I. Una vita travagliata - II. Una visione "forte" - III. L'interesse per i problemi fondamentali - IV. In nome del realismo - V. Un rivoluzionario riluttante - VI. Fisica e Metafisica - VII. La profonda sintonia con il religioso.
Nel 1947 si era sparsa la voce di una conversione al cattolicesimo del celebre fisico tedesco Max Planck: il fatto non avrebbe stupito più di tanto gli entusiasti ascoltatori delle sue conferenze che, ormai da un decennio, erano sempre più dedicate ai rapporti tra religione e scienza, a partire da quella tenuta in varie località delle province baltiche nel maggio 1937 e intitolata proprio Religion und Naturwissenschaft (Religione e Scienza). La notizia fu smentita dallo stesso scienziato, ormai ottantanovenne, in una lettera scritta a W.H. Kick a pochi mesi dalla morte, nella quale ammetteva di essere sempre stato profondamente religioso ma dichiarava di non credere in «un Dio personale, tanto meno nel Dio dei cristiani». La dimensione religiosa, tuttavia, domina ampiamente tutta la sua vita e la sua opera scientifica e traspare a diversi livelli nei suoi numerosi scritti.
I. Una vita travagliata
Nella sua lunga esistenza Planck ha incarnato la figura dell'uomo tutto d'un pezzo, con un radicato senso del dovere e una dirittura morale inflessibile. Le testimonianze di molti che l'hanno accostato concordano nell'affermare che egli non prendeva mai decisioni in base all'interesse personale, ma che a tutto anteponeva l'osservanza di quei princìpi di lealtà, obiettività e rispetto della verità ereditati da una discendenza di studiosi, giuristi e ministri del culto.
Max Karl Ernst Ludwig Planck era nato a Kiel (Germania) il 23 aprile 1858 da Wilhelm, professore di diritto costituzionale, e da Emma Patzig, discendente da una famiglia di pastori luterani. Dopo gli studi di fisica a Monaco e a Berlino, dove ebbe come maestri Gustav Kirchhoff (1824-1887) e Hermann von Helmholtz (1821-1894), si laureò nel 1879 con una tesi sui due Princìpi della termodinamica; insegnò quindi fisica teorica a Kiel dal 1885 al 1889, quando venne chiamato all'Università di Berlino a sostituire Kirchhoff, una cattedra che tenne per 38 anni. Anche le sue cariche pubbliche, sempre in campo scientifico, sono contrassegnate dalla continuità: è stato segretario permanente della Accademia Prussiana delle Scienze dal 1912 al 1943 e Presidente della Kaiser Wilhelm Gesellschaft, la principale istituzione tedesca per la Promozione della Scienza, dal 1930 al 1937.
La sua attività di ricerca si concentrò inizialmente sulla termodinamica ma presto fu il problema della radiazione ad attirare la sua attenzione. Nel tentativo di trovare una formula che interpretasse correttamente i dati sperimentali del fenomeno detto del «corpo nero», arrivò ad una relazione tra l'energia e la frequenza della radiazione basata sull'ipotesi rivoluzionaria di una emissione energetica non continua, ma quantizzata. Era il 1900 e, insieme al nuovo secolo, si inaugurava un capitolo totalmente nuovo della fisica, con una coincidenza storica carica di significati simbolici. Le sue memorie fondamentali furono pubblicate negli Annalen der Physik tra il 1900 e il 1901; sviluppo della sua teoria è condensato nelle Lezioni sulla teoria della radiazione termica, pubblicate dapprima nel 1906 e in una versione più completa e definitiva nel 1912. Nel 1918 ricevette il premio Nobel per la Fisica.
Nella sua vita Planck ha attraversato vicissitudini familiari tragiche, sullo sfondo delle altrettanto tragiche sorti della nazione tedesca che tanto amava. Nel 1909 perse la prima moglie; durante il primo conflitto mondiale un figlio morì al fronte e le due figlie morirono di parto; l'ultimo figlio, Erwin, nato dal secondo matrimonio, sul finire del 1944 fu accusato di complicità in un attentato a Hitler e condannato a morte: Planck fece tutto ciò che era nelle sue possibilità ma non riuscì ad evitare che i nazisti impiccassero Erwin. Solo in quest'ultima circostanza egli si sentì abbattuto e perse quell'ottimismo di fondo che aveva contrassegnato tutte le altre vicende: fino ad allora, era sempre riuscito a trovare la forza d'animo per andare avanti e per rispettare gli impegni assunti, anche nei momenti di difficoltà personale.
Data la sua posizione di simbolo della scienza tedesca, si trovò ad affrontare situazioni delicate e fu posto di fronte a drammatici dilemmi. Le sue scelte non furono sempre apprezzate dai colleghi, soprattutto nel periodo nazista, quando Planck decise di non dichiarare pubblicamente il suo dissenso, ma di sfruttare la sua posizione per salvare il salvabile. Soltanto sul finire degli anni Trenta, dopo le dimissioni dalla Kaiser Wilhelm Gesellschaft, la sua divergenza dalla linea politica di Hitler apparve più esplicitamente. Per discutibili che fossero le sue decisioni, considerate da molti come cedimenti di fronte al regime, risulta comunque chiaro come in lui fosse sempre una ragione di ordine superiore a prevalere e mai sia giunto a compromessi con la propria coscienza.
