Agostino di Ippona, De civitate Dei, in Opera Omnia, vol. V in tre parti, Nuova Biblioteca Agostiniana, intr. di A. Trapé, tr. it. e note di D. Gentili, Città Nuova, Roma 1978-1991.
Per le citazioni del testo italiano si segue la medesima tr. it nella edizione minor, a cura di D. Gentili, Città Nuova, Roma 2000.
I ventidue libri de La città di Dio costituiscono uno degli indiscussi capolavori di Agostino di Ippona (354-430) e di tutta la letteratura cristiana antica. Iniziata nel 413 e conclusa attorno al 427, l’opera deve la sua origine all’inedita e grave situazione venutasi a creare per tutto l’Occidente quando, con il sacco di Roma, i Visigoti guidati da Alarico posero fine nel 410 all’egemonia di un impero che era giunto ad essere il più forte ed esteso del mondo conosciuto. Le motivazioni remote del capolavoro agostiniano sono, tuttavia, più profonde e generali. Se la caduta di Roma ne fu l’occasione prossima, l’insieme degli interrogativi religiosi, filosofici e politici, che tale evento innescava, tanto per i pagani quanto per i cristiani, ne costituivano invece lo stimolo più intimo, tale da indurre il vescovo di Ippona a consegnarci il primo esempio di una “teologia della storia”. Il progetto apologetico de La città di Dio è in fondo quello di giustificare il cristianesimo di fronte alle vicende della storia, la storia che è sotto gli occhi di tutti e che gli uomini costruiscono con le loro azioni libere.
Se fino a questo momento la patristica aveva visto in Dio soprattutto la causa e l’origine della storia che giungeva al suo compimento in Cristo, La città di Dio agostiniana pone in luce come Dio sia anche, in certo modo, “responsabile” della storia degli uomini, non solo perché della storia Egli possiede le chiavi ultime, ma anche perché da essa sa trarre frutti di bene anche quando viene segnata dagli errori umani. Ne risulterà dunque coinvolto il problema del male, che spinge Agostino a proporre una teologia della Provvidenza ed una sua visione della teodicea.
Analogamente a quanto fatto da altri Padri occidentali, anche Agostino sceglie come interlocutori i rappresentanti del pensiero classico latino, da Varrone a Cicerone, da Virgilio a Diogene Laerzio, da Ovidio a Plinio. Con essi sviluppa un dialogo, ideale nella forma ma reale nelle problematiche affrontate, avente per oggetto i temi della religione e dello Stato, della vita civile e dell’ordinamento della società. L’apologia agostiniana fa leva su argomenti di ragione, sia facendo ricorso al buon senso – non di rado accompagnato da sottile (talvolta aperta) ironia –, sia impiegando come grammatica del ragionamento l’impianto filosofico del platonismo. Anche se la sacra Scrittura risulta esplicitamente coinvolta solo in un limitato numero di libri dell’opera, lo sforzo profuso dall’Autore per mostrarne la coerenza interna, la corrispondenza con le aspirazioni umane e con l’autentico senso religioso, si traduce in frequenti trattazioni esegetiche, talvolta con sviluppi originali rispetto a quanto l’Ipponate espone in altri luoghi.
