L’esperienza scientifica dei fondamenti: lo stupore

Il brano qui proposto offre alcune profonde riflessioni sul ruolo dello stupore nella ricerca scientifica e nella vita dello scienziato. Lo stupore viene affrontato dapprima in quanto meraviglia di fronte all’ordine naturale, e poi in quanto meraviglia dello scienziato al cospetto di una (propria) scoperta. Infine, sintetizzando i due precedenti aspetti, lo stupore diviene stupore per l’intelligibilità stessa della natura. Le pagine che seguono fanno evincere il loro valore umano, oltre che filosofico-scientifico, grazie al dialogo ideale che l’autore intrattiene con alcuni grandi scienziati contemporanei (da Einstein ad Heisenberg, da de Broglie a Planck, e altri ancora).

Quando interroghiamo uno scienziato sulla motivazione che inizialmente lo ha condotto alla scienza, lo sentiamo quasi sempre parlare di un senso di meraviglia. Possiamo così dare inizio al nostro studio sull’esperienza totale della scienza analizzando il ruolo giocato dallo stupore nel processo scientifico. Lo stupore si definisce in tre modi: come sorpresa e attrazione per qualcosa; come ammirazione e diletto suscitato da qualcosa; come uno stato di meraviglia accompagnato da un senso d’interrogazione. Questa triplice distinzione offertaci dalla semantica dello stupore può servire da guida nel nostro tentativo di capire come nasca la scienza e a quali esiti conduca.

 

1. La sorpresa di fronte all’ordine naturale

Cominciando dall’inizio, che cos’è che fa scattare l’attività scientifica? In altre parole, com’è che la mente umana viene sollecitata a porsi l’obiettivo di quella conoscenza che infine costituirà la scienza? Se interroghiamo coloro che traggono il loro sapere dall’esperienza, vale a dire gli stessi scienziati creativi, riceviamo una risposta unanime. Ciò che in primo luogo li muove a far scienza non è che un senso di sorpresa.

Psicologicamente parlando, è ovvio che l’uomo abbia bisogno della sorpresa per intraprendere l’attività scientifica, perché la scienza è una ricerca del nuovo. Non ci si mette alla ricerca del nuovo se lo stato delle cose appare scontato, ma solo se si presenta in modo insolito. Un famoso detto lo esprime inequivocabilmente: ab assuetis non fit passio, assuefa vilescunt. Ciò a cui siamo avvezzi non ci sorprende, ci appare insignificante. In realtà la scienza ha inizio quando si rimane colpiti dal fatto che il mondo dell’osservazione è così com’è. Vale a dire, il primo apparire della scienza corrisponde alla consapevolezza di una novità e alla aspettativa delusa esperita in rapporto alla realtà quotidiana. Questa sorpresa è di tipo cognitivo, in un duplice senso: il primo consiste nell’improvvisa percezione che l’uomo può realmente conoscere il mondo osservabile; il secondo nella percezione che, nonostante il mondo sia conoscibile, non è ancora conosciuto da parte dell’uomo. Ciò che allora spinge l’uomo a far scienza è l’attrazione esercitata da un’intelligibilità che chiaramente è là, ma fino a quel momento trascurata o ignorata.

Per un esempio del ruolo svolto dallo stupore nel dare il via alla scienza, volgiamoci alla testimonianza di due fra i massimi personaggi che hanno contribuito in modo creativo alla fisica dei quanti, Bohr e Heisenberg. Com’è ben noto, questo settore della scienza è caratterizzato da un formalismo matematico altamente astratto e tratta con entità che l’uomo non è in grado di osservare direttamente. Ci si aspetterebbe che i ricercatori che vi hanno dedicato la vita fossero motivati da qualche ragione astratta, specialmente dalle sottigliezze matematiche e dall’interesse per la logica. Però, quando chiediamo a Bohr e a Heisenberg perché siano diventati fisici quantistici, riceviamo questa candida risposta: per un senso di stupore. Li sorprese che le cose dell’esperienza ordinaria fossero così com’erano, li sorprese che la gente non trovasse nulla d’insolito in quella situazione, perciò decisero di dedicare la loro vita a scoprirlo. Heisenberg ci fornisce un’analisi particolarmente affascinante di questo stato di cose.