II. Una visione "forte"
«La decisione di dedicarmi alla scienza fu conseguenza diretta di una scoperta, che non ha mai cessato di riempirmi di entusiasmo fin dalla prima giovinezza: le leggi del pensiero umano coincidono con le leggi che regolano le successione delle impressioni che riceviamo dal mondo intorno a noi, sì che la logica pura può permetterci di penetrare nel meccanismo di quest'ultimo. A questo proposito è di fondamentale importanza che il mondo esterno sia qualcosa di indipendente dall'uomo, qualcosa di assoluto. La ricerca delle leggi che si applicano a questo assoluto mi parve lo scopo scientifico più alto della vita» (La conoscenza del mondo fisico , p. 11). Questo brano col quale inizia l' Autobiografia scientifica sintetizza il profilo scientifico e umano del grande fisico tedesco e riprende parole e temi ricorrenti nel suo pensiero. Vale la pena tuttavia rilevare subito il carattere determinato del personaggio e la granitica forza delle convinzioni, che si intrecciano con un carattere entusiasta, anche se di un entusiasmo tutto interiore, schermato da una apparente distaccata freddezza.
Nel caso di Planck il ricorso al termine "vocazione" per indicare l'attività di scienziato non sembra per nulla esagerato o retorico: fin da giovane egli aveva ben chiaro lo scopo da perseguire e tale scopo era "alto", "disinteressato", degno di una dedizione totale; tale insomma da poter essere individuato come un "compito" che egli si sentiva assegnato e di fronte al quale era tenuto a rispondere con la massima serietà. Un compito però che non cadeva pesantemente dall'esterno, come qualcosa di ineluttabilmente gravoso, ma che, al contrario, trovava una straordinaria corrispondenza con una fonte interna e viva che lo animava e sosteneva continuamente. Questa fonte, sorgente della sete di conoscenza e movente adeguato della ricerca è descritta da Planck come "meraviglia". Rifacendosi all'esperienza elementare del bambino, tutto proteso alla scoperta della realtà, in uno degli ultimi scritti Planck parla dello stupore come «fonte inestinguibile della sete di conoscere», dell'elemento meraviglioso nella struttura dell'immagine del mondo come di qualcosa che «aumenta con la scoperta di ogni nuova legge» e arriva a dichiarare che «chi ha raggiunto lo stadio di non meravigliarsi più di nulla dimostra semplicemente di aver perduto l'arte del ragionare e del riflettere»; eliminando quindi, con questo riferimento alla ragione, ogni possibile riduzione puramente estetica ed emotiva del concetto di stupore. Per lui, la meraviglia è un'arte che tutti possono apprendere perché non è un impeto autonomo del soggetto ma una reazione all'imporsi di qualcosa di oggettivo nel quale il soggetto si imbatte, vale a dire «la natura incommensurabilmente ricca ed eternamente giovane».
L'accento posto sulla realtà della natura ci aiuta anche a comprendere l'insistenza con la quale Planck indica l'obiettivo della scienza e insieme la condizione cardine che rende tale obiettivo raggiungibile e non illusorio: la scienza ha il «compito di introdurre ordine e regolarità nella ricchezza delle eterogenee esperienze portate dai vari campi del mondo dei sensi». Affermazione non certo originale ma significativa quando la si pensa pronunciata da un autore che ha prodotto un così grande scompiglio nella visione consolidata della realtà fisica. Un tocco in più di originalità è invece contenuto nel commento che immediatamente segue l'affermazione di principio, laddove Planck osserva che quel compito è in accordo con quello che ci sospinge, nella nostra vita di ogni giorno, a cercare il modo migliore per inserirci nell'ambiente che ci circonda; da questo approccio quotidiano il ragionamento scientifico differisce «non nella sostanza, ma solamente nel grado di sottigliezza e precisione».
Se tale è il traguardo, appare giustificato l'interrogativo circa la sua raggiungibilità. Un interrogativo che aveva ricevuto risposte positive nel corso della storia, soprattutto nei momenti delle tre "nascite" della scienza occidentale: nella Grecia classica, nelle scuole medievali di Parigi e Oxford, nel Seicento galileiano; ma che sul finire del XIX secolo stava registrando voci discordanti. Si stava infatti affermando la concezione di Ernst Mach, secondo la quale non esisterebbe altra realtà al di fuori delle nostre sensazioni e la scienza non sarebbe altro che un adattamento "economico" del pensiero alle nostre percezioni, spinto dalla lotta per la sopravvivenza. Planck, che inizialmente era stato un convinto seguace delle idee di Mach, ben presto si schiererà contro questa visione conoscitiva "debole" per assumere una posizione più simile a quella condensata nella celebre frase di Einstein: «la cosa più incomprensibile dell'universo è che esso sia comprensibile».
Alla domanda: «la nostra immagine fisica del mondo è esclusivamente una più o meno arbitraria creazione del nostro spirito, oppure rispecchia fenomeni naturali reali, assolutamente indipendenti da noi?» Planck risponde affermando la seconda opzione e mostrando l'evidente snaturamento che deriverebbe all'attività scientifica dall'assunzione dell'ipotesi opposta. Egli si chiede come mai la teoria di Mach, che va contro l'evidenza elementare e la premessa implicita di ogni lavoro scientifico (ed anche la testimonianza dei maggiori scienziati della storia), abbia trovato così ampio favore tra gli studiosi: si è trattato, arriva a rispondere, di una reazione filosofica, inizialmente giustificata, alle delusioni per le mancate promesse del meccanicismo; reazione che ha cercato di arginare il fronte di un minaccioso scetticismo ma che è andata «oltre il segno, degradando insieme all'immagine meccanica del mondo, anche l'immagine fisica del mondo».
III. L'interesse per i problemi fondamentali
Come sostiene Emilio Segré (1976), Planck «amava i problemi fondamentali e generali ed era naturalmente portato allo studio di un problema come quello del corpo nero, in cui non avevano importanza il modello atomico o altre condizioni particolari. Planck amava l'assoluto e tale era il corpo nero, nella sua generalità». Troviamo conferma di questo atteggiamento nella sua stessa autobiografia: raccontando gli anni intensi trascorsi all'Università di Berlino, mentre riconosce il suo relativo disinteresse per le controversie tra probabilisti ed energetisti, le cui posizioni venivano rappresentate da L. Boltzmann e W. Ostwald, Planck nota che la sua attenzione era invece richiamata dalle misure di Otto Lummer e Ernst Pringsheim sulla radiazione termica, che provavano il carattere in qualche modo "assoluto" della distribuzione spettrale dell'energia, indipendente cioè dalla natura dei corpi.
