954), Edmund Husserl (1859-1938) mise in risalto come l'oggettivismo scientistico e la tecnicizzazione pragmatica fossero la conseguenza della perdita, da parte della scienza, dei suoi fondamenti filosofici. Le scienze naturali, disancorate da ogni riferimento alla filosofia della natura, diventano vittime del positivismo, non sono più naturali ma naturalistiche, ogni realtà studiata è interamente "oggettivata". Le mere scienze dei fatti non hanno nulla da dire sul problema del senso o del non senso dell'esistenza umana. Anche la medicina ha subìto i contraccolpi di questa crisi delle scienze naturali, soprattutto quando le categorie scientifiche si sostituiscono al "mondo della vita" husserliano, al mondo dei sentimenti, dei bisogni, delle finalità e delle intuizioni. La medicina non è una scienza con uno statuto epistemologico assimilabile a quello delle scienze naturali e sperimentali. È la più umanistica delle scienze naturali e la più esatta delle scienze dell'uomo. Pur servendosi delle conoscenze di numerose discipline come la fisica, la chimica, la biologia, la genetica, l'anatomia, la fisiologia, e adottandone il rigore metodologico, se ne differenzia, perché il suo oggetto non è totalmente misurabile e sperimentabile né vi si possono applicare automaticamente forme di conoscenza ritenute esatte e neutrali. Nessuna scienza è ritenuta oggi neutrale, e meno ancora di tutte la medicina, che si muove in una realtà antropologica intrinsecamente etica, refrattaria ad ogni forma di riduzionismo. La medicina s'interessa dell'essere umano come soggetto individuale e personale in una dimensione costitutiva del suo essere, quella reale o possibile, di uomo o donna malati.
Non c'è dubbio che i progressi delle scienze biomediche, alle quali tanto deve la medicina scientifica, sono dovuti anche all'utilizzo del metodo sperimentale analitico riduttivo, ma l'uomo a cui tali conoscenze devono essere applicate è un'unità: tutto in lui, realtà materiale e realtà spirituale, aspetti biologici e funzioni psichiche, è rilevante e consistente (cfr. Polo, 1992, pp. 30ss). Gli approcci riduzionisti di carattere analitico limitandosi ad osservare frammenti, pezzi di umanità, non colgono l'interiorità irripetibile di ogni essere umano e sono la causa di un'inevitabile scissione tra il dinamismo del soggetto malato e la dimensione naturalistico-passiva dell'oggetto di studio, cioè la malattia (cfr. Peláez, 1997, p. 56). Il soggetto malato, spogliato delle sue note individuali, viene oggettivato in un'entità clinica che rassomiglia di più ad una tabella numerica che ad una storia personale.
La medicina scientifica post-galileiana è stata fortemente condizionata dal meccanicismo materialista e dall'organicismo positivista, derivanti da un antropologia dapprima dualista e poi monista, causa non soltanto della scissione fra l'oggetto-malattia ed il soggetto-malato, ma anche di un'altra scissione, più radicale e insidiosa, quella dell'uomo defalcato dalla sua stessa malattia, quando in lui si considera irrilevante tutto ciò che resiste ad un approccio strettamente quantitativo. In realtà, il sapere medico è autenticamente scientifico soltanto quando considera che le vie per la conoscenza del corpo malato (soma e psiche) passano attraverso un approccio alla persona umana vista come totalità ed unità. L'uomo a differenza dell'animale, oggetto importante di sperimentazione e quindi fonte di conoscenze biomediche, è un soggetto naturale e culturale, situato cioè storicamente in un contesto relazionale di costumi, valori e norme che la medicina ha ormai costatato di non poter ignorare. La medicina è oggi «interpretata in un duplice senso come un'impresa umanistica: come relazione interumana carica di vissuti esistenzialmente significativi e dunque impegnativa anche sul piano personale, e come sapere scientifico-pratico orientato essenzialmente al bene di chi soffre nella sua complessa totalità, quindi rispettoso dei suoi valori morali e del significato della sua storia individuale» (Cattorini e Mordacci, 1993, p. 8).
