Conosci te stesso. La massima incisa sul tempio di Apollo a Delfi, assunta da Socrate come guida verso una conoscenza più profonda di sé, ha dischiuso alla filosofia occidentale il mondo dell’interiorità dell’uomo. La sapienza religiosa, non solo in Grecia ma ancor prima in Oriente e nella tradizione ebraica, aveva già espresso la consapevolezza che è dentro di sé che l’uomo entra in contatto con la verità e il bene che illuminano la sua esistenza. Sarà questo il cammino prediletto di sant’Agostino: Noli foras ire, in teipsum redi; in interiore homine habitat veritas («Non uscire fuori, ritorna in te; nell’interiorità dell’uomo abita la verità», Agostino, De vera religione, 39,72). Ma in fondo è esperienza di ognuno di noi scoprirsi capace di riflessione su di sé, di dialogo interiore con se stesso, oltre che di proiezione verso l’esterno nell’atto di conoscere le cose e le persone, di esprimersi e di agire nel mondo. Ti sarà capitato molte volte di sorprenderti a parlare con te stesso, di cercare di capire i tuoi sentimenti, di arrivare a prendere una decisione soppesando i motivi che ti spingono in una direzione o nell’altra.
È questo spazio di interiorità, di consapevolezza di sé, che pone l’uomo in una posizione in qualche modo singolare nel mondo, come unica creatura che è cosciente di se stessa, di chi è e di ciò che fa. E proprio per questo dotata di una altrettanto singolare libertà, che è possesso di sé e dell’origine delle proprie decisioni. L’uomo non agisce semplicemente mosso dall’istinto o in base alle esperienze acquisite, come gli animali. Noi possiamo riflettere sui motivi e sugli scopi delle nostre azioni e decidere in modo consapevole e, in tal modo, responsabile. Le neuroscienze e le scienze cognitive si interrogano sul fenomeno dell’autocoscienza dell’uomo e offrono elementi utili per una sua comprensione; integrandoli in una riflessione antropologica e filosofica, non si può che rimanere meravigliati di fronte al “miracolo dell’uomo”: di un essere materiale che sembra trascendere le possibilità della materia. Non a caso l’autocoscienza è da sempre considerata uno dei caratteri che indicano più chiaramente la presenza di una dimensione spirituale nell’essere umano, irriducibile ai soli dinamismi materiali.
Consapevolezza di me stesso significa, immediatamente, consapevolezza che, al di là di tutti i motivi e i condizionamenti che sperimento dentro di me, sono “io” e non altro la causa ultima delle mie azioni e dei loro effetti sul mondo, sulle altre persone…e su me stesso! Questa consapevolezza è inseparabile dalla coscienza che posso scegliere tra il bene e il male, fra qualcosa che giova a me e agli altri e qualcosa che invece danneggia. L’essere umano è alla ricerca costante del senso globale del proprio essere, del proprio vivere e morire. Le questioni morali sembrano nascere spontaneamente dalla sua natura come questioni vitali che la nostra coscienza avverte a priori rispetto a qualunque contesto culturale o presa di posizione filosofica.
È comprensibile che la responsabilità di ciò che fa, l’essere umano la senta in primo luogo di fronte agli altri. La cosa notevole, invece, è che anche quando è solo con se stesso, egli avverta interiormente il giudizio, positivo o negativo, su di sé. In coscienza, non posso farlo… Mi sento in colpa…Sono espressioni in cui si manifesta che ciò con cui ognuno di noi si confronta nel modo più esigente, sta dentro di noi, non fuori. Avrai fatto anche tu l’esperienza di quanto sia difficile sollevare una persona dal senso di colpa o quanto ti sia risultato difficile lasciarti aiutare a superare un tuo senso di colpa per qualcosa di cui non vai fiero e che ti addolora profondamente. A ben pensarci, è proprio nella capacità di auto-giudicarsi, nella sincerità con cui cerca la verità di se stesso, anche quando è scomoda, che l’essere umano rivela la sua autentica statura. Egli si rivela in qualche modo “più grande di sé”, capace cioè di auto-trascendersi, di auto-superarsi in direzione della verità e del bene. L’uomo supera infinitamente l’uomo, diceva Blaise Pascal. L’esistenza nell’uomo della capacità di giudizio su di sé, di consapevolezza di carattere morale, è così significativa che il termine “coscienza” possiede abitualmente due significati distinti ma strettamente correlati: coscienza di sé (autocoscienza, semplicemente: in inglese consciousness) e coscienza morale (in inglese conscience), ossia capacità di riconoscere il bene e il male nelle proprie scelte. Concentriamoci ora su questo secondo significato.