La propensione per leggi generali assolute è confermata, tra l'altro, dal suo iniziale interesse per la termodinamica - «il suo primo amore», come dice Thomas Kuhn (1978) -, giustificato proprio dal fatto di trovarsi di fronte a leggi dotate della massima generalità possibile: con il primo principio della termodinamica, per la prima volta si era trovato a che fare con una legge «che possedesse un'assoluta validità, indipendentemente dall'uomo». Decisiva in proposito era stata l'influenza esercitata su di lui dall'opera di Rudolf Julius Emanuel Clausius (1822-1888), che aveva determinato la scelta del tema per la tesi di dottorato: Planck arrivò ad esprimere la formulazione di Clausius del secondo principio della termodinamica in termini di aumento di entropia, forma che riteneva «concettualmente più chiara, più generale e più fondamentale».
Il suo approccio "alla ricerca dei fondamenti" si rivela scientificamente vantaggioso: infatti, la prima mossa vincente per la risoluzione del problema del corpo nero gli viene suggerita proprio dalla termodinamica. In un primo tempo, sull'onda del recente successo della teoria elettromagnetica, Planck pensa di modellizzare il corpo nero come un sistema di risuonatori hertziani che scambiano tra loro energia sotto forma di onde elettromagnetiche stabilendo nella cavità una radiazione stazionaria. Il tentativo di spiegare il fenomeno in base alla teoria elettromagnetica è però senza successo e il giovane fisico si rivolge alla termodinamica, pensando di porre in relazione non la temperatura ma l'entropia dell'oscillatore con la sua energia. In tal modo arriva (siamo nell'ottobre del 1900) alla formula che riproduce perfettamente i dati sperimentali, correggendo la legge di Wien, che ai più raffinati controlli sperimentali si stava rivelando inesatta.
In un discorso del 1894, poco prima di iniziare ad occuparsi del problema del corpo nero, Planck motiva la sua adozione della termodinamica quale forma fondamentale della fisica non come fine a se stessa, ma come una scelta strategica «alla ricerca della meta fondamentale, irraggiungibile, che consiste nella presentazione di tutte le forze della natura in un unico collegamento». Più tardi, nel 1908, sarà ancor più estremista dichiarando che «la scienza della natura, fin dai suoi primordi, ha sempre avuto come ultimo e massimo scopo quello di riuscire a compendiare la estremamente varia molteplicità dei fenomeni fisici in un sistema unitario, possibilmente in un'unica formula».
La ricerca di un fondamento unitario della fisica è quindi il fil rouge che percorre tutta l'esperienza scientifica di Planck e ne spiega le scelte principali. Si tratta in fondo di una posizione ricorrente nella storia delle scienze, anche se ha trovato nei diversi protagonisti manifestazioni e flessioni differenti. Recentemente riemerge nelle ricerche di astrofisica teorica e di cosmologia, nella versione della TOE (Theory of Everything , o Teoria del tutto). C'è tuttavia una notevole differenza tra i sostenitori dell'odierna TOE (fra i quali S. Hawking e S. Weinberg) e la concezione planckiana: nei primi domina una non celata presunzione e una convinzione che la razionalità scientifica possa arrivare a possedere "la chiave dell'universo"; presunzione che spesso si traduce nell'imposizione dei propri schemi teorici alla realtà, quasi a voler dettare alla natura quali comportamenti debba adottare invece che decifrarne pazientemente l'intrinseco dinamismo. Ben diversa la posizione di Planck, per il quale è la realtà a imporsi e la visione unitaria deriva da un'esigenza di ricerca di verità, da un desiderio di sapere come è la realtà, da un'immagine del mondo che precede lo sforzo razionalizzante dello scienziato e ne guida i passi nell'esplorazione del reale. A conferma del valore dello sforzo di Planck resta il fatto che, ancora oggi, la termodinamica è il principale terreno comune tra fisica, chimica, biologia, ecologia e cosmologia; e, simbolicamente, proprio la costante h che porta il suo nome è il cardine oggettivo (lui direbbe assoluto) sul quale tutte queste discipline sono imperniate.
A partire da questa preoccupazione per la verità della natura, si comprende come Planck non potesse accontentarsi di soluzioni formali, solo apparentemente valide; non gli bastava la corretta deduzione logica delle leggi e neppure la corrispondenza tra le equazioni e i riscontri sperimentali: gli interessava il "significato fisico" di leggi, equazioni e parametri. Tale propensione si manifesta fin dagli inizi delle sua carriera scientifica, al momento della tesi di laurea dedicata all'entropia; ma risalta con evidenza impressionante nel resoconto della seconda parte del lavoro sul corpo nero, culminata nella "rivoluzionaria" ipotesi del quanto d'azione: «La formula della radiazione, quand'anche dovesse risultare assolutamente esatta, avrebbe però un valore ben limitato, se essa non fosse altro che una formula di interpolazione felicemente indovinata. Perciò fin dal giorno della sua enunciazione io mi proposi di darle un vero significato fisico, e questo problema mi portò di per sé a considerare la relazione fra entropia e probabilità, seguendo così le idee di Boltzmann; finché dopo alcune settimane di lavoro, le più intense della mia vita, le tenebre si squarciarono ed una luce insospettata cominciò ad apparire in lontananza» (La conoscenza del mondo fisico, p. 101). A rendere possibile questo risultato non è solo il "duro lavoro" delle ultime settimane, ma una lenta preparazione il cui passaggio più significativo è la "conversione" di Planck alla visione probabilistica di Ludwig Boltzmann (1844-1906), avvenuta ben due anni prima, come ha puntualmente ricostruito Kuhn (1978).