Quando incontrò Bohr per la prima volta, egli era piuttosto diffidente nei confronti della motivazione che spingeva quest’ultimo al suo lavoro. Bohr parlava continuamente in termini di modelli e di rappresentazioni planetarie degli atomi. Era forse guidato dal desiderio inconscio di imporre uno schema razionalistico-meccanicistico alla natura, invece di limitarsi a scoprire come le cose veramente stavano? Bohr fu rapido a dissipare questo sospetto dalla mente del suo giovane interlocutore. Rifacendosi alla genesi della sua famosa teoria, egli respinse enfaticamente l’idea che il suo punto di partenza potesse essere stato il desiderio di meccanizzare la struttura dell’atomo. Nelle sue stesse parole, «il mio punto di partenza era la stabilità della materia, che dal punto di vista della fisica classica è un vero e proprio miracolo»[1]. Procedendo a chiarire il suo pensiero, Bohr mise in risalto il fatto che la stabilità della materia è una cosa del tutto ovvia ma nello stesso tempo sorprendente. L’ovvietà consiste nel fatto che la materia presenta all’uomo sempre gli stessi tratti; la sorpresa, nel fatto che fino a quel momento nessuno era stato capace di capire perché fosse stabile, in quanto, sulla base della fin lì accettata interpretazione newtoniana della natura, la stabilità della materia era semplicemente incomprensibile. «Per stabilità intendo il fenomeno per cui le stesse sostanze si presentano sempre con le stesse proprietà: cristallizzano sempre nello stesso modo, producono sempre gli stessi composti chimici, ecc... Esiste allora in natura la tendenza a produrre forme specifiche — uso in questo caso la parola forme nel senso più generale — e a riprodurre sempre da capo queste forme, anche quando vengono modificate o distrutte... Si tratta di fenomeni normalissimi, ma che sembrano incomprensibili se si accettano gli assiomi della fisica newtoniana...».

Per quanto poi riguarda Heisenberg, egli stesso riferisce il motivo che inizialmente lo condusse alla fisica. Il suo problema di fondo (Grundfrage) era sapere «perché, nel mondo della materia, ci sono forme e qualità che ricorrono continuamente».[2] Gli esempi che ci dà sono familiari. Egli parla della sorpresa determinata dal fatto che l’acqua presenta sempre le stesse caratteristiche, nonostante i processi diversi coi quali viene prodotta, per esempio la liquefazione del ghiaccio, la condensazione del vapore, la combustione dell’idrogeno. Gli sembrava sorprendente che si accettasse tutto ciò per scontato. «La fisica classica lo ha sempre presupposto, mai spiegato... In questo settore, allora, solo leggi naturali del tutto diverse possono render conto del fatto che gli atomi si dispongono e si comportano sempre nello stesso modo, così da produrre sempre le stesse sostanze con le stesse stabili proprietà... Ci si apre così un immenso territorio vergine nel quale l’uomo, per decenni, potrà forse scoprire nuove interconnessioni».