Gli interrogativi suscitati dal sacco di Roma e la critica al Dio dei cristiani
Sebbene l’invasione visigota giungesse come epilogo di un graduale, inesorabile indebolimento politico e militare di Roma dovuto alla pressione di popoli emergenti e meglio organizzati, lo sconvolgimento che essa causò, morale oltre che materiale, coinvolse tutti gli abitanti dell’Impero. Prima con Costantino e poi con Teodosio, Roma aveva sempre più legato la sua vita religiosa e istituzionale al nuovo credo portato da Gerusalemme, offrendo sempre maggiore spazio ai cristiani, fino ad accoglierli come forza spirituale caratterizzante. Un cambio di notevoli proporzioni, questo, se si pensa alla secolare associazione fra le glorie di Roma e il culto degli dèi entrati a far parte da lungo tempo del suo Pantheon. Per questo motivo, agli occhi di ampi strati dell’opinione pubblica pagana, la responsabilità della caduta di fortuna dell’Urbe andava attribuita proprio a tale cambiamento. L’abbandono del culto degli dèi tradizionali operata dalla fede in Gesù Cristo non aveva recato alcun vantaggio alla Città e all’Impero, né la vita dei cristiani pareva contenere potenzialità risolutive per la difesa e la conservazione dello status quo. Il cristianesimo era dunque, paradossalmente, di nuovo sul banco degli imputati. A questa accusa era necessario fornire una risposta. Nascevano però anche altri interrogativi, questa volta interni alla comunità credente: pur non identificandosi con Roma, il cristianesimo aveva ormai nell’Urbe un importante punto di riferimento, sia per la tradizione che vi avevano radicato gli Apostoli e i numerosi martiri, sia per le aspettative che erano state riposte nella conversione degli imperatori. Quest’ultima favorevole contingenza aveva per la prima volta fatto intravedere un futuro propizio alla diffusione e al consolidamento del Vangelo, come ormai mostravano, anche visivamente, le imponenti Basiliche costantiniane. Cosa voleva dire, per i cristiani, questa drammatica svolta?
Agostino è ben consapevole di questo stato di cose e della nuova giustificazione che il cristianesimo è portato a fornire sul piano sociale e religioso. La critica cui si deve adesso rispondere è introdotta esplicitamente nel libro I de La città di Dio. «Alcuni insultano la sua moralità [della comunità dei cristiani] e le dicono, quando eventualmente incorre in determinate sciagure temporali: “Dov’è il tuo Dio?” Dicano loro piuttosto dove sono i loro dèi quando subiscono tali sventure giacché li onorano e si affaticano a farli onorare proprio per evitarle. Essa può rispondere: “Il mio Dio è presente in ogni luogo, tutto in ogni luogo, non limitato nello spazio perché può esser presente senza rivelarsi, assente senza muoversi. Quando mi sprona con le avversità, o soppesa i meriti o punisce i peccati e mi riserva una ricompensa eterna in cambio dei mali temporali religiosamente sopportati”».[1] Il Dio dei cristiani è Signore della storia: tutto ciò che accade non sfugge alla sua Provvidenza. I suoi discepoli hanno appreso dalla croce di Gesù Cristo che anche il male è ricondotto entro il suo piano salvifico e appartiene al mistero del suo giudizio sulla storia. Qui giace il nucleo della risposta alle perplessità sorte all’interno del cristianesimo, che Agostino svilupperà poi lungo tutta la sua opera. È l’interrogativo sulla presenza del male nel mondo, che l’Ipponate affronterà su piani differenti. Non diversamente dagli altri, anche i cristiani sono abitanti della città degli uomini, ne condividono gioie e dolori e, pur rappresentando in essa il germe di una città futura, vivono integralmente la condizione di pellegrini verso la città di Dio. In questa condizione vi è spazio per la speranza ma si corre anche il rischio della disperazione, ci si apre al dono della grazia ma ci si può anche chiudere con il peccato di superbia. La situazione dell’uomo è come sospesa fra il bene e il male, sullo scenario di un mondo che fa continuamente appello alla nostra libertà.[2]
Il tema delle due città possiede in fondo una dimensione esteriore e una interiore. La loro differenza si misura sui diversi atteggiamenti con cui vengono costruite nella storia, lasciando traccia visibile nella bontà o nella malizia dei frutti che recano, ma si misura anche sulla diversa risposta che l’essere umano può dare, nel suo cuore, agli eventi storici con cui Dio lo interpella e lo chiama a santificarsi. L’uomo, dunque anche il cristiano, coglie con maggiore forza l’importanza della sua libertà e delle sue scelte, è invitato a riconoscere con serietà che la Provvidenza si manifesta non solo nella natura, ma può svelarsi anche nella storia. In tal senso, il confronto delle due città non è mai confronto fra la Chiesa e lo Stato, né semplice dialettica fra una società terrena organizzata pro o contro Dio, perché esse hanno in primo luogo una connotazione spirituale. Il confronto coinvolge sempre il cuore dell’uomo e solo da questo può essere definitivamente chiarito e illustrato. Se la domanda sulla caduta di Roma ha come risposta che a causarla è stata in prima istanza la debolezza morale dell’Impero – e su questo Agostino è esplicito – la vera domanda da porsi è come l’uomo reagisce di fronte agli eventi della storia e come in essa sa discernere la chiamata di Dio.