IV. In nome del realismo
È impossibile comprendere a fondo l'itinerario scientifico di Planck senza parlare della sua visione del mondo e viceversa. Lo conferma esplicitamente lui stesso, ripensando alla ragione principale che l'aveva spinto verso la fisica pur essendo stato affascinato dalle lezioni di matematica di un certo professor Bauer: era il profondo interesse per "le questioni di Weltanschauung", che non era possibile risolvere in termini puramente matematici.
Preoccupato di costruire la conoscenza scientifica su basi solide, individua nella fragilità delle fondamenta il punto più "pericolosamente debole" dell'edificio della scienza. Una delle principali responsabili di tale debolezza è l'idea che si possa fare scienza a prescindere da qualsiasi presupposto di tipo meta-scientifico: «Nessuna affermazione - egli sostiene - ha dato luogo a maggiori equivoci e confusioni fra gli studiosi della frase "scienza senza presupposti" . Essa fu coniata originariamente da Theodor Mommsen, e stava a significare che l'analisi scientifica e la ricerca debbono liberarsi da ogni idea preconcetta. Ma non avrebbe voluto, né voleva dire che la ricerca scientifica non richiede alcun presupposto. Il pensiero scientifico deve legarsi a qualcosa, e il problema importante è dove» (La conoscenza del mondo fisico , p. 355).
La soluzione del problema ci conduce alla radice fortemente realistica del pensiero di Planck, per il quale il presupposto fondamentale della ricerca scientifica è l'esistenza di una realtà esterna indipendente da noi. È un presupposto, per definizione, non dimostrabile scientificamente e appartiene più alla sfera delle grandi intuizioni e delle evidenze primarie dell'uomo. Riprendendo quanto già detto a proposito della polemica con Mach, Planck afferma la validità del suo approccio realistico non come frutto di una posizione fideistica bensì come evidenza forte della ragione, prendendo le distanze da una concezione razionalistica e riduttiva di ragione: «Non tutto ciò che è esente da contraddizioni logiche è ragionevole. E la ragione ci dice che quando voltiamo le spalle ad un oggetto e ce ne allontaniamo, dell'oggetto rimane pur qualche cosa». È una convinzione che nulla può scuotere e che l'esperienza del lavoro scientifico riconferma e consolida. Così, di fronte alle prime obiezioni circa la realtà del mondo atomico e subatomico, egli ne rivendica la realtà: «a queste obiezioni io oppongo la recisa affermazione (ed in questo so di non essere solo) che gli atomi, anche se noi non sappiamo nulla sulla loro intima natura, sono reali né più né meno che i corpi celesti e gli oggetti terrestri che ci circondano».
Parallelamente, e conseguentemente, a questa incrollabile certezza c'è la convinzione che, al di sopra dei fenomeni reali, esistono leggi assolute e che la scienza possa arrivare a decifrarle. Le costanti naturali, ad esempio, (tra le quali campeggia h) nella visione planckiana non sono arbitrarie convenzioni poste dall'uomo per semplificare la sua descrizione della natura ma hanno un carattere reale ed universale, riconoscibile anche ... dai marziani: «quelle costanti sono tali che anche gli abitanti di Marte e in generale tutte le intelligenze presenti nella nostra natura dovranno ad un dato momento aver a che fare con loro, se già non vi hanno avuto a che fare».
L'opposizione del pensiero di Planck rispetto ai cardini del positivismo è dunque netta. Planck riconosce un nucleo di validità all'impostazione positivista nell'importanza attribuita alla sfera dell'esperienza sensibile, all'osservazione diretta dei fenomeni; tuttavia, là dove la realtà fenomenica si presenta in contraddizione con il senso comune (cioè in tutta la scienza moderna), il positivista è costretto a ricorrere alla teoria del "come se" (un bastone posto obliquamente nell'acqua si comporta "come se" i raggi luminosi subissero una deviazione nell'attraversare la superficie dell'acqua). Da un punto di vista puramente logico non si può obbiettare nulla a questa teoria del "come se"; però, spingendola alle estreme conseguenze, porterebbe all'impossibilità di una scienza universalmente valida. È necessario perciò ampliare il campo della conoscenza, liberando quest'ultima da ogni rischio di soggettivismo e ancorandola ad un fondamento suggeritoci non dalla logica formale ma dalla ragione e dal buon senso: l'ipotesi cioè che le nostre esperienze sensibili non costituiscano il mondo fisico, ma si limitino piuttosto a darci informazioni circa un mondo esterno indipendente da noi ma esistente e reale.
Sta in questa esigenza di realismo, di adeguamento delle nostre teorie alla realtà della natura, la differenza principale tra Planck e Boltzmann: quando Planck, «con qualche sacrificio» si è convertito al punto di vista statistico, lo ha fatto con la convinzione che «la natura preferisce uno stato più probabile ad uno meno probabile». Boltzmann però, osserva Planck, «ne ha tratto la conseguenza che in natura potrebbero effettivamente verificarsi dei processi decorrenti in senso contrario al secondo principio della termodinamica, ed ha riservato loro un posto nella sua immagine fisica del mondo. Ma su questo punto, secondo me, non lo si può seguire. Poiché una natura in cui avvenissero fenomeni quali la cessione di calore da un corpo più freddo ad uno più caldo o la spontanea separazione di due gas mescolati non sarebbe più la nostra natura». Anche Kuhn mette in risalto la differenza dei due approcci su un punto essenziale: mentre per Boltzmann la suddivisione del continuo di energia era un espediente matematico e la dimensione dell'elemento impiegato per introdurla non aveva molta importanza, per Planck quella suddivisione era una necessità fisica, descrivibile e quantificabile tramite le celebre relazione che legava l'energia alla frequenza, E = hv.