Le decisioni del medico, pur fondate sui risultati a cui sono giunte le conoscenze biomediche e le più avanzate tecnologie diagnostiche e terapeutiche, vengono assunte in un'area di "persistente inesattezza" (cfr. Cattorini, 1986, p. 136), che include le ineliminabili valutazioni di probabilità soggettivamente maturate nel rapporto con pazienti concreti. Tutto ciò sta a significare che l'operato di un medico non è semplicemente interscambiabile con l'operato di un altro medico. Il medico non è portatore passivo di conoscenze neutrali, né il paziente è una semplice entità morbosa prestabilita. Fattori umanistico-culturali e scientifici si mescolano a quelli esistenziali del malato, che percepisce soggettivamente la sua situazione patologica, aiuta il medico e modifica il proprio comportamento in base alle indicazioni che riceve. Si comprendono allora le difficoltà che incontra oggi la scienza medica nel fornire un concetto plausibile di malattia. Non la si può considerare nemmeno come una definita alternativa allo stato di salute, ma come aspetto di un continuum che collega l'una con l'altra evidenziando l'importanza dei momenti predittivi, preventivi e riabilitativi (cfr. Coltorti, 1998, pp. 162-175). Le malattie non sono entità morbose naturali, ma astrazioni scientifiche che descrivono classi di pazienti e li raggruppano secondo criteri che cambiano man mano che vengono acquisite nuove conoscenze (cfr. Cosmacini e Rugarli, 2000, p. 144). La descrizione di ogni malattia fatta dai libri di medicina differisce sempre dal quadro clinico che si riscontra nella realtà. Ogni ammalato è irripetibile anche quando nella sua malattia si presentano fatti che lo accomunano ad altri ammalati. Il carattere, le condizioni familiari, professionali ed ambientali - non solo il suo genoma - sono all'origine di manifestazioni molto varie della stessa malattia.
La storia della medicina offre numerose prove di come le scienze dell'uomo, gli studia humanitatis, alimentino il sapere medico. Sono di oggi le sollecitazioni e prime realizzazioni didattiche delle Medical Humanities (cfr. Peláez, 1999, pp. 6-63), onde consentire al futuro medico di cogliere in ognuno dei suoi atti la complessità della condizione umana. Non si tratta di dare un'informazione culturale umanistica al medico specialista, ma di considerare gli studia humanitatis , soprattutto nella loro dimensione etico-antropologica, un contributo indispensabile per stabilire un corretto rapporto con il paziente e prendere un'adeguata decisione medica. Venuta meno l'ingenua fiducia in un progresso tecnologico che ora si cerca di controllare e guidare, ci si deve rivolgere alle scienze etico-antropologiche e alla bioetica per individuare i fondamenti delle decisioni da prendere: vanno così rivalutati il concetto di persona, l'inseparabilità della malattia dal soggetto che ne è affetto, i modi per superare l'anonimato nel momento diagnostico e terapeutico, ecc. (cfr. Marniga, 1998, p. 997).
VI. La medicina scienza, arte e pratica etica
1. Peculiarità della medicina e peculiarità della professione medica . La medicina è una scienza pratica di cui si è smarrito il concetto nel pensiero scientifico moderno (cfr. Gadamer, 1994, p. 47). Appaiono oggi sempre più evidenti i limiti della scienza che "oggettivizza e misura" alla quale sfugge quel "mondo della vita" di cui parla Husserl. Il medico deve «unificare la sua competenza altamente specializzata e il suo far parte del mondo della vita» (ibidem, p. 112). Nella capacità pratica del medico ci sono infatti delle componenti, come flessibilità e attenzione, che appartengono non alla scienza ma alla sua esperienza di vita.
Oggi, che la linea di demarcazione tra scienze pure e scienze applicate si fa sempre più netta per l'influsso dei fattori sociali ed istituzionali su ogni momento applicativo del saper scientifico, la situazione della medicina continua ad essere incerta. Se da una parte l'intreccio della medicina con le nuove forme di organizzazione sociale dell'assistenza sanitaria, e quindi con gli ordinamenti giuridici, è sempre più forte, dall'altra parte lo sviluppo delle scienze biomediche in stretto contatto con la ricerca scientifica rende esplicita la realtà di una medicina scientifica pura. Accanto al medico professionista si erge la figura del medico scienziato con problemi e logiche decisionali assai specifiche. Entrambi però non possono fare a meno l'uno dall'altro.