Chiarita questa valenza teologica ed interiore che deve guidare il confronto con gli eventi della storia, alle imputazioni rivolte al cristianesimo l’opera agostiniana risponde con una duplice strategia. In primo luogo, come sarà sviluppato soprattutto nei libri I-VI, va smascherata la falsità e l’immoralità degli dèi adorati dalla società romana e dalle sue istituzioni. Tali errori non potevano non ripercuotersi nella prassi morale dei cittadini ed è a ciò che va ascritto, congiuntamente al misterioso giudizio di Dio, la disfatta di Roma. In secondo luogo, va apertamente dichiarato che l’ideale di vita cristiana trasmesso e insegnato dal Vangelo di Gesù Cristo è invece capace di condurre alla formazione di cittadini, sudditi e governanti, le cui virtù sono le migliori possibili per il sostegno della società civile e dello Stato. Un concetto, questo, che Agostino riprende in una pagina parallela che vale la pena qui rileggere: «Coloro che affermano che la dottrina di Cristo è nemica dello Stato, ci diano un tale esercito, quale la dottrina di Cristo volle che fossero i soldati: ci diano tali provinciali, tali mariti, tali sposi, tali genitori, tali figli, tali padroni, tali servi, tali re, tali giudici, infine tali contribuenti ed esattori del fisco, quali prescrive che siano la dottrina cristiana, e poi osino chiamarla nemica dello Stato e non esitino piuttosto a confessare che, se essa fosse osservata, sarebbe la potente salvezza dello Stato».[3] La verità del cristianesimo viene così indicata da Agostino su una duplice base: ribadendo la sua convergenza con la ricerca sincera dell’unico e vero Dio, contro la falsità del politeismo e degli idoli, e proclamando la capacità che la sequela Christi ha di originare un autentico progresso, sociale e civile, cui l’uomo per natura aspira. Risulta così scalzata l’idea greco-romana che l’antichità degli usi, gli exempla e il mos maiorum sia di per sé fonte di verità: se per gli antichi il nuovo si legittimava in base alla sua continuità con l’antico, per i cristiani il nuovo si legittima in base a ciò che è vero, ed è vero ciò che è ricevuto da Dio, rivelatosi in Cristo.
Come parlare di Dio: la condanna del politeismo e l’opzione per la theologia physica
I primi sei libri de La città di Dio si occupano di mostrare l’incoerenza e la miseria morale del politeismo greco-romano, come deducibili dalle gesta degli dèi narrate nei loro miti ed acclamate dal culto popolare, sancite dalle istituzioni e celebrate dai sacerdoti. Tale immoralità viene valutata sulla filigrana dei migliori autori latini, alla luce della loro visione dell’uomo, che si riconosce implicitamente legata ad un’etica virtuosa, disponibile ad ogni riflessione che cerchi con sincerità la verità e riconosca la dignità spirituale, e perciò ultimamente cristiana, dell’uomo. Il confronto con i classici obbliga Agostino a fornire un’esegesi dei loro testi, aiutando l’interlocutore a separare, in quegli autori, quanto riguardava il conformismo con il linguaggio e con l’usanza, da quanto invece esprimeva convinzioni più profonde, invocando la stessa vita dei cristiani per favorire tale discernimento. Ne risulta così ingaggiato un serrato confronto fra cultura e religione; dove “religione”, in questo contesto, indica per Agostino la religione legata ai miti o celebrata nella vita civile, mentre “cultura” indica primariamente un insieme di valori di ambito etico-filosofico forgiati dalla storia e riconosciuti dagli autori con cui entra in dialogo. È la cultura ad essere davvero universale ed antropologicamente più fondata, mentre la religione, come veniva intesa, è legata all’opportunismo, alla volubilità delle passioni, alla superstizione. Gli dèi pagani non godono di universalità, perché nascono dalle esigenze particolari della vita civile o dai sentimenti espressi dalla poesia. Le gesta degli dèi vengono messe in ridicolo, smascherandone sia l’irrazionalità (sullo sfondo del buon senso), sia l’immoralità (sullo sfondo del pensiero etico classico). Una volta consolidate tali argomentazioni, Agostino attribuisce senza sconti all’influsso di tali esempi di vita sul popolo romano la causa del suo decadimento morale generale, che avrà come conseguenza la degenerazione delle virtù e la crescita della sua vulnerabilità nei confronti di altri popoli e culture. In sostanza, prima che dai vizi degli uomini, l’immoralità è stata introdotta dal culto licenzioso associato agli dèi: «Le rappresentazioni teatrali, gli spettacoli immorali, e la frivola licenza – afferma l’Ipponate – sono stati istituiti a Roma non dai vizi degli uomini ma per comando dei vostri dèi».[4] D’altra parte, l’inutilità del culto idolatrico per procacciarsi le buone sorti della storia, si evince osservando i molti mali cui Roma è andata incontro anche prima dell’avvento dei cristiani, aspetto sul quale Agostino si sofferma nel libro III con dovizia di particolari.