V. Un rivoluzionario riluttante
La visione realistica planckiana rischia di essere messa in sordina dal perpetuarsi di quella che Kuhn ha definito come una grave eresia storiografica: cioè il mancato riconoscimento del ritardo col quale Planck si arrende alla visione discontinuista.
Ancora nel 1906, a sei anni dalla pubblicazione della fondamentale memoria negli Annalen, la posizione di Planck era interamente in linea con quella classica: gli oscillatori nella cavità del «corpo nero» assorbivano ed emettevano energia con continuità secondo modalità regolate esattamente dalle equazioni di Maxwell e nei primi articoli sul quanto non c'era nulla che postulasse o implicasse la discontinuità. Rileggendo attentamente le Lezioni sulla teoria della radiazione termica (1905-1906), Kuhn arriva alla tesi che «il concetto di energia discreta del risuonatore [armonico] non giocò alcun ruolo nel suo pensiero fino a dopo che furono scritte le Lezioni». Tra le motivazioni di tale ritardo c'è sicuramente la convinzione di Planck che nel "quanto d'azione" h, e non nelle limitazioni sull'energia del risuonatore, stava la vera novità della sua teoria: era h che per anni aveva turbato i suoi pensieri ed era sempre h che causava «una frattura con la fisica classica molto più radicale di quella che avevo inizialmente sognato». Ancora nel 1908, in una lettera a Wien, H.A. Lorentz scrive che «secondo la teoria di Planck i risuonatori ricevono o cedono energia all'etere in un modo del tutto continuo» e lo stesso Planck riconosce pubblicamente la necessità della discontinuità solo dopo il 1909 e definitivamente all'inizio del 1910; anche se, in quello stesso anno scriverà: «L'introduzione del quanto di azione h nella teoria dovrà avvenire nel modo più cauto possibile, nel senso che si dovranno apportare soltanto le modifiche che si saranno dimostrate assolutamente necessarie» (cfr. Heilbron, 1988).
È significativa in proposito anche l'evoluzione della terminologia usata da Planck: fino al 1901 parla di «risuonatori» (che vibrano in sintonia con una causa precisa), poi di «oscillatori» (termine più generale); prima definisce hv come elemento d'azione, solo dopo il 1909 parla espressamente di «quanto». Un'ultima conferma della difficoltà di Planck ad accettare di rimettere in discussione le fondamenta della fisica è data da una lettera dove invita Walter Hermann Nernst a rinviare di un anno il Congresso Solvay, progettato per porre mano alla riforma dei fondamenti della fisica, ritenendolo prematuro.
Questi pochi cenni alla vicenda storica del primo decennio del XX secolo consentono di comprendere meglio il giudizio espresso da Lakatos e Musgrave (1984) che hanno definito Planck «il rivoluzionario più riluttante di tutti i tempi». In effetti la riluttanza deriva sia dal carattere conservatore dell'autore sia dal fatto che il suo punto di partenza era ben preciso e ancorato a una visione tradizionale, come osserva sempre Kuhn: «il suo più vasto obiettivo nel prendere in mano il problema del corpo nero era quello di riconciliare la seconda legge con la meccanica»; oppure: «si devono usare tutti i mezzi disponibili per sviluppare le conseguenze ultime del punto di vista meccanicista per tutti i settori della fisica, della chimica e così via».
Per anni, come ricorda Segré (1976), Planck ha cercato di trovare una spiegazione della sua scoperta che non fosse rivoluzionaria ma alla fine ha dovuto capitolare; più tardi, raccontando la sua resa al collega Wood, così si esprimeva: «Fu un atto di disperazione. Avevo già lottato per sei anni con il problema del corpo nero. Sapevo che il problema era fondamentale e ne conoscevo la legge; una spiegazione teorica doveva trovarsi a qualunque costo, salvo la inviolabilità delle due leggi della termodinamica»; e alla fine della sua vita commentava: «I miei vani tentativi di riconciliare in qualche modo il quanto elementare con la teoria classica continuarono per molti anni e mi costarono grandi sforzi. Molti dei miei colleghi videro in ciò quasi una tragedia, ma io la penso diversamente perché la profonda chiarificazione che ricevetti da questo lavoro fu di gran valore per me. Ora so di sicuro che il quanto d'azione ha una parte assai più significativa di quel che sospettassi originariamente».
Il fattore che lo ha guidato verso il pieno riconoscimento della nuova immagine del mondo fisico è stato ancora una volta il desiderio di trovare una teoria che fosse il più corrispondente possibile alla realtà. Nel saggio Origine e sviluppo della teoria dei quanti (1920), che descrive la storia della sua scoperta, dopo aver elencato le difficoltà sue e di buona parte della comunità scientifica ad accettare le conseguenze della quantizzazione, Planck indica perentoriamente il criterio oggettivo che ha fatto precipitare la situazione a favore dei quanti: «Ma i numeri decidono e la conseguenza è che ora le parti si sono gradatamente invertite. Mentre prima si trattava di inquadrare più o meno forzatamente un nuovo elemento estraneo in una cornice riconosciuta da tutti come stabile e definitiva, ora l'intruso, dopo essersi conquistato un posto sicuro, è passato all'offensiva, ed è ormai certo che finirà per spezzare in qualche maniera la vecchia cornice» (La conoscenza del mondo fisico , p. 112). È la realtà quindi che prevale. E questo è il pensiero di fondo col quale Planck affronta i nodi filosofici venuti a galla con l'imporsi della fisica quantistica.