Malgrado il ruolo sempre più importante che rivestono le conoscenze biomediche e la strumentazione tecnologica, e di conseguenza il moltiplicarsi di medici dediti alla ricerca scientifico-tecnologica senza spesso alcun contatto diretto con l'ammalato, nulla autorizza a contrapporre la medicina scientifica all'arte medica. La loro distinzione non significa però antagonistica separazione. Infatti, le conoscenze biomediche non possono essere propriamente considerate medicina fino a quando esse vengono usate in un particolare contesto clinico, per promuovere salute e benessere in una vita umana individuale e concreta. È l'essere umano, mediante opportune diagnosi e terapie, il luogo dell'applicazione creativa della medicina scientifica.
Il nucleo essenziale della medicina è la clinica, strutturata nel rapporto medico-paziente e finalizzata al massimo bene di questi. La malattia è per il medico un principio di azione la cui efficacia presuppone cognizioni biomediche teorico-specialistiche, abilità tecnica e attento studio del caso concreto in una prospettiva etica. L'atto medico raggiunge il suo scopo, il maggior bene dell'ammalato, quando è frutto di un ragionamento tecnico-scientifico deliberato eticamente, il quale produce una diagnosi ed una terapia, alle quali seguono una prognosi; questa è di particolare importanza per l'ammalato a cui spetta il diritto di conoscere il probabile decorso della sua malattia. Un approccio soltanto tecnico ai problemi del paziente è considerato insostenibile: non esistono due momenti nella decisione medica, uno tecnico-scientifico, del tutto anonimo, ed un altro etico personalizzato. La prospettiva terapeutica s'inserisce in un orizzonte di accoglienza dell'altro come persona. Il medico non aggiunge qualcosa alla sua professione; ne vive il significato pienamente umano (etico) evitando di alienarsi in una pratica astratta delle sue competenze professionali. L'accoglienza è espressione di un'etica della compassione che è alla base della prassi medica (cfr. Botturi, 1993, p. 110).
La medicina è stata definita «un luogo scientifico in cui scienza, arte e praxis sono caratteristiche particolarmente distinguibili» (Pellegrino e Thomasma, 1995, p. 175). La medicina è téchne, arte, applicazione della scienza mediante abilità clinica e chirurgica unita a praxis intesa in senso aristotelico, e cioè, non semplice "fare" tecnico, ma "agire" morale finalizzato al bene del paziente. La competenza professionale del medico poggia su tre pilastri: le conoscenze scientifico-naturali, l'abilità tecnica e la conoscenza degli uomini mediante il possesso di ciò che Karl Jaspers (1883-1969) ha chiamato, con espressione felice ma ambigua, éthos humanitario (cfr. Jaspers, 1995, p. 43) e che con più esattezza possiamo definire «etica antropologica fondata sulla nozione di persona» (cfr. Sgreccia, 1999, pp. 60ss).
L'azione del medico, non essendo semplice applicazione di una legge scientifica o di una metodica tecnologica, deve essere frutto, come ogni azione morale, di una composizione "artistica" che assicura la sua finalità: preservare o riacquistare la salute di una persona concreta. Le leggi scientifiche e le tecnologie garantiscono all'atto medico metodo ed efficacia. L'azione dell'operatore sanitario assicura la dimensione etica della responsabilità e della destinazione: il bene del malato. Allo stesso modo che il concetto di malattia non si esaurisce nei termini di una visione naturalistica, la salute non si definisce con criteri quantitativi, in quanto include l'integralità realizzata della persona fino a riavvicinare il concetto originario di salute integrale o di salvezza (cfr. Griegel, 1994, pp. 33-34). Non nel senso che la medicina debba provvedere alla salvezza come tale, ma nel senso che la salute cui può contribuire l'atto medico partecipa oggettivamente della totalità della persona (cfr. Botturi, 1993, p. 108). La salute biologica appartiene alla salute-salvezza totale della persona, il cui desiderio universale accomuna il malato al sano e al curante.