Riagganciandosi all’idea cara ai Padri della vera filosofia come preparazione al Vangelo e sua prefigurazione, l’Ipponate prosegue mostrando che i migliori pensatori della classicità, fondandosi sulle aspirazioni più profonde – e perciò più vere – dello spirito umano, avevano intravisto la coerenza e la convenienza del culto all’unico Dio. Sul piano etico egli apprezza la vita virtuosa dei romani, come essa emergeva attraverso gesta di speciale valore per il bene comune della patria e della società: tale bontà partecipava della bontà e della dignità della natura umana, sebbene tale vita virtuosa sia stata ora mortalmente intaccata dalla decadenza e dalla corruzione.
Prende poi forma, dal libro VI fino al libro X, il lungo e articolato commento agostiniano alla tripartizione della teologia indicata da Marco Terenzio Varrone, distinta come teologia mitica, teologia naturale e teologia civile; ciascuna di esse rappresenta uno specifico modo di parlare di Dio e possiede un luogo abituale ove viene discussa ed esercitata, rispettivamente il teatro, il cosmo, la polis.[5] Attirando dalla sua parte il giudizio di Varrone, Agostino guida l’interlocutore al riconoscimento della nobiltà della teologia naturale o fisica, perché sviluppata sul terreno del mondo naturale, un mondo oggettivo sotto gli occhi di tutti, riflettendo sul quale gli uomini possono giungere fino a Dio: «La prima teologia, egli dice, è soprattutto adatta al teatro, la seconda al mondo, la terza alla città. Chi non vede a quale [Varrone] ha accordato la preferenza? Certo alla seconda che, come ha precedentemente detto, è dei filosofi. Egli dichiara infatti che essa appartiene al mondo che, secondo il pensiero dei pagani, è l’aspetto più nobile della realtà».[6] L’opzione per un accesso al vero Dio attraverso la natura seguendo quanto fecero i filosofi giunge per Agostino fino a possedere una valenza soteriologica: «Non si conquista la vita eterna con la teologia fabulosa né con quella civile. La fabulosa infatti semina sconcezze sugli dèi con l’invenzione, la civile le miete col plauso; quella dissemina menzogne, questa le raccoglie. […] Non si può dunque attendere da essa la vita eterna, perché proprio da esse viene contaminata la breve vita nel tempo».[7] All’interno dei filosofi naturali che parlano di Dio mediante una riflessione sul cosmo, si esprime una chiara preferenza in favore dei platonici contro i materialisti: «non solo le teologie fabulosa e civile devono cedere ai filosofi platonici, i quali hanno insegnato che il vero Dio è autore delle cose, illuminatore della verità e datore della felicità, ma a questi grandi uomini che hanno conosciuto un Dio tanto grande devono cedere anche gli altri filosofi che con mentalità materialistica hanno assegnato alla natura soltanto principi materiali».[8] Nell’itinerario che dal mondo conduce fino a Dio, questi ultimi si sono fermati alle creature ritenendole dèi, errando ed attribuendo loro ciò che solo di Dio si potrebbe predicare; oppure hanno considerato le creature un frutto del caso, divenendo così incapaci di scorgere alcuna finalità.[9] I platonici, al contrario, sviluppando un pensiero attorno ad un primo principio trascendente, ebbero un linguaggio maggiormente adatto a parlare di Dio.