Il tema della causalità viene da lui più volte trattato e sempre viene ricondotto a questo assunto di base: la causalità è nella natura delle cose. Come pure non nasconde la sua tendenziale simpatia verso una visione deterministica della natura, ritenendo che una risposta determinata ad un problema abbia sempre maggior valore di una risposta indeterminata. È qui interessante cogliere come Planck non consideri la nuova visione della meccanica quantistica come un ripiego o una rinuncia al realismo e indichi una modalità per uscire dall'apparente impasse , che può risultare preziosa anche oggi. Egli individua la causa dell'impossibilità di dare una risposta determinata non nella natura della teoria, ma nell'impostazione del problema; ed è evidente che neppure la più perfetta teoria fisica può dare una risposta determinata ad un problema fisicamente male impostato: «Spesso l'indeterminismo è solamente il portato del modo con cui si imposta la questione. L'impostazione del problema è tolta dalla meccanica corpuscolare, nella quale effettivamente lo stato iniziale fissa univocamente il processo per tutti i tempi; ma essa non quadra nella meccanica ondulatoria, non foss'altro perché essa è gravata da una fondamentale imprecisione, di importo finito, per via delle relazioni di indeterminazione».
Planck cerca pertanto di trovare in tutti i modi una via che riconduca a qualche tipo di determinismo e la individua nei princìpi variazionali, nel principio di minima azione, che aveva sempre attratto i fisici sensibili a una prospettiva finalistica. In un intervento del 1938 proprio sul tema Determinismo o indeterminismo? ribadisce l'importanza delle ipotesi di partenza nel decidere la determinazione o meno del fenomeno: «Così ogni avvenimento, nel mondo materiale o spirituale, non è mai semplicemente determinato o indeterminato; o, più precisamente, lo è o non lo è a seconda delle ipotesi che vengono fatte per rispondere alla domanda. Queste ipotesi debbono essere date fin dall'inizio, altrimenti la domanda se si tratti di determinismo o indeterminismo non ha alcun senso. D'ora in avanti possiamo, data questa premessa, fare l'una o l'altra ipotesi. Quindi non si può mai escludere che, con un opportuno cambiamento nella scelta delle ipotesi, si possa passare da un avvenimento determinato a uno indeterminato, o viceversa»; e conclude affermando che il compito principale della scienza è di «introdurre quelle ipotesi che determinano completamente l'avvenimento» (La conoscenza del mondo fisico, pp. 339-341).
VI. Fisica e Metafisica
Il problema di un fondamento solido cui legare il pensiero scientifico viene risolto da Planck con un convinto rinvio alla dimensione metafisica, che è inevitabile riconoscere se si vuole procedere razionalmente e che rivela un livello della realtà altrettanto reale come quello fenomenico. Nel pensiero di Planck sono però compresenti due livelli della realtà separati da un abisso invalicabile dalla scienza; un abisso che è sorgente di una tensione costante, fonte inesauribile dell'insaziabile sete di conoscenza del vero scienziato che, come uomo, non può rinunciare a compiere quell'ultimo passo che la porterebbe nel regno della metafisica. Ciò che sospinge avanti la ricerca scientifica è per Planck proprio questa tensione all'assoluto metafisico, che sorge continuamente dalla realtà fisica e che è il presupposto indispensabile per poter attribuire un senso all'attività dello scienzato. Del resto, segnala Planck nel suo saggio L'unità dell'immagine fisica del mondo (1908), questa tensione è rintracciabile in tutti i grandi della scienza moderna i quali - egli osserva nelle vesti di storico della scienza - erano mossi dalla «loro fede nella realtà della propria immagine del mondo, fondata che fosse su basi intellettuali o religiose».
La scienza deve essere consapevole del suo orizzonte parziale e limitato, in grado di farle cogliere solo frammenti di realtà. Ma nello stesso tempo è la stessa realtà che invita continuamente ad un superamento, ad un allargamento di quell'orizzonte verso il mondo reale della metafisica che «non è il punto di partenza, ma lo scopo di tutte le ricerche scientifiche, un faro che brilla e indica la via da una distanza inaccessibile». La valorizzazione della metafisica in Planck va di pari passo con la chiara distinzione di campi: sono frequenti nei suoi scritti frasi di questo tipo: «Siamo qui giunti a un punto in cui la scienza si dichiara incompetente ed accenna a regioni che si sottraggono al suo studio».
Alcuni studiosi hanno fatto notare come filosofia e scienza in Planck si siano supportate a vicenda: l'interazione non è stata soltanto nella direzione dalla prima verso la seconda ma anche viceversa. Anzi, forse questo secondo aspetto ha avuto un ruolo maggiore di quanto si pensi. Probabilmente la sua adesione al neo-kantismo, diffuso in Germania a fine Ottocento, non era così solida e la sua costruzione filosofica non era così rigorosa come il suo pensiero scientifico: tuttavia è proprio la sua grande creatività e genialità scientifica a sorreggere e a irrobustire quella visione unitaria e realistica del mondo. Lo si nota un po' ovunque ma risalta particolarmente nel citato saggio Determinismo o Indeterminismo? dove, considerando il fatto che con la meccanica quantistica i problemi «diventano sempre più sottili», egli osserva che l'uomo ha uno strumento di indagine formidabile: il pensiero, che è «più sottile degli atomi e degli elettroni» e che, una volta eccitato da uno stimolo esterno, può lanciarsi «fino a regioni che stanno molto al di là di tutti gli avvenimenti naturali». Il discorso potrebbe portare ad una conclusione di stampo idealistico, dove è la nostra immaginazione a dettare i comportamenti alla natura e la fantasia della natura (o, se preferiamo, il volere di Dio) sembrerebbe inferiore alla nostra. Ma poi subentra il grande scienziato, che è più grande del filosofo, e ritorna il realismo: «Né deve essere mai dimenticato che ogni esperienza concettuale senza eccezioni possiede soltanto un valore euristico, che il suo significato in ultima analisi consiste soltanto nel formulare delle domande sensate alla natura, e che la sua validità finale si può ottenere sempre e soltanto con un esame dei risultati ottenuti attraverso misure. Pertanto il potere di immaginazione del teorico, se il suo volo non deve avere la sventurata fine di quello di Icaro, ha bisogno di una profonda cultura e di un immediato orientamento sia dal lato delle possibilità matematiche sia di quelle sperimentali» (La conoscenza del mondo fisico , p. 352).