2. Il rapporto medico-paziente. La medicina oggi pone in evidenza problemi vecchi e nuovi che richiedono un particolare impegno etico. Un problema centrale nella pratica medica è quello del rapporto medico-paziente (cfr. von Engelhardt, 1999, pp. 265-299), che assume oggi delle caratteristiche del tutto nuove in seguito ai progressi scientifici e tecnologici, alle attuali modalità dell'esercizio della professione medica e alla complessità dei contesti istituzionali in cui si attua oggi la tutela della salute e l'assistenza sanitaria. In questa particolare situazione si ripropone con forza la necessità di riconsiderare la relazionalità in campo medico. La mancanza di una comunicazione chiara e attenta ai bisogni sociali ed individuali ha fatto dire a qualcuno che la medicina è oggi "muta" (cfr. Valdrè, 1995). Tra medico e paziente, tra medicina e società, si sono interposte delle barriere tecnologico-scientifiche e burocratiche che hanno depauperato eticamente e antropologicamente le loro relazioni. Il medico vede il paziente come una somma oggettuale di organi e di funzioni finemente misurati e quantificati; il paziente vede il medico come "centro di smistamento" verso una congerie di esperti settoriali. Una medicina che trascura le implicazioni etiche del rapporto medico-paziente si sta dimostrando deludente, costosa ed inefficace.
Il fatto che oggi le malattie siano meglio conosciute e si abbia una maggior disponibilità di mezzi farmacologici, clinici e chirurgici, deve essere accompagnato da un'attenta valutazione del modo in cui tutto ciò viene percepito dal malato. Il lavoro del medico non può ignorare nessun momento né luogo della cura del malato: la visita medica, l'anamnesi, la diagnosi, la prognosi, la terapia e il suo svolgimento nel tempo. Il rapporto medico-paziente conserva dunque tutta la sua centralità nella medicina attuale, anche se presenta modalità nuove per le caratteristiche che ha oggi l'assistenza al malato e per le numerose specializzazioni che la medicina scientifica possiede. Non va più inteso quindi, se non eccezionalmente, come una relazione tra due persone fisiche, bensì come la relazione che un équipe di operatori sanitari, responsabili di un particolare sistema di cure, ha con un ammalato inserito in un ambiente vitale costituito da soggettività individuali e da relazioni familiari, sociali, istituzionali (cfr. Cattorini e Mordacci, 1993, pp. 13ss).
Il rapporto medico-paziente conserva tuttora la sua struttura etico-deontologica di una "alleanza terapeutica" i cui princìpi guida sono la beneficità, la libertà e la giustizia (cfr. Sgreccia, 1999, pp. 20ss). Per alleanza s'intende l'impegno solidale che scaturisce dal riconoscimento di una appartenenza alla stessa umanità (co-umanità) e quindi ad una comunità etica. L'incontro di un medico con un malato s'inserisce in una radicale disposizione di apertura all'altro, costitutiva dell'essere umano in quanto persona. Senza il riconoscimento personale reciproco, medico e malato sono destinati ad esaurirsi nell'esplicazione di uno specifico ruolo (cfr. Mordacci, 1993, p. 231).
Il bene del paziente (beneficità) che in primo luogo il medico deve perseguire è quello biomedico (salute, vita); esso ingloba diversi altri elementi che coinvolgono valori socio-culturali e religiosi. Pellegrino e Thomasma (1992) distinguono il bene biomedico, il bene così come è inteso dal singolo paziente, il bene del paziente in quanto persona umana ed infine il bene supremo (salvezza), ed indicano le procedure per comporre gli eventuali conflitti. Infatti, a volte quello che il paziente ritiene come il proprio bene non obbliga il medico ad assecondarlo. Non tutti gli aspetti della decisione medica sono negoziabili. La beneficità intesa come dedizione del medico nel migliore interesse del paziente non può distruggere lo scopo primo di tale dedizione, il valore vincolante dell'alleanza terapeutica: la guarigione-cura dell'ammalato. Il paziente e il medico cooperano nella cura, quindi il paziente non può chiedere al medico prestazioni, per esempio eutanasiche, in contrasto con la sua etica e deontologia professionale.