Insomma, ciò che spinge l’uomo a intraprendere l’attività scientifica non è, come spesso si dice, uno scetticismo pianificato o un senso di ribellione contro le opinioni fin lì accettate. Concezioni di quel tipo non si riferiscono al momento iniziale della scienza perché sono soltanto negative e, di conseguenza, impotenti a suscitare una nuova conoscenza del mondo. Al contrario, ciò che anima l’aspirante scienziato è qualcosa di assolutamente positivo. È la sorpresa che scaturisce dal contatto esperienziale diretto con la natura. C’è sorpresa quando ci si accorge che la natura può essere conosciuta. Lo scienziato è colui che prende seriamente questa consapevolezza e, di conseguenza, s’impegna nella ricerca di un nuovo sapere. Stando così le cose, si capisce subito perché gli scienziati apprezzino tanto l’originalità di pensiero. L’originalità e l’apertura mentale costituiscono i tratti fondamentali di chi ha un’attitudine per la scienza, poiché la scienza rivela che la natura è così ricca e imprevedibile nelle sue manifestazioni che non dovrebbe mai lasciare alcuno adagiarsi sugli allori delle conquiste intellettuali del passato. Planck ha ben espresso questo tratto fondamentale dell’atteggiamento scientifico: «...A paragone della natura incommensurabilmente ricca ed eternamente giovane, l’uomo, per quanto possa aver progredito nella conoscenza e nell’intuizione scientifica, dovrà sempre rimanere un fanciullo stupito costantemente preparato a nuove sorprese».[3]

 

2. La meraviglia della scoperta

All’esperienza scientifica si può applicare una seconda accezione del termine «stupore». Lo scienziato prova sorpresa non soltanto all’inizio del suo lavoro, quando si accorge che il mondo è conoscibile ma ancora ignoto, ma ben di più allorché giunge al termine del suo tentativo, cioè quando effettivamente scopre quella intelligibilità che aveva perseguito. La sorpresa è ora quella di trovarsi di fronte a qualcosa di più grande e più eccitante di quanto aveva previsto. Per distinguerlo dal primo genere di stupore, possiamo parlare a questo proposito di meraviglia accompagnata da emozioni come la gioia e un senso di gratificazione.

Per una comprensione diretta di questo aspetto caratteristico della scienza, prendiamo in considerazione alcune prove concrete disponibili. In primo luogo, contrariamente a un cliché diffuso, l'emotività dello scienziato è completamente coinvolta nell’esperienza della scoperta. Gli scienziati sono ben lontani dall’essere i personaggi freddi e imperturbabili — tutto cervello e niente cuore che i profani spesso immaginano. Gli scienziati stessi parlano continuamente di situazioni sensazionali ed eccitanti, e fanno ricorso a paragoni ingegnosi per dare l’idea di ciò che provano. La psicologa Eiduson ha raccolto dati istruttivi a questo proposito. Un fisico di primo piano, per esempio, paragona la ricerca scientifica della conoscenza all’attività del cercatore d’oro.[4] Il cercatore spala il terriccio in un campo aurifero. È un lavoro monotono e sfibrante. Ma all’improvviso, ecco una pepita d’oro. Il brivido della scoperta compensa ampiamente l’estenuante ricerca. Un brivido analogo coglie il ricercatore scientifico. Il fisico di cui s’è detto conclude confessando candidamente: «...Per me, il brivido più intenso è quando si nota un nuovo risultato per la prima volta. Può darsi che succeda solo una volta o due all’anno, ma vale tutta la fatica che lo precede». Altri scienziati fanno lo stesso rilievo. Per esempio, un chimico afferma significativamente: «Una cosa della scienza è che la ricerca della conoscenza è di gran lunga più eccitante di quanto mi fossi mai aspettato da giovane»[5]. Il carattere emotivo della meraviglia svolge un ruolo grandissimo nell’impresa scientifica.