Il raccordo fra cristianesimo e vera filosofia viene così riaffermato ancora una volta anche in un contesto latino, sebbene nutrito di platonismo. In accordo con gli altri Padri, Agostino lo realizza partendo dalla rettitudine della vita virtuosa e dalla sincerità della ricerca della verità, perché il vero filosofo è colui che ama Dio, nonché dalla unicità/verità del Fondamento cercato, perché Dio è la vera Sapienza.[10] Amore alla verità e ricerca di un Fondamento non conducono ad un Dio diverso dal Dio predicato dai cristiani e rivelatosi in Gesù Cristo.
Non sarebbe inadeguato chiedersi quali modi di parlare di Dio siano oggi presenti nella nostra società, fortemente secolarizzata e preda di svariate forme di pseudoreligiosità. Manifestano le circostanze in cui si muovevano Agostino e i suoi interlocutori qualche parallelo con la situazione odierna? Si potrebbe certamente vedere nello scomposto ritorno al sacro e nella contemporanea ricerca di un generico spiritualismo il prolungamento di quella “teologia mitica” biasimata da Agostino, perché fondata su esigenze soggettiviste tese a rendere la divinità duttile ai propri desideri. È in fondo il modo in cui, nella società postmoderna, sembra oggi sopravvivere il termine “Dio” o “divino”, non di rado oggetto di un nuovo politeismo e assorbito nella logica del gioco e dell’intrattenimento. Non siamo più oggi di fronte ad una “teologia civile” come celebrata dall’Impero, ma persiste ugualmente un riferimento a Dio in alcuni ambiti istituzionali eredi del pensiero deista. Vi è però, sorprendentemente, un terzo modo di parlare di Dio che non pare scomparso. È la nozione di “Dio” che compare nelle riflessioni degli uomini di scienza, una nozione tuttora presente nelle grandi domande ultime sull’origine e sul destino del cosmo e della vita. Tali domande, ed indirettamente tale linguaggio su Dio, continuano ad essere presenti nella divulgazione scientifica e compaiono nelle riflessioni umanistiche che accompagnano sovente la presentazione ideale dell’impresa scientifica. Un discorso su Dio certamente impreciso e talvolta colorato di panteismo o di deismo, ma originato dalla natura, dalla vita, dal cosmo; dunque con un aggancio al reale fisico, alla sua razionalità e intelligibilità, con la potenzialità di aprirsi ad un Fondamento di significato universale, non soggettivo o circostanziale.
La storia biblica della salvezza, fonte di senso della storia degli uomini
Già dal libro X del De civitate Dei, e poi soprattutto a partire dall’XI, il terreno è ormai maturo per rivolgersi alla Scrittura, imbastendo una trattazione apologetica organica e propositiva. La Rivelazione divina è confermata dai miracoli e dalle profezie, ma anche dalla sua concezione dell’uomo, di cui si sottolinea la dignità di essere libero. I neoplatonici, prima lodati nel loro discorso su Dio a partire dal cosmo, vengono ora biasimati per la loro concezione antropologica, incapaci di riconoscere con chiarezza una libertà e una responsabilità individuali. La Rivelazione cristiana si mostra conforme alle istanze religiose dell’uomo, espresse soprattutto dalla preghiera e dal sacrificio.[11] Esponendo la Scrittura, Agostino non solo ne esalta l’inerranza e l’eccellenza morale, ma si preoccupa anche di rispondere agli interrogativi che la ragione potrebbe formulare di fronte ai contenuti del testo sacro. Ne nascono così approfondimenti biblici sulla creazione, sulla natura degli angeli, sul peccato e sulla morte, sulla resurrezione e sulla vita eterna. È questa la dimensione catechetico-fondamentale dell’opera, nella quale l’Autore si preoccupa di mostrare la ragionevolezza del credo dei cristiani, come ben illustra lo sforzo profuso negli ultimi tre libri per rendere più intelligibili le verità del giudizio finale.