Si può dire in generale che, se un'esperienza scientifica è di grande rilievo, il suo valore si impone, il suo valore specifico supera ogni riflessione filosofica. Ogni disciplina ha quindi il suo ruolo precipuo da giocare e questa è anche la condizione per un efficace dialogo.
VII. La profonda sintonia con il religioso
Considerazioni analoghe si possono fare per quanto riguarda il rapporto tra scienza e fede: «La scienza conduce dunque ad un punto oltre il quale non ci può guidare. Ma appunto perché essa ci indica questo limite e lo riconosce, può a buon diritto pretendere che le venga riconosciuta la preminenza in quei campi in cui essa sola è signora. Scienza e religione non sono in contrasto ma hanno bisogno una dell'altra per completarsi nella mente di ogni uomo che seriamente rifletta».
È questa anche la conclusione delle conferenza Religione e scienza del 1938, che si proponeva di rispondere all'interrogativo «se il progresso delle scienze ha veramente per conseguenza il tramonto della vera religione». Il testo della conferenza è esemplare per l'impianto e lo svolgimento rigoroso, quasi da teorema di geometria. Planck individua due questioni preliminari: Quali esigenze pone la religione alla fede dei suoi aderenti e quali sono i segni della vera religiosità? Di quale natura sono le leggi che la scienza ci insegna e quali verità sono per essa di valore intangibile? Alla prima risponde focalizzando il concetto di simbolo, essenziale in ogni religione, come segno più o meno imperfetto di un valore più alto inaccessibile direttamente ai sensi e pone l'accento sulla incrollabilità di una autentica fede, in grado di resistere ad ogni difficoltà o pericolo. Per quanto riguarda la scienza, riprende i temi a lui più cari: la necessità di presupposti metafisici per la conoscenza scientifica, il realismo, la causalità nelle leggi di natura che non esclude il finalismo, secondo quanto suggerisce il principio di minima azione. Non senza lesinare critiche al nemico di sempre, il positivismo, del quale mette in luce un aspetto rilevante sul piano dell'esperienza personale del ricercatore: lo svuotamento di prospettive metafisiche paralizza la ricerca, la priva della forza motrice per procedere in modo fruttuoso e creativo, tiene lo scienziato con "lo sguardo rivolto all'indietro".
Il riferimento all'esperienza concreta domina la parte conclusiva del discorso, che volutamente traduce l'interrogativo teorico «fino a che punto un sincero sentimento religioso è compatibile con le conoscenze forniteci dalla scienza» in termini personali «se uno scienziato erudito può essere insieme anche sinceramente religioso». Il capitolo finale della conferenza assume quindi più il tono della riflessione autobiografica che il rigore dimostrativo delle pagine precedenti; in alcuni punti rivela anche una visione riduttiva del cristianesimo, del quale evidenzia unicamente la funzione di guida morale, arrivando a sostenere che «la scienza lavora prevalentemente con la ragione, la religione prevalentemente col sentimento». In questo l'autore appare certamente più influenzato dalla filosofia kantiana che non dal tomismo o dalla teologia cattolica; ed anche la sua visione dell'esperienza religiosa si rivela condizionata dal particolare clima rigido e intransigente tipico di alcune confessioni protestanti.
Si è molto discusso sulla effettiva religiosità di Planck e sulla sua appartenenza ad una particolare religione; discendente da una famiglia di pastori luterani e di giuristi, fu sempre legato alla chiesa luterana ma non come praticante particolarmente attivo. Da studente aveva ricevuto anche un premio per la religione e la condotta; in una lettera del 1944 al fisico tedesco Max von Laue (1879-1960) egli fa riferimento all'abitudine di recitare una preghiera prima dei pasti. La lettera del 1947 indirizzata a W.H. Kick e citata all'inizio farebbe pensare più ad una religiosità di tipo spinoziano; anche se è stato notato come alcune sue affermazioni, specie legate ai tragici fatti degli ultimi anni, e tutta la sua visione di un cosmo razionale e così finemente accordato sulle costanti fondamentali (come la sua h ) erano molto più consone alla concezione tipica della tradizione cristiana (cfr. Jaki, 1988, p. 259). A ingenerare una certa confusione interviene anche il fatto che nei suoi scritti Planck usa frequentemente il termine fede secondo accezioni molto vaste e, in genere, per indicare quell'atteggiamento e quella predisposizione metafisica di partenza necessaria per affrontare l'avventura scientifica: «Chi ha veramente collaborato a costruire una scienza sa per propria esperienza interiore che sulla soglia della scienza sta una guida apparentemente invisibile ma indispensabile: la fede che guarda innanzi». Di tale atteggiamento egli non smette di esaltare la fecondità anche sul puro piano della ricerca, dove la fede, così intesa, aiuta a far fruttare il materiale raccolto e fa intuire nessi e previsioni che indirizzano la ricerca: "indica la via ed acuisce i sensi".
Tuttavia, nel saggio Scienza e fede (1930), è lui stesso a proporre una correzione terminologica che meglio esprime il suo pensiero: «Le fondamenta di ogni scienza sono formate dal materiale che l'esperienza fornisce, è vero, ma è altrettanto vero che il materiale da solo non basta, come non basta la sua elaborazione logica. [...] bisogna completarlo e perfezionarlo riempiendo le lacune e ciò non si può fare che per mezzo di associazioni di idee che non nascono dall'attività intellettiva ma dalla fantasia dello scienziato, sia che si vogliano definire col nome di fede o colla più prudente espressione di ipotesi di lavoro. L'essenziale è che il loro contenuto superi in qualche maniera i dati dell'esperienza» (La conoscenza del mondo fisico , p. 261).
