Tommaso d'Aquino (1225 ca. - 1274)

Anno di redazione
2002

I. Vita e opere - II. I meriti di Tommaso d'Aquino - III. Tommaso d'Aquino e lo statuto scientifico della teologia. 1. Il rifiuto della dottrina della "doppia verità". 2. La fede e la ragione. 3. La teologia come scienza in s. Tommaso. - IV. Il ruolo della ragione e della filosofia - V. Il principio tommasiano dell'analogia - VI. Lo spirito "scientifico" di Tommaso d'Aquino.

I. Vita e opere

Tommaso nacque a Roccasecca, in uno dei castelli dei conti d'Aquino, tra il 1224 e il 1225. La madre, Teodora, era una nobildonna di Napoli, di discendenza normanna. Mentre il padre, Landolfo, era un personaggio importante del regnum di Federico II al quale era legato da lontani vincoli di parentela. Tommaso aveva tre fratelli e cinque sorelle. Nel progetto dei genitori, Tommaso in quanto figlio cadetto avrebbe dovuto abbracciare la vita ecclesiastica. A tal fine, dopo il quinto compleanno, e cioè intorno al 1230, lo condussero all’antica e prestigiosissima abbazia benedettina di Montecassino e lo affidarono ai monaci come oblato (oblatus), «il che significa che veniva offerto a Dio secondo lo stile di vita benedettino per essere istruito alla pratica della regola monastica e nelle materie di studio fondamentali» (Weisheipl, 1994, p. 14).

La permanenza di Tommaso d’Aquino a Montecassino viene interrotta nel 1239 a causa della guerra tra Federico II e il papa Gregorio IX (1227-1241). L’abate consiglia il padre di mandare Tommaso a Napoli, cosa che il figlio fa di buon grado. A Napoli ha luogo la sua prima diretta iniziazione alla logica e alla filosofia aristotelica, sotto la guida di due maestri eccellenti, Martino di Dacia e Pietro di Hibernia. A Napoli ha luogo anche l’evento che decide per sempre il destino di Tommaso: è la sua decisione di abbracciare lo stato religioso nel giovane ordine mendicante dei Frati Predicatori. Quello stile di vita che si ispirava al motto: salus animarum per praedicationem et doctrinam gli sembrava assai congeniale. Quando, probabilmente nell’aprile 1244, indossò l’abito religioso, il padre era morto da quasi un anno. La sua decisione di farsi frate fu duramente contrastata da tutta la famiglia, che aspirava ad una più alta carriera ecclesiastica e che, per dissuaderlo, lo rinchiuse nel castello di Roccasecca per oltre un anno. Ma Tommaso rimase irremovibile nella sua vocazione e respinse con un tizzone ardente una bella ragazza che i fratelli gli avevano mandato in camera per sedurlo. È a questa vicenda che si riallaccia il titolo di doctor angelicus ossia “uguale agli angeli”, per la sua castità.

Nel 1245, ormai maggiorenne, Tommaso fu rilasciato e così, finalmente, potè recarsi a Parigi, per iniziare i suoi studi teologici sotto la guida del suo confratello Alberto, Magno (1200 ca.-1280) che allora era magister regens dello Studium dell’Ordine domenicano. Quando, tre anni più tardi, Alberto lasciò Parigi per recarsi a Colonia ad organizzarvi un nuovo Studium si fece accompagnare dal più intelligente e brillante dei suoi allievi, Tommaso d’Aquino. Questi a Colonia proseguì gli studi teologici fino al conseguimento del baccalaureato biblicus e allo stesso tempo, alla scuola del suo dottissimo maestro Alberto, prese contatto non solo col corpus aristotelicum, ma anche con i commentatori arabi, specialmente con Avicenna e con le opere dello Pseudo-Dionigi che proprio in quegli anni Alberto andava parafrasando.

Dopo l’ordinazione sacerdotale (1252) Tommaso fu rispedito a Parigi per acquistare i gradi accademici superiori: il baccalaureatus sententiarius e il magister sacrae doctrinae. Per quattro anni tenne i corsi su Pietro Lombardo (1095 ca.-1160) e questo insegnamento sfociò nella sua prima opera monumentale, il Commentarium in quattuor libros Sententiarum (1254-56). Nel 1255, insieme con s. Bonaventura (1217 ca.-1274), s. Tommaso fu coinvolto nella lotta per l’assegnazione delle cattedre di teologia, che i maestri del clero secolare ritenevano ingiusto affidare a chi, come i frati degli ordini mendicanti, facevano professione di povertà. La questione fu portata a Roma e grazie all’abile perorazione di Alberto Magno i mendicanti ebbero la meglio. A difesa del proprio diritto alla docenza universitaria l’Angelico aveva scritto l’opuscolo Contra impugnantes Dei cultum et religionem. Dopo la vittoria dei mendicanti, Tommaso venne nominato magister regens di una delle cattedre di teologia dell’università parigina.

Nel 1259 Tommaso viene richiamato in Italia per svolgere vari e importanti incarichi nella sua provincia di appartenenza, la provincia romana (alla quale apparteneva anche il convento di Napoli), della quale egli era già considerato, grazie alla sua laurea parigina, la stella più fulgida. Il decennio della vita di Tommaso che va dal 1259 al 1269 è piuttosto difficile da documentare storicamente. Secondo Weisheipl (1994) Tommaso trascorse il primo anno e mezzo successivo al suo ritorno nella provincia romana a san Domenico in Napoli, intento alla composizione della sua Summa contra Gentiles (1261-1264) di cui non aveva scritto che poche pagine a Parigi. Può anche darsi che durante questo periodo trascorso a Napoli egli abbia sostituito il maestro del convento ma non vi sono prove che lo confermino. Ciò che è certo, è che egli poteva disporre abbastanza liberamente del suo tempo e questo gli consentì di portare rapidamente a termine i quattro libri della Contra Gentiles.