Nell’apologia di Agostino, la contrapposizione fra la decadenza della vita sociale romana e le virtù che il cristianesimo si propone di instaurare, è gradualmente introdotta come paradigma del più ampio confronto fra l’instaurazione di una società basata sul potere, sull’egoismo e sulla superstizione, e una società basata sulla carità e sulla giustizia. Prendono così corpo i libri centrali dell’opera agostiniana dedicati a tracciare l’evoluzione storica, religiosa e culturale delle “due città”, la logica che le regge, il modo in cui in esse si costruisce la pace: Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l'amor di sé fino all'indifferenza per Iddio, alla celeste l'amore a Dio fino all'indifferenza per sé. Inoltre quella si gloria in sé, questa nel Signore. Quella infatti esige la gloria dagli uomini, per questa la più grande gloria è Dio testimone della coscienza. Quella leva in alto la testa nella sua gloria, questa dice a Dio: Tu sei la mia gloria anche perché levi in alto la mia testa [Sal 3,4]. In quella domina la passione del dominio nei suoi capi e nei popoli che assoggetta, in questa si scambiano servizi nella carità i capi col deliberare e i sudditi con l'obbedire. Quella ama la propria forza nei propri eroi, questa dice al suo Dio: Ti amerò, Signore, mia forza [Sal 17,2].[12]
Non va però dimenticato che il confronto fra la città degli uomini e la città di Dio possiede innanzitutto una valenza spirituale, prima che politica. Diverso, infatti, è il ruolo che in esse svolge la religione. In quella terrena la religione nasce dall’esigenza di dare stabilità e successo alla storia umana; in quella celeste, la vera religione ha origine dall’umiltà di chi comprende che il senso della storia è tracciato da Dio: è Lui che ne possiede le chiavi e ne scandisce i tempi. Tutta la storia, poi, punta a Gesù Cristo e disconoscerlo vorrebbe dire smarrirne il senso globale. Fedele al suo fondatore, la Chiesa ha come compito condurre a compimento la religione e mostrare la città di Dio nella storia. La religione precede allora ogni umana fondazione, non la segue; il suo compito è istruire gli uomini a separare il vero dal falso, il bene dal male, affinché edifichino la loro città sul modello di quella celeste, fondandola sulla verità e sul bene: Cristo non è Romolo. «Sebbene Cristo sia fondatore dell'eterna città del cielo, tuttavia essa non l'ha creduto Dio perché è stata fondata da lui, ma si deve costruirla appunto perché crede. Roma, già costruita e consacrata, ha adorato il suo fondatore in un tempio; questa Gerusalemme invece, per essere costruita e consacrata, ha posto sul fondamento della fede Cristo Dio suo fondatore. Quella amandolo l'ha creduto un dio, questa credendolo Dio l'ha amato. Come dunque si avverò prima che Roma amò e poi che della persona amata, ormai agevolmente, credette anche un falso bene; così si avverò prima che la Gerusalemme terrena credette affinché con la retta fede non amasse alla cieca ciò che è falso, ma ciò che è vero».[13] Se Varrone ha parlato prima della cultura e poi della religione è perché la religione a cui egli si riferiva riguardava i culti umani istituiti nella città terrena. «La vera religione, al contrario, non fu istituita da una qualche città terrena ma fu essa a istituire la città celeste. La vivifica e istruisce il vero Dio che dà la vita eterna ai suoi veri adoratori».[14] La fede precede l’adorazione ed indica a chi tributarla. Se nella città di Dio i cristiani hanno creduto Gesù Cristo come Dio non è perché questi abbia fondato la loro città, ma perché ha rivelato loro la verità. Roma, al contrario, ha costruito al suo fondatore Romolo un tempio, celebrando sé stessa e credendolo erroneamente un dio.