Ma come si dovrebbe valutare la situazione, se davvero il processo scientifico coinvolge l’emotività dello scienziato? La reazione dello scienziato è forse qualcosa di meramente soggettivo, una valvola di scarico della tensione psicologica, che non ha nulla a che fare con il contenuto oggettivo della scienza? Numerosi filosofi sembrano pensarlo, ma gli scienziati sono di tutt’altra opinione. Ecco come un chimico chiarisce a Eiduson la gioia che la scienza gli fa provare: «Per me la scienza è terribilmente eccitante. Non sto parlando soltanto di quella soddisfazione che deriva dall’aver risolto un problema; per quanto mi riguarda, la soddisfazione vera deriva dall’aver conseguito una conoscenza»[6]. È una testimonianza illuminante perché mostra quanto gli scienziati considerino la scienza gratificante. Ciò che provano non è una mera reazione psicologica — qualcosa di totalmente soggettivo. In realtà, è la scoperta della verità — qualcosa di totalmente oggettivo — che provoca la loro gioia ed esultanza. Gli scienziati esprimono in modi diversi quest’esperienza. Per esempio, il grande neurologo Ramón y Cajal paragona la gioia della scoperta scientifica a quella di dare alla luce una nuova vita. «Questa gioia e soddisfazione suprema fa sembrare tutti gli altri piaceri delle pallide sensazioni e compensa lo scienziato del lavoro duro, costante, analitico, come il travaglio del parto per giungere a una nuova verità»[7]. Born aggiunge un’altra considerazione dello stesso tenore affermando che il piacere della scoperta non è semplicemente soggettivo, come quello che si gode, per esempio, nel risolvere un cruciverba. La sensazione soggettiva si accompagna qui alla consapevolezza della creatività oggettiva, proprio come accade nella creatività dell’arte e della filosofia. «Questo piacere è un po’ come quello noto a chiunque risolva un cruciverba. Tuttavia è molto più di quello, forse anche più della gioia che dà un lavoro creativo in altre professioni fatta eccezione per l’arte. Esso consiste nella sensazione di penetrare il mistero della natura, di scoprire un segreto della creazione, di portare un ordine e un significato in una parte del mondo caotico. E una soddisfazione filosofica»[8].

Alla luce di quanto precede, comprendiamo perché gli scienziati creativi insistono tanto nel ritenere la scienza una visione essenzialmente teorica — contro qualsiasi risultato pratico l’uomo possa attendersi dalla scienza stessa. Louis de Broglie riassume bene la situazione quando dichiara che la gioia della scoperta oggettiva è ciò che sprona gli scienziati autentici nella loro ricerca. «Le grandi scoperte che furono, per così dire, le pietre miliari della storia delle scienze — si pensi, ad esempio, a quella della gravitazione universale — sono state come bruschi lampi che hanno fatto intravedere improvvisamente un’armonia sino allora insospettata, ed è per avere di tanto in tanto la divina gioia di scoprire siffatte armonie che la scienza pura lavora senza risparmiare le sue fatiche, né cercare profitto».[9]

 

3. La sorpresa di fronte all’intelligibilità della natura

Abbiamo visto che lo stupore accompagna continuamente la scienza nel suo farsi. Esso fa scattare l’interesse del ricercatore e compensa il suo lavoro. Ma quando una concezione scientifica della realtà si è imposta con successo, c’è ancora posto per lo stupore? In altri termini, si deve pensare che scienza e stupore sono compatibili o piuttosto che l’atteggiamento scientifico comporta l’esclusione dello stupore dalla mente dell’uomo? Questo è il prossimo problema da prendere in esame per capire il ruolo svolto dallo stupore in rapporto alla scienza.

Chiariamo la questione fin dall’inizio, dicendo che c’è un genere di stupore chiaramente incompatibile con la scienza: la sorpresa che deriva dall’ignoranza. Per esempio, ai trucchi del prestidigitatore i bambini e gli spiriti semplici rimangono sorpresi, mentre ciò non accade alle persone evolute. Ma se è vero in questo caso, qual è poi la situazione nella scienza? Si deve dire che essa elimina lo stupore col bandire l’ignoranza dalla mente dell’uomo, o piuttosto che il suo stesso successo è fonte di stupore, di un genere che il profano non sospetta nemmeno? Ecco il nostro problema. Per discuterlo, farò riferimento alle dichiarazioni di due grandi protagonisti, che pretendono entrambi di parlare in nome della scienza: Mach e Einstein.