La libera autodeterminazione del paziente non sempre coincide con ciò che viene chiamato, individualisticamente e senza alcun legame con la verità antropologica, principio di autonomia. Vi sono diversi livelli di libertà, fra i quali quella di connettere la propria libertà, che nel malato è sempre limitata e perciò ha bisogno di aiuto, con la libertà di cura da parte del medico. Per fare una scelta libera occorrono due condizioni: che il paziente abbia informazioni sufficienti e che egli sia nelle condizioni di operare tale libera scelta. Il medico deve dare tutte le informazioni indispensabili perché la persona malata - in caso di sua incapacità fisica o psichica i familiari o i rappresentanti legali - possa prendere decisioni in coscienza e libertà. Queste informazioni sono oggi anche giuridicamente tutelate e formalizzate, sia in ambito assistenziale che di ricerca sperimentale, in ciò che si chiama «consenso informato». Dato che il medico deve mediare le informazioni scientifiche riguardanti la diagnosi e la terapia con le finalità umane (etico-antropologiche) della sua attività professionale, il consenso non deve intendersi come una negoziazione tra medico e paziente sul modo di curare una malattia. Non si tratta di contrattare, ma di mettere il paziente in condizioni di dare un assenso consapevole alle cure consigliate per il suo bene globalmente inteso. La salute e il bene biomedico, per la loro intima connessione con il bene totale della persona, sono negoziabili solo eccezionalmente. La libera autodeterminazione, a differenza della autonomia libertaria, è prima di tutto fondata eticamente, poi può anche essere protetta giuridicamente.
In definitiva, il rapporto medico-paziente è eticamente e giuridicamente corretto solo quando diventa pratica virtuosa capace di superare qualsiasi conflitto di interessi, siano essi individuali, corporativi o sociali. Sono le virtù pubbliche e private del medico l'ultima garanzia che il bene del paziente sarà rispettato. La virtù fa uscire l'etica dalle secche del legalismo e la introduce nelle ampie sfere della moralità (cfr. Peláez, 1989). C'è chi, pur riconoscendo che «è meglio essere buoni che cattivi», afferma: «un medico che sa il suo mestiere può intrattenere un utilissimo rapporto con i suoi ammalati, indipendentemente dalle sue qualità morali» (Cosmacini e Rugarli, 2000, p. 70). Pellegrino e Thomasma (1996) considerano invece determinanti le virtù del medico, compresa ovviamente quella di possedere una qualificata conoscenza scientifica della medicina. Soltanto le virtù ispirano fiducia nella persona del medico: non c'è beneficità senza fiducia. Nel complicato sistema sanitario odierno dove le responsabilità personali sono incerte, il paziente deve estendere la sua fiducia a persone sconosciute. L'unico argine al rischio che si tenda a sfruttare la vulnerabilità del paziente è rappresentato dalle virtù morali delle persone a cui è affidato. Gracia Guillen (1993), sulla scia di Lain Entralgo (1969), propone come virtù per antonomasia, l'amicizia aristotelica: «il medico virtuoso dovrà essere sempre un medico amico» (p. 73).
VII. La Chiesa e la medicina oggi: alcuni spunti dal magistero ecclesiale
La religione, qui intesa in senso ampio, non può essere ignorata come fonte di teoria e di pratica medica, neanche in una società pluralistica come quella attuale: ciò significherebbe trascurare la più universale sorgente etica che motiva i comportamenti umani. Pellegrino e Thomasma (1994) hanno messo in evidenza i limiti delle varie scuole bioetiche contemporanee proponendo pertanto un recupero delle "radici religiose" dell'etica medica (cfr. pp. 93-98). La religione entra in merito al significato della malattia e della guarigione e quindi influenza gli scopi della medicina, il trattamento dei malati e le relative scelte etiche. Un'antropologia religiosa cristiana della medicina offre, come abbiamo già visto, una precisa visione della natura e della vita umana, del destino eterno dell'uomo, del valore della sofferenza e del senso della salute. Nell'attuale situazione medico-sanitaria, spesso resa difficoltosa a causa della frammentazione del sapere specialistico, della burocratizzazione di buona parte dell'assistenza e della riduzione parsimoniosa delle spese, la riscoperta della dimensione religiosa della medicina diviene un importante fattore di sviluppo per un'adeguata assistenza, soprattutto ai malati più vulnerabili e più deboli, e per evitare la sudditanza della medicina alle regole del mercato.