Il suo carattere austero e conservatore non gli impedì di essere lucidamente consapevole della grandezza della sua scoperta; tanto da confidare al figlio di aver fatto una scoperta degna di Newton. Peraltro, quando arriva ad ammettere la rivoluzionarietà dei quanti, non manca di sottolineare che tale riconoscimento si è affermato grazie «al controllo della legge di distribuzione dell'energia della radiazione termica e tanto meno alla speciale deduzione che di questa legge io diedi, bensì ai lavori di quegli scienziati che si servirono del quanto di azione per le loro ricerche»; quindi i vari Einstein, Nernst, Bohr, Sommerfeld.
Un altro aspetto singolare della sua esperienza di uomo e scienziato è il fatto che, pur essendo vissuto a lungo ed avendo sempre lavorato sodo, abbia avuto pochi allievi e non abbia fondato una vera e propria scuola: non più di una ventina di persone hanno svolto la tesi sotto la sua guida o si possono considerare suoi scolari personali; tutti però sono diventati fisici di alto livello (come Zermelo, von Laue, Bothe, Abraham, Meissner, Schottky), a conferma forse della sua impostazione preoccupata dei fondamenti e di ciò che è assoluto. A completamento necessario per delineare la personalità di Planck e la sua indubbia statura umana, bisogna richiamare infine la grande vastità degli interessi (la musica in primo luogo), la ferma convinzione che «la scienza non è tutto, anzi neppure la cosa più importante», l'insopprimibile ricerca dei valori morali sui quali indirizzare l'azione, un inflessibile senso del dovere.
Come sintesi dell'uomo e dello scienziato Planck, si può infine citare il passo conclusivo del saggio Significato e limiti della scienza (1941 e 1947): «Ma perché tutta questa enorme fatica, che richiede gli sforzi di innumerevoli militi della scienza durante tutta la loro vita? Il risultato ultimo [...] è così meritevole di uno sforzo rilevante? Queste domande sarebbero giustificate se il significato della scienza fosse limitato alla soddisfazione di un certo istintivo desiderio di conoscere dell'uomo. Ma il suo significato va assai più a fondo. Le radici della scienza esatta si alimentano nel suolo della vita umana. [...] E colui al quale la buona fortuna ha permesso di cooperare all'erezione dell'edificio della scienza esatta, troverà la sua soddisfazione e intima felicità, con il nostro grande poeta Goethe, nella coscienza di aver esplorato l'esplorabile e di aver venerato silenziosamente l'inesplorabile» (La conoscenza del mondo fisico , pp. 372 e 376).
Principali opere scientifiche di Max Planck: Vorlesungen über Thermodynamik , Leipzig 1897; Über das Gesetz der Energieverteilung im Normalspektrum, "Annalen der Physik" 4 (1901), pp. 553-563; Vorlesungen über die Theorie der Wärmestrahlung, Barth, Leipzig 1906; Über die Bergründung das Gesetzes der schwarzen Strahlung, "Annalen der Physik" 37 (1912), pp. 642-656; Einführung in die Allgemeine Mechanik. Zum Gebrauch bei Vortragen, sowie zum Selbstunterricht, S. Hirzel, Leipzig 1921; Physikalische Gesetzlichkeit, Barth, Leipzig 1926; Der Kausalbegriff in der Physik, Barth, Leipzig 1932; Physicalishe Abhandlungen und Voträge, 3 voll., Braunschweig, Vieweg 1958. Per la bibliografia: H. LOWOOD (a cura di), Max Planck: A Bibliography of his Non-Technical Writings , Office for History of Science and Technology, Univ. of California, Berkeley 1977. Opere e saggi in lingua italiana: Autobiografia scientifica , Einaudi, Torino 1956; Scienza, filosofia e religione, con intr. di A. Einstein, Fabbri Editori, Milano 1973 (il volume contiene, fra gli altri, il saggioReligione e scienza , 1938). La conoscenza del mondo fisico, Bollati-Boringhieri, Torino 1993: il volume contiene anche l' Autobiografia scientifica (1948) e vari saggi fra cui L'unità dell'immagine fisica del mondo(1908), Caratteri generali delle leggi fisiche (1926), Scienza e fede (1930), La causalità nella natura (1932). La teoria della radiazione termica: dalla fisica classica alla fisica quantistica (1906) , F. Angeli, Milano 1999.
Altre opere: K. PRZIBRAM, Schrödinger, Planck, Einstein, Lorentz. Briefe zur Wellenmechanik , Springer, Wien 1963; H. KRETZSCHMAR, Max Planck als Philosoph , E. Reinhardt, München-Basel 1967; H. KANGRO,Planck, Max Karl E. Ludwig , in DSB, vol. XI, 1980, pp. 7-17; H. KANGRO, Early History of Planck's Radiation Law , Taylor & Francis, London 1976; E. SEGRÉ , Personaggi e scoperte della fisica contemporanea,Mondadori, Milano 1976; T. KUHN, Alle origini della fisica contemporanea. La teoria del corpo nero e la discontinuità quantica, Il Mulino, Bologna 1978; J. MEHRA, The quantum theory of Planck, Einstein, Bohr and Sommerfeld. Its foundation and the rise of its difficulties 1900-1925 , Springer, New York - Heidelberg 1982; I. LAKATOS, A. MUSGRAVE, Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1984; M. HEILBRON, I dilemmi di Max Planck, Bollati-Boringhieri, Torino 1988; S. JAKI, La strada della scienza e le vie verso Dio, Jaca Book, Milano 1988; L. D e DE BROGLIE, E. SCHRÖDINGER, W. HEISENBERG, Onde e particelle in armonia. Alle sorgenti della meccanica quantistica, a cura di Sigfrido Boffi, Jaca Book, Milano 1991; J. AGASSI, Radiation Theory and the Quantum Revolution , Birkhäuser Verlag, Basel-Boston-Berlin 1993.