Anche Mach era uno scienziato, un fisico sperimentale di primo piano. Ma, come si chiarirà subito, le sue idee su questo argomento erano principalmente di origine filosofica. La posizione di Mach sullo stupore in rapporto alla scienza è intransigente. Per lui non c’è dubbio che lo stupore è soltanto un sentimento soggettivo, una manifestazione d’ignoranza individuale. La scienza dev’essere nemica dello stupore. Detto con le sue parole, «la novità suscita lo stupore nelle persone che, per costituzione mentale, si agitano e si sentono scombussolate da ciò che vedono. L’elemento dello stupore non risiede mai nel fenomeno o nell’evento osservato; esso sta nella persona che osserva. Le persone dotate di struttura mentale più vigorosa tendono subito a un adeguamento del pensiero per conformarlo a ciò che hanno osservato. In tal modo la scienza finisce per diventare il nemico naturale del meraviglioso».[10]

Perché Mach assume questa posizione? L’origine filosofica della sua convinzione diventa chiara quando esaminiamo gli argomenti che egli presenta in difesa della sua tesi. La sua mentalità è dominata dalla concezione empiristica della conoscenza con la conseguente interpretazione logico-matematica della scienza. Non per nulla, infatti, egli tende a ridurre la scienza alla meccanica classica, spiegando poi la meccanica stessa semplicemente in termini di impressioni sensoriali. Possiamo fare riferimento, per esempio, alla sua interminabile discussione sul principio meccanico della gravità virtuale che egli presenta come caratteristica della comprensione scientifica della natura. L’affermazione con cui conclude la discussione è illuminante: «Mettendo insieme tutto ciò che è stato detto, vediamo che nel principio di gravità virtuale è contenuto semplicemente il riconoscimento di un fatto già da lungo tempo istintivamente noto, ma non appreso in modo così preciso e chiaro. Questo fatto consiste nella circostanza che i gravi, lasciati a se stessi, si muovono solo verso il basso»[11]. È un’affermazione importante perché esemplifica la concezione generale di Mach sulla natura della scienza. Come dice altrove nei suoi scritti filosofici, «l’impulso più forte alla scienza è sempre consistito in qualche formulazione riuscita, espressa in termini chiari, astratti e comunicabili, di ciò che era da lungo tempo istintivamente conosciuto, rendendolo in tal modo patrimonio stabile dell’umanità»[12].

In breve, la scienza è per Mach semplicemente una percezione e organizzazioni di sensazioni, o, com’egli dice, un «adeguamento del pensiero». In quanto tale, la scienza deve essere incompatibile con lo stupore, perché, chiaramente, non ci può essere posto per la sorpresa una volta che la mente umana si è adeguata alle sensazioni. Piuttosto, sotto questo assunto, è vero l’opposto. La scienza deve non soltanto eliminare lo stupore, ma anche lasciare nell’uomo un senso di delusione, poiché l’adeguamento consiste in fondo nel mostrare che le cose sono auto-evidenti, praticamente scontate. Questa è in realtà la dottrina di Mach. Nelle sue stesse parole, «di fatto, ogni progresso che ha portato luce nella scienza è accompagnato da un certo senso di delusione. Scopriamo che ciò che ci appariva meraviglioso non è più meraviglioso delle altre cose che istintivamente conosciamo e che consideriamo per sé evidenti: anzi, dovrebbe essere ben più meraviglioso il contrario: che dovunque si manifesta lo stesso fatto. Il nostro enigma finisce dunque per non essere più un enigma; svanisce nel nulla, e va a occupare il suo posto fra le ombre della storia»[13]. Insomma, la posizione di Mach è chiara e decisa, ma non è senz’altro una conseguenza diretta della sua esperienza di scienziato. È piuttosto la conseguenza della sua interpretazione filosofica della scienza della meccanica.