1. L'attenzione della Chiesa e del suo magistero alla medicina e alla vita umana. L'azione della Chiesa cattolica al servizio dei malati ha accompagnato la sua diffusione e i suoi apostolati lungo la storia attraverso innumerevoli istituzioni finalizzate alla cura e all'assistenza, anche se le circostanze in cui tale servizio si è svolto si sono col tempo diversificate. Negli insegnamenti di Giovanni Paolo II sono molteplici i richiami a rivedere a fondo l'organizzazione ospedaliera affinché essa rifletta i valori evangelici riproposti nelle direttive sociali e morali del Magistero, evitando di farsi omologare dai sistemi sanitari odierni, più attenti alla sola componente economico-finanziaria e agli aspetti scientifici.
Un discorso analogo vale per la promozione degli studi di medicina, mediante centri di formazione medica e paramedica fino al livello universitario sparsi in tutto il mondo. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II sono stati istituiti due organismi della Santa Sede attraverso i quali la Chiesa mantiene viva l'attenzione, non solo dei cattolici, sui problemi riguardanti la salute e la malattia, all'interno di una visione antropologica ed etica di ispirazione cristiana: la Pontificia Accademia per la Vita , istituita il 22 ottobre 1996, e il Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, istituito l'11 febbraio 1985 (cfr. motu proprio Dolentium hominum). Questo Consiglio, oltre a coordinare gli organismi cattolici impegnati nel campo della sanità, promuove periodicamente conferenze internazionali. Per iniziativa del Pontificio Consiglio è stata pubblicata nell'ottobre del 1994, e poi periodicamente aggiornata, la Carta degli operatori sanitari . In tre parti, denominate «il generare», «il vivere» e «il morire» e strutturate a modo di codice deontologico, questo documento raccoglie buona parte del magistero della Chiesa, da Pio XII a Giovanni Paolo II, su tutto quanto attiene l'affermazione e la difesa, in campo sanitario, del valore della vita umana (cfr. Peláez, 1995).
Un nuovo contesto scientifico e culturale pone domande e suscita problemi a cui il magistero della Chiesa non manca di offrire la sua guida e il suo servizio. I progressi della scienza in tutto ciò che si riferisce alla salute hanno di fatto dilatato i confini tradizionali della medicina, non più finalizzata a soddisfare bisogni elementari umani, ma sollecitata a soddisfare desideri di benessere individuale (cfr. Cottier, 1994, pp. 271ss). La massa crescente di consumi medici, chirurgici, farmaceutici, non corrisponde alla domanda di guarire e scongiurare la morte, ma al desiderio illimitato di benessere fisico e psichico. Prevale un concetto utopistico di salute, che è qualcosa di più della semplice assenza di malattia, fortemente condizionato dalla cultura edonista oggi dominante. Tale concetto è accompagnato dall'obbligo politico di assicurare a tutti le migliori condizioni di vita, quasi fino alla soddisfazione di ogni desiderio di benessere e di felicità. A queste idee si ispira la definizione di salute che nel 1948 l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), eretta dall'ONU, si è data nel preambolo della sua Costituzione che recita: «la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non consiste soltanto in un'assenza di malattia o di infermità. Il possesso del massimo stato di salute che è capace di raggiungere costituisce uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano». Lain Entralgo (1978) si domanda polemicamente se queste parole più che una definizione non costituiscano la formulazione di una falsità o la proclamazione di un'utopia (cfr. p. 118). I desideri di benessere e di felicità inclusi in questo concetto di salute, in verità, si collocano alla periferia della medicina, con orizzonti di responsabilità in gran parte extramedici (ecologici, demografici, socioeconomici) che rischiano di confondere la figura professionale del medico con quella non ben definita dell'ingegnere sociale. Se non si vogliono smarrire il profilo professionale, la credibilità morale e la dignità del medico, non si può considerare quest'ultimo responsabile di ogni sofferenza umana e di ogni evento minaccioso per il benessere dell'umanità (cfr. Jonas, 1997, p. 114).
Le ricerche biomediche più recenti consentono delle manipolazioni che riguardano l'origine, la determinazione genetica e la fine della vita individuale. I vari procedimenti di fecondazione artificiale, la possibilità di conoscere determinate anomalie genetiche in fase embrionale, e quindi di intervenire direttamente sul genoma di un individuo, comportano implicazioni metafisiche ed etiche di notevole importanza per la vita del singolo e dell'umanità. Molti sono anche i mezzi a disposizione per mantenere artificialmente un organismo umano in vita. La medicina non è più soltanto terapeutica e preventiva, ma anche predittiva, e si affianca oggi all'ingegneria genetica e a quella medica, quest'ultima impegnata nella progettazione di organi artificiali, protesi e presidi medici sempre più sofisticati.