La lettura che Agostino propone della Bibbia è finalizzata a riconoscere in essa le vicende di tutta l’umanità e quelle di ogni singolo uomo, intrecciando il giudizio che la parola di Dio esercita sulla storia con quello che questa medesima parola suscita nella coscienza di ciascuno. La storia delle due città è, in fondo, la storia della salvezza, una storia nella quale esse compaiono ancora mescolate, in attesa che il giudizio finale le separi e sveli la logica e le intenzioni che ne hanno guidato la costruzione. Come apprendiamo dalla sacra Scrittura sono presenti insieme, nel tempo, il seme del bene e il seme del male, l’egoismo e la carità, il sospetto verso Dio e il fiducioso abbandono in lui. Gli insegnamenti della parola di Dio ci aiutano a riconoscere lo sviluppo storico di questi due semi e di queste due logiche, ci insegnano a discernere il valore del presente, da affrontare con libertà responsabile. Nel corso della storia è immersa anche la Chiesa di Gesù Cristo la quale, sebbene immagine della città celeste, vive la sua condizione di pellegrina nella città terrena. Come il cammino dell’intera umanità, anche quello della Chiesa procede fra dolori e gioie, fra affanni e consolazioni. Solo la carità vissuta in Cristo è capace di conferire senso agli uni e alle altre. Entrambe le città sono esposte al male, ma vi reagiscono in modo diverso. «La terrena ha creato per sé, da ogni provenienza o anche dagli uomini, i falsi dèi che ha voluto, per sottomettersi a loro mediante l'offerta di vittime. Invece quella celeste, che è esule sulla terra, non crea falsi dèi, ma essa è stata creata dal vero Dio ed essa stessa è la sua vera immolazione. Tutte e due però usano ugualmente i beni temporali e sono colpite dai mali con diversa fede, diversa speranza, diverso amore».[15]
È dunque agli insegnamenti della storia della salvezza che dobbiamo rivolgerci se desideriamo costruire una città permanente, se vogliamo formare un’umanità capace di vivere nella pace e nel culto del vero Dio. La sacra Scrittura ci mostra come la Provvidenza di Dio diriga gli eventi secondo i suoi fini, senza svilire la libertà umana ma valorizzando la sua profonda dignità. La stessa vicenda di Roma, aveva già osservato Agostino in un’altra parte dell’opera, può essere letta alla luce della logica divina che guida la storia, comprendendo così il significato delle avversità e adoperandosi per la costruzione della vera pace: «L'impero romano è stato battuto ma non è morto; e gli è capitato anche in tempi anteriori al cristianesimo e si è rifatto delle sconfitte. E questo non si deve disperare neanche oggi. Chi conosce in proposito il volere di Dio?».[16] I cristiani non vedono in Roma un avversario da combattere, ma si adoperano per la crescita dell’uomo e del cittadino: gli unici avversari restano il peccato e l’egoismo, il demonio e le sue seduzioni.
Osservazioni conclusive
Di fronte all’opera agostiniana e alle circostanze della sua composizione, il lettore contemporaneo non può evitare di interrogarsi su alcuni possibili paralleli fra l’odierna stagione che il cristianesimo attraversa e i profondi cambiamenti culturali, religiosi e sociali oggi sperimentati dall’Europa occidentale. La storia ha mostrato che il cristianesimo non capitolò con la Roma imperiale: la Chiesa mantenne la sufficiente autorità religiosa e organizzativa per sostenere i suoi fedeli e i Visigoti giunsero successivamente anch’essi alla fede. Anzi, i profondi mutamenti politici e di governo consentirono a una religione incipiente, il cristianesimo appunto, di avere definitivamente ragione della religione precedente, quella pagana, favorendo così una sua più solida instaurazione. Eppure, una domanda mantiene la sua attualità di fondo: se i profondi mutamenti antropologici e valoriali del mondo occidentale dovessero ulteriormente trasformarne l’assetto di vita e le convinzioni fondative, quali sarebbero le sorti riservate oggi al cristianesimo?
Nell’Europa del XXI secolo, società politico-culturale e cristianesimo restano, in linea di principio, distinguibili e distinti. E ciò non solo perché il cristianesimo – la Chiesa cattolica in particolare – possiede una portata universale, riprodotta in modo sempre più cosmopolita anche nelle aree locali, grazie ad un’identità spirituale e confessionale che convive con l’operatività di importanti flussi migratori di cui è protagonista anche il cristianesimo, non solo le altre religioni. La distinzione è anche dovuta al fatto che, nel caso del cattolicesimo, la forza della propria sopravvivenza non dipende dalla sua solidarietà con gli Stati in cui la Chiesa è presente, né dipende dalle loro legislazioni o dai modelli che queste inducono sulla vita e sul costume della società. Da tutto ciò la Chiesa risulta ovviamente influenzata e assai spesso indebolita, ma riteniamo non venga per questo annientata. A sostenerla, in Europa come in altre aree geografiche, è la sua intrinseca dimensione di profezia e di giudizio sulla storia, certamente viva in non poche comunità cristiane.