Quando ci volgiamo alla posizione di Einstein, ci troviamo in un clima completamente diverso. Einstein conosceva bene il lavoro storico e filosofico di Mach, e gli attribuiva anche una certa influenza positiva sull’origine della propria teoria della relatività.[14] Tuttavia, non solo non condivideva il punto di vista di Mach sullo stupore, ma sosteneva esplicitamente la tesi opposta. Per Einstein non c’è dubbio che la scienza, lungi dal sopprimere lo stupore, in realtà contribuisce a incrementarlo: maggiore lo stupore, più forte il progresso della scienza. Da che cosa traeva questa convinzione? Possiamo dire con certezza che la traeva dalla propria esperienza di scienziato creativo. Particolarmente un passo, contenuto in una lettera a un amico, manifesta chiaramente l’origine esperienziale della convinzione di Einstein. «Lei trova strano che io senta l’intelligibilità del mondo (per quanto è lecito parlarne) come una meraviglia (Wunder) o un eterno mistero (ewiges Geheimnis). A priori, ci si aspetterebbe un mondo caotico che il pensiero non è assolutamente in grado di cogliere. Ci si potrebbe (o meglio, dovrebbe) attendere che il mondo fosse soggetto alle leggi solo fino al punto in cui interviene la nostra attività ordinatrice. Si tratterebbe di un assetto simile a quello dell’ordine alfabetico delle parole di una lingua. Al contrario, il genere di assetto che risulta, per esempio, dalla teoria della gravitazione di Newton ha un carattere del tutto diverso. Anche se gli assiomi della teoria sono stati fissati dall’uomo, il successo dell’impresa presuppone un elevato livello d’ordine del mondo oggettivo che non abbiamo alcun diritto di attenderci a priori. Ecco la “meraviglia” che aumenta costantemente con lo sviluppo della nostra conoscenza. E qui sta il punto debole dei positivisti e degli atei di professione che si rallegrano in coscienza di aver sottratto al mondo non solo Dio (entgöttert), ma anche lo stupore (entwundert[15].

Le linee della controversia non potrebbero essere più nettamente tracciate. Quale dei due grandi antagonisti rappresenta autenticamente la mentalità scientifica? Se vogliamo restare coerenti col nostro approccio esperienziale allo, studio della scienza e del suo significato, la risposta non può essere dubbia. In questo caso è Einstein l’autentico portavoce della scienza. Numerose ragioni sorreggono la sua tesi.

La ragione principale per cui il successo della scienza aumenta lo stupore invece di sopprimerlo si trova accennata nella citazione più sopra. È il successo della scienza stessa. Di fatti, il risultato cui la scienza perviene è la scoperta della oggettiva intelligibilità della natura. Ma tale scoperta non può fare a meno di sorprendere se vi si riflette. Infatti, da una parte la scienza è una struttura ideale e logica dovuta allo sforzo dell’uomo. La sua universalità e il suo rigore sono soltanto formulazioni poste dall’uomo. Dall’altra parte, la natura esiste in modo totalmente indipendente dall’uomo. E ben lontana dall’essere un universale ideale e astratto. Essa consiste piuttosto d’innumerevoli esseri singoli soggetti a mutamento continuo e imprevedibile. Pertanto potrebbe sembrare che sia il caos, e non l’ordine, la caratteristica prevalente della natura. Questa è dunque la ragione principale per sorprendersi del successo della scienza: la convergenza della scienza fatta dall’uomo con il comportamento della natura. Questa convergenza è un fatto, ma è anche un problema, perché la sua spiegazione è tutt’altro che evidente. Di conseguenza, più la scienza progredisce, più lo stupore che essa suscita aumenta invece di scomparire. Einstein ha ripetuto più volte che c’è motivo di sbigottimento di fronte a questa connessione. Come dice in uno scritto sul lavoro di Planck, «(il fisico) si stupisce nell’accorgersi che l’ordine sublime emerge da ciò che si presentava come caos. E ciò non può essere ricondotto alle operazioni della sua mente, ma a una qualità inerente al mondo della percezione».[16]