2. Alcuni interventi di maggior rilevanza. Molti sono gli interventi del magistero della Chiesa che affrontano alla luce congiunta della ragione e della fede questi problemi. Nel discorso ai partecipanti alla Conferenza internazionale sul tema Women's Health Issues , dopo aver richiamato la definizione dell'OMS incentrata sull'idea di «completo benessere», Giovanni Paolo II osservava: «Quando, però, il benessere viene concepito in senso edonistico senza riferimento ai valori morali, spirituali e religiosi, si va incontro a "conseguenze negative sulla salute stessa"» (OR, 21.2.1998, p. 5). Parlando il 29 ottobre 1983 all'Associazione Medica Mondiale, lo stesso Pontefice metteva in guardia il medico contro il pericolo di subordinare la preoccupazione per i malati agli interessi dei sani (cfr. Insegnamenti , VI,2 (1983), pp. 917-923). Si condanna pertanto il modo di distribuire la spesa sanitaria pubblica destinando risorse economiche a prestazioni come pratiche abortive, sterilizzazione dirette, interventi non strettamente terapeutici di procreazione artificiale e di chirurgia estetica, con il conseguente razionamento delle risorse destinate agli anziani, ai portatori di handicap cronici, ai malati terminali. La Congregazione per la Dottrina della Fede fissò il 13 marzo 1975 la linea da seguire per quanto riguarda le pratiche di sterilizzazione (cfr. La sterilizzazione negli ospedali cattolici , EV 5, 1199-1202).
La medicina attuale è sollecitata dal magistero di Giovanni Paolo II ad interrogarsi sulla sua natura e sulla sua funzione, che deve aver di mira «non solo il bene e la salute del corpo, ma la persona come tale che, nel corpo, è colpita dal male» (Dolentium hominum, 2): l'identità della medicina è il servizio all'uomo sofferente, « corpore et anima unus » (Gaudium et spes , 14). Il rispetto della dignità personale quale criterio etico di ogni atto medico coincide con la promozione dei diritti umani. Infatti la dignità personale è il fondamento dei diritti che spettano all'essere umano in quanto uomo o donna: il diritto alla vita dal momento del suo concepimento fino alla morte come fondamento di ogni altro diritto, diritto alla verità, diritto dell'integrità psichica, del segreto medico, della libertà di essere curati e di scegliere il proprio medico. Specifici interventi sulla tutela di questi diritti che si intrecciano nel rapporto medico-paziente sono reperibili nelle raccolte di documenti del Magistero di Angelini (1960), Tettamanzi (1988) e di Verspieren (1990) e nella citata Carta degli operatori sanitari. Di particolare importanza è l'enciclica Evangelium vitae del 25 marzo 1995, che riafferma il valore intrinseco di ogni vita umana, condannando l'aborto e l'eutanasia. Nel discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale dei Medici Cattolici sul tema "Medicina e diritti umani", Giovanni Paolo II ha esortato ad avvalersi dell'obiezione di coscienza di fronte alle legislazioni favorevoli all'aborto e all'eutanasia (cfr. OR, 8.7.2000). Sullo specifico tema dei trapianti esistono anche numerosi discorsi dello stesso Pontefice, nei quali si afferma con chiarezza il valore umano e cristiano della donazione di organi, precisando che le modalità di espianto devono svolgersi nel rispetto della libertà del donatore e mai ponendo in pericolo o abbreviandone in modo artificioso la vita fisica (cfr. ad es. Discorso ai partecipanti ad un Congresso sui trapianti di organi , 20.6.1991, Insegnamenti, XIV,1 (1991), pp. 1710-1713; Discorso al Congresso Mondiale della Società dei Trapianti, OR, 30.8.2000); sul tema si pronuncerà anche l'enciclica Evangelium vitae (cfr. n. 86).