Il cristianesimo sembra avere in sé le risorse non solo per edificare la città di Dio, in senso escatologico, ma anche per edificare la città terrena. Tuttavia, per fiorire ed esprimersi, queste risorse, sempre presenti in fermento, hanno bisogno di un contesto adeguato, che potremmo indicare come un umanesimo non ideologicamente ateo né pregiudizialmente relativista. Per acquistare visibilità ed edificare le strutture della città degli uomini, il cristianesimo ha bisogno di condizioni sociali, politiche, culturali, che rispettino l’affermazione della dignità umana e ne favoriscano la crescita; una dignità in sintonia con una ben compresa laicità e secolarità, valutata sulla filigrana del grande pensiero etico-filosofico e sostenuta da una sensibilità verso il valore della vita, specialmente se debole, meno abbiente e indifesa. Di queste condizioni i cristiani non godettero durante i primi tre secoli della loro storia, né oggi godono in molte aree del pianeta ove la libertà di religione non è riconosciuta o il materialismo pratico la soffoca. Durante la sua incubazione in una società pagana e idolatra, il cristianesimo non fu annientato, ma sopravvisse e crebbe, anche se vi furono inevitabilmente perdite e defezioni. Ieri come oggi, quando non vi è un umanesimo capace di “riconoscere” il cristianesimo, manca un sufficiente humus filosofico e religioso sul quale il suo annuncio possa prima attecchire e poi affermarsi pubblicamente, contribuendo in modo organico e profondo al progresso spirituale e umano dell’intera società, di ogni persona. Tale umanesimo i cristiani dei primi secoli seppero però recuperarlo, dialogando con intelligenza con autori e tradizioni intellettuali che lo avevano intravisto.
Bibliografia
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P. Piret, La destinée de l’homme: la Cité de Dieu. Un commentaire du “De civitate Dei” d’Augustin, Éditions de l'Institut d'études théologiques, Bruxelles 1991;
E. Cavalcanti, Il De civitate Dei: l’opera, le interpretazioni, l’influsso, Herder, Roma - Freiburg i.B. - Wien 1996.
[1] Agostino, La città di Dio, I, 29, tr. it. 52.
[2] Cf. ibid., II, 26, tr. it. 103.
[3] Agostino di Ippona, Epistulae, n. 138, 2,15, tr. it. Città Nuova, Roma 1971, vol. XXII, 187. La lettera è datata 411-412, poco dopo il sacco di Roma e subito prima dell’inizio della redazione del De civitate Dei.
[4] La città di Dio, I, 32, tr. it. 55.
[5] Cf. ibid., VI, 3-6.
[6] Ibid., VI, 5, 3, tr. it. 283.
[7] Ibid., VI, 6,2, tr. it. 284-285.
[8] Ibid., VIII, 5, tr. it. 368-369.
[9] Cf. ibid., VIII, 5; VIII, 9; VIII, 10,2.
[10] Cf. ibid., VIII, 1; VIII, 11.
[11] Cf. ibid., X, 12-32.
[12] Ibid., XIV, 28, tr. it. 736.
[13] Ibid., XXII, 6,1, tr. it. 1241.
[14] Ibid., VI, 4, tr. it. 279.
[15] Ibid., XVIII, 54,2, tr. it. 1017.
[16] Ibid., IV, 7, tr. it. 175.
Una versione estesa del presente studio è pubblicata in G. Tanzella-Nitti, Teologia della credibilità, vol. 1: La teologia fondamentale e la sua dimensione di apologia, Città Nuova, Roma 2015, pp. 346-361.
Brani antologici proposti
La critica del cristianesimo e della storia al fato e all'astrologia, Libro V
Solo a Dio compete il creare, Libro XII
Tempo ed eternità: la concezione cristiana del tempo, Libro XII
Quanto la Genesi dice sul paradiso terrestre può essere interpretato con allegorie, Libro XIII
Sulla teologia del miracolo, Libro XV