Nella letteratura si possono trovare altre varianti della motivazione data. Planck, per esempio, scopre una fonte di sorpresa nel fatto che gli uomini dediti alla scienza sono del tutto diversi per molti aspetti, mentre la scienza è «una». Oltre a ciò, le scoperte della scienza danno prova di avere una portata che supera di gran lunga le aspettative di coloro che le hanno fatte. Per usare le sue stesse parole, «la vera meraviglia è che noi c’imbattiamo in leggi naturali che sono le stesse per uomini di tutte le razze e nazionalità. Questo è un fatto tutt’altro che di ordinaria amministrazione. E l’altra meraviglia è che per la maggior parte queste leggi hanno una portata che non poteva esser prevista. In tal modo l’elemento del meraviglioso nella struttura dell’immagine del mondo aumenta con la scoperta di ogni nuova legge».[17]

Planck indica ancora un’altra ragione di sorpresa di fronte al successo della scienza, che ha a che fare col modo particolare in cui la scienza stessa si trasforma lungo i secoli. In linea di principio, nessuno dovrebbe sorprendersi di questa variabilità, giacché le cose cambiano nel tempo, e anche gli uomini cambiano. Dunque, ci si può soltanto aspettare che la conoscenza che l’uomo ha della natura sia soggetta a mutamento. Tuttavia, la mutabilità della scienza è sorprendente in quanto tutte le novità che essa scopre non cancellano la precedente concezione scientifica del mondo, ma semplicemente la perfezionano e la completano. È sorprendente perché si presenta come un fenomeno unico nella storia del genere umano. Per citare ancora Planck: «Ma la circostanza che suscita sempre maggior meraviglia, perché evidentemente niente affatto scontata, è che la nuova immagine del mondo non cancella quella vecchia, ma le consente di rimanere nella sua integrità, aggiungendovi semplicemente una speciale condizione... Mentre la moltitudine dei fenomeni naturali osservati in ogni campo si sviluppa in una profusione sempre più ricca e varia, l’immagine scientifica del mondo che ne deriva, assume una forma sempre più chiara e definita. I mutamenti continui nell’immagine del mondo non significano quindi una casuale oscillazione a zig-zag, ma un progresso, un perfezionamento, un completamento»[18].

Certo, si può dare vigore all’obiezione contro lo stupore come frutto dei risultati scientifici insistendo sulla concezione machiana della conoscenza. Se la conoscenza è puro adattamento dell’uomo al suo ambiente così come i sensi lo percepiscono, il successo della scienza è la cosa più naturale di questo mondo. La scienza diventa semplicemente il prodotto del condizionamento che l’ambiente esercita sull’uomo. De Broglie riassume così l’obiezione: «(L’umanità) non deve meravigliarsi di ritrovare nel mondo materiale la logica e le norme di ragionamento che ne ha tratto»[19]. Tuttavia, se questa obiezione può essere ritenuta valida dal filosofo, da parte dello scienziato creativo trova solo disdegno. Poiché, se c’è qualcosa che non è un adeguamento dell’uomo a ciò che egli spontaneamente percepisce attraverso i sensi, questa è la scienza. Galileo, per dirne uno, già esaltava la dignità della mente creativa. La scienza ai suoi inizi consisteva nella capacità di ritenere vero con la mente ciò che appariva assurdo ai sensi. La penetrazione della scienza in nuove aree della ricerca è sempre stata dello stesso genere. Ciò è particolarmente chiaro quando consideriamo i risultati della fisica contemporanea, poiché gli esiti della relatività sul rapporto spazio-tempo, e quelli della fisica dei quanti sulle proprietà corpuscolari e ondulatorie delle microparticelle, sono diametralmente opposti a quelli che l’uomo percepiva naturalmente attraverso i sensi. Dunque, lo stupore nella scienza rimane valido. Come afferma De Broglie nel contesto citato, «noi non ci meravigliamo abbastanza del fatto che una scienza sia possibile, cioè che la nostra ragione ci fornisca i mezzi per comprendere almeno certi aspetti di ciò che accade intorno a noi nella natura».