Un'attenzione particolare è stata sempre rivolta dalla Chiesa all'approfondimento del senso cristiano della sofferenza. Ne sono testimonianza, nel pontificato di Giovanni Paolo II, la lettera apostolica Salvifici doloris (11.2.1984) e i vari messaggi per la Giornata annuale del malato. La situazione di malattia inguaribile, se non addirittura incurabile, costituisce per il cristiano l'occasione di sperimentare l'unione con Cristo paziente nell'umiliazione della Croce. L'uso degli analgesici è considerato dal magistero della Chiesa senza dubbio lecito (cfr. Carta degli Operatori Sanitari, n. 122), ma nel caso dei moribondi pone specifici problemi quando esso comporta il rischio di provocare anticipatamente la morte o la soppressione nella coscienza (cfr. ibidem, nn. 123-124; cfr. Peláez, 1997, pp. 106-108).
Sul rispetto del patrimonio genetico, dell'embrione e del feto contro indebite manipolazioni genetiche e biologiche si è pronunciata la Congregazione per la Dottrina della Fede con l'Istruzione su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione (Donum vitae, 22.2.1987), che può essere considerato il documento più ampio e organico sulla bioetica. Esso dà risposte specifiche ai principali interrogativi riguardanti gli interventi nella fase iniziale della vita dell'essere umano e nei processi stessi della procreazione umana. L'Istruzione offre anche alcuni orientamenti sui rapporti che intercorrono tra legge morale e legge civile in relazione alla legittimità delle tecniche di procreazione artificiale. Il principio guida dell'Istruzione è la riaffermazione che scienza e tecnica sono al servizio della persona umana, nello stesso tempo corporale e spirituale. Il corpo umano è parte costitutiva della persona e non può essere considerato solo come un complesso di tessuti, organi e funzioni. Un qualunque intervento sul corpo umano coinvolge la stessa persona. La necessità di rispettare l'essere umano come una persona dal primo istante della sua esistenza detta le condizioni per la liceità della diagnosi prenatale e degli interventi terapeutici e sperimentali sull'embrione. I valori fondamentali connessi con le tecniche di procreazione artificiale sono: la vita dell'essere umano chiamato all'esistenza e l'originalità della sua trasmissione nel matrimonio e nel reciproco rispetto del diritto degli sposi a diventare padre o madre soltanto l'uno attraverso l'altro. È per questo che vengono condannate tutte le pratiche di fecondazione che comportano la distruzione di embrioni umani o che non sono il frutto dell'atto coniugale specifico dell'amore fra gli sposi. Dopo l'annuncio, nei primi mesi del 1997, della clonazione della pecora Dolly, la Pontificia Accademia per la Vita ha pubblicato il documento Riflessioni sulla clonazione (24.6.1997, EV 16, 587-605), in cui vengono focalizzati i problemi etici annessi alla clonazione umana, riaffermando i princìpi già esposti nell'Istruzione Donum vitae.
3. Osservazioni conclusive. La medicina non è una scienza confinata nei limiti della sua specifica competenza. Fedele al suo originario statuto epistemologico deve tornare ad essere «l'incarnazione di un ethos professionale, esemplare per quel che riguarda il rapporto tra il Sapere e un fine pratico-etico, e tale perciò che ad esso si fa continuamente appello per promuovere fiducia nella fecondità del sapere teoretico per l'edificazione della vita umana» (Jaeger, 1990, vol. III, p. 3). Il ruolo della medicina nella cultura del nostro tempo non può appiattirsi su modelli scientisti, rinunciando ad essere una guida essenziale per l'umanizzazione della scienza e la promozione di rapporti umani improntati sulla fiducia. Non è soltanto la malattia a limitare la libertà degli uomini, chiedendo loro di riporre la propria fiducia in altri uomini. La dissoluzione della persona mediante una sua "cosificazione" all'interno della macchina sanitaria può essere il simbolo della dissoluzione dell'individuo nel grande meccanismo della civiltà tecnologica. Gadamer considera la professione medica emblematica, perché il suo compito non consiste nel "produrre", bensì nel prestare aiuto facilitando all'essere umano il ritorno in salute, il rientro nella vita (cfr. 1994, p. 99). La scienza medica è l'unica, in fondo, a non produrre nulla, ma a dover fare i conti espressamente con la prodigiosa capacità della vita di ristabilirsi da sola.
Documenti della Chiesa Cattolica correlati:
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