La coscienza fa provare emozioni. I suoi giudizi non sono semplici constatazioni di fatto, prive di risonanza emotiva. Suscitano invece in noi sentimenti di dispiacere, colpa, vergogna, oppure di soddisfazione, gioia, fino anche a un senso sacro di timore e riverenza. Sono emozioni e affetti diversi da quelli che proviamo di fronte a delle cose. Sono emozioni che proviamo solo di fronte a una persona. Come ha notato acutamente John Henry Newman, «nessuno prova affetto per un sasso o si vergogna dinanzi ad un cavallo o ad un cane; nessuno prova rimorso o avvilimento per avere infranto una legge puramente umana; pure la coscienza ci ispira tutti questi sentimenti dolorosi – smarrimento, allarme, autocondanna – come d’altra parte ci largisce una pace profonda, una sicurezza, una rassegnazione, una fiducia, che nessuna causa sensibile, terrena, è in grado di produrre» (J.H. Newman, Grammatica dell’assenso, Milano 1980, p. 67). La coscienza, insomma, con la sua voce sembra metterci di fronte a una Alterità personale che ci parla, a Qualcuno dal quale ci sentiamo conosciuti, capace di giudicare anche i nostri più intimi pensieri e sentimenti. Si tratta di una presenza che ognuno avverte dentro di sé, nel suo luogo più intimo, che appartiene solo al soggetto. La sua voce, che risuona nella nostra coscienza, è tanto intima e profonda, quanto delicata, non invadente, sembra quasi un sussurro. È necessario silenzio interiore perché essa affiori e non venga sopraffatta dalle altre voci che parlano o gridano in noi: sentimenti, passioni, forza dell’abitudine, opinioni e giudizi altrui, dipendenze e condizionamenti radicati nel nostro cuore. Eppure, quando la percepiamo, sentiamo che è la voce giusta, vera, buona, a cui dovremmo prestare ascolto.
Nella concezione orientale, specie in alcune correnti dell’induismo, il sé della persona (atman) coincide con il Sé universale (Brahman). L’uomo deve raggiungere tale consapevolezza attraverso l’ascesi, in cui progressivamente si spoglia dell’illusione della propria individualità, della distinzione tra se stesso e il tutto. La visione cristiana, invece, fondata sull’affermazione della creazione del mondo e dell’uomo da parte di Dio, mantiene una radicale distinzione tra la coscienza dell’uomo e Dio, tra l’io umano e il Tu divino che sta di fronte e al di sopra di lui. Perciò la coscienza, con felice espressione di Newman, non è propriamente la voce di Dio, ma è il luogo più intimo in cui l’eco della voce di Dio risuona nell’uomo. L’uomo così può essere al tempo stesso raggiunto dalla voce di Dio e rimanere essenzialmente libero di fronte ad essa. Ciò definisce la grandezza e la dignità della persona umana, la sua vocazione ad essere, prima che di fronte agli altri e, in un certo senso, prima ancora che di fronte a Dio, onesto e responsabile di fronte a se stesso.
Ma se le cose stanno così, questo sussurro e questa eco non sono forse uno dei beni più preziosi che abbiamo? Non vale forse la pena chiudere le altre porte al rumore, alla distrazione e al traffico, per ascoltare ciò che questa voce ha da dirci? Proviamo ad ascoltare il silenzio…