Per concludere, è ovvio che lo stupore e la scienza sono profondamente interconnesse. È così non soltanto nel senso psicologico secondo il quale lo stupore è il necessario punto di partenza della scienza; assai più significativo è il fatto che la scienza, sulla base del suo successo, conduce la persona riflessiva a un senso rinnovato dello stupore. Come abbiamo visto, l’esperienza dello stupore colpisce soprattutto il grande creativo, chiaramente a motivo del potere penetrante della sua intelligenza. Egli non può esimersi dall’indagare il significato ultimo della effettiva intelligibilità della natura, che mette allo scoperto con la sua scienza. Ciò aggiunge un’inaspettata nuova dimensione alla scienza intesa come esperienza dell’uomo totale. Non possiamo qui seguire la questione nei suoi ulteriori affascinanti sviluppi. Tuttavia, l’esito della nostra indagine è consolante per l’umanista che presta attenzione alla scienza. Egli si rende conto che il mondo non è stato derubato del meraviglioso dalla scienza. Al contrario, la natura e il mondo sono ancor più stupefacenti di prima, e proprio in virtù del accesso della scienza.

   

Note

[1] W. Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti (1920-1965), Bollati-Boringhieri, Torino 1984 p. 48.
[2] Heisenberg, Fisica e oltre, p. 30.
[3] M. Planck, Autobiografia scientifica e ultimi saggi, tr. it. di A. Gamba, Einaudi, Torino 1956, p. 128.
[4] Citato da F. Bello, in P.C. Obler, H. Estrin (edd.), The New Scientists: Essays on the Methods and Values of Modern Science, Doubleday Anchor Books, New York 1962, p. 81.
[5] B. Eiduson, Scientists. Their Psychological World, Basic Books, New York 1962, p. 57.
[6] Eiduson, Scientists, p. 110.
[7] S. Ramón y Cajal, Rules and Counsels for the Scientific Investigator, in Craigie-Gibson, The World of Ramón y Cajal with Selections from his Nonscientific Writings, C. Thomas, Springfield IL 1968, p. 191.
[8] M. Born, My Life and Views, Scribner, New York 1968, p. 47.
[9] L. de Broglie, Fisica e microfisica, Einaudi, Torino 1950, p. 215.
[10] E. Mach, Popular Scientific Lectures, tr. it. di A. Bongioanni, Letture scientifiche popolari, F.lli Bocca Ed., Torino 1900, spec. p. 176. Vedi il c. X, Trasformazione ed adattamento del pensiero scientifico, pp. 167-185.
[11] E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico critico, Bollati-Boringhieri, Torino 1992, p. 99.
[12] E. Mach, Letture scientifiche popolari, spec. p. 146. Vedi il c. IX, La natura economica delle investigazioni fisiche, pp. 142-166.
[13] E. Mach, La meccanica, p. 64.
[14] A. Einstein, Autobiografia scientifica, Boringhieri, Torino 1979, p. 18.
[15] Tradotto da A. Einstein, Lettres à Maurice Solovine, Gauthier-Villars, Paris 1956, p. 114; lettera datata 30 marzo 1952.
[16] A. Einstein, Prologo a M. Planck, Where Is Science Going?, Norton, New York 1932, p. 11.
[17] M. Planck, Autobiografia scientifica e ultimi saggi, p. 114.
[18] M. Planck, Autobiografia scientifica e ultimi saggi, pp. 117-118.
[19] L. de Broglie, Fisica e microfisica, p. 216.

   

Enrico Cantore, L’uomo scientifico. Il significato umanistico della scienza,EDB, Bologna 1987, pp. 155-167, or. ing. Scientific Man. The Humanistic Significance of Science, ISH Publications, New York 1977.