Durante il capitolo provinciale del 14 settembre 1261, che si svolse ad Orvieto, Tommaso fu nominato lector (docente) presso il convento di Orvieto. Nello stesso anno saliva alla cattedra di Pietro, Urbano IV (1261-1264) il quale scelse come residenza i nuovi appartamenti papali di Orvieto, dove visse buona parte dei quattro anni del suo pontificato. Tra il nuovo papa e Tommaso nacque una calorosa amicizia. Tommaso divenne un assiduo collaboratore di Urbano IV, il quale a sua volta accordava al suo teologo di fiducia tutto quanto poteva essere utile o necessario per il suo lavoro. Ad Orvieto Tommaso ebbe anche la fortuna di incontrare il suo confratello Guglielmo di Moerbeke, eccellente grecista, al quale l’Angelico chiese di apprestare una nuova traduzione latina delle opere di Aristotele, sulle quali egli avrebbe poi steso i suoi famosi commenti. Allo stesso Guglielmo di Moerbeke e ad altri confratelli Tommaso chiese di realizzare la traduzione di alcune importanti opere dei Padri greci che non erano ancora mai state tradotte in latino, arricchendo così notevolmente le fonti patristiche accessibili ai teologi latini, fonti di cui lo stesso Tommaso farà largo uso nella stesura della sua Summa theologiae. Secondo uno dei primi biografi di s. Tommaso, Tolomeo di Lucca, «su richiesta di Urbano IV egli (Tommaso) fece molte cose e scrisse molto». Fu per accontentare Urbano IV che iniziò a scrivere il suo commento continuo dei quattro Vangeli (Catena aurea) e compose il Contra errores graecorum (1261-1263). In entrambi gli scritti Tommaso dimostrò di avere imparato molte cose dai Padri della Chiesa greci. Sebbene si dedicasse con molta attenzione allo studio dei testi aristotelici non sembra invece che Tommaso, durante il suo soggiorno a Viterbo, avesse l’intenzione di commentarli. Non solo non esistono commenti che si possono far risalire a quel periodo, ma egli non aveva affatto bisogno di occuparsene. Quale maestro di teologia, egli era profondamente impegnato in questioni teologiche, soprattutto dopo avere concepito il disegno di comporre la sua monumentale Summa theologiae (1266-1273). Ancora a Viterbo, egli ne completò il primo libro (Prima pars), che contiene la dottrina su Dio e sulla creazione.

In quegli anni, dopo il ritiro dei divieti aristotelici, il pensiero del filosofo greco aveva avuto a Parigi un’accoglienza trionfale. Tutte le sue opere erano diventate materia di insegnamento obbligatorio nella Facoltà delle Arti. Insieme ad Aristotele erano arrivati anche i suoi commentari, in particolare il commentatore per eccellenza Averroè (1126-1198). Grazie al grande metafisico Sigieri di Brabante (1235 ca.-1282) nella Facoltà delle Arti la versione averroistica delle dottrine aristoteliche divenne di moda. Ma in questo modo l’operazione iniziata da Alberto Magno di armonizzare Aristotele con la fede cristiana risultava impossibile. I maestri di teologia, specialmente i francescani e gli agostiniani che non avevano mai visto di buon occhio Aristotele, ne invocarono nuovamente la proscrizione. Nel 1269 lo Studium domenicano di Parigi decide di richiamare s. Tommaso e di affidargli oltre che la cattedra di teologia, anche e soprattutto l’incombenza di difendere la causa di Aristotele. S. Tommaso si trovò a lottare su due fronti: contro i teologi tradizionalisti (francescani e agostiniani), che accusavano Aristotele di paganesimo, e contro gli averroisti, che davano del pensiero dello Stagirita un’interpretazione incompatibile con alcune verità fondamentali del cristianesimo (negazione della provvidenza di Dio, della libertà umana, dell’immortalità dell’anima, della pluralità degli intelletti, ecc.). Contro questi ultimi l’Angelico scrisse immediatamente il De unitate intellectus contra averroistas. Ma il lavoro colossale che Tommaso svolse nel quadriennio della sua seconda docenza parigina fu un altro: rifare da capo a fondo i commenti di tutte le opere di Aristotele sulla base di traduzioni più affidabili (quelle di Moerbeke) al fine di liberare il pensiero di Aristotele dall’ipoteca averroistica e legittimare in tal modo l’utilizzo del metodo e delle dottrine di Aristotele nell’approfondimento della verità rivelata. Quello che l’Angelico riuscì a fare nel breve giro di quattro anni ha dell’inverosimile. Lavorando intensamente dalla mattina alla sera con una squadra di assistenti e di segretari egli portò quasi a termine il commento dell’intero corpus aristotelico. Ecco la lista delle opere commentate tra il 1268 e il 1272: De interpretatione (Perì Hermeneias), Analitici Posteriori, Fisica, De coelo et mundo, De generatione et corruptione, Metereologia, De anima, De sensu et sensato, De memoria et reminiscentia, Metafisica, Etica, Politica.

Con i suoi profondi commenti Tommaso fornì la sospirata guida esegetica ad Aristotele, una guida che aiutava i giovani Maestri delle Arti a comprendere la filosofia aristotelica in armonia con il testo autentico e, dove necessario, alla luce dei dettami della fede. Secondo Weisheipl (1994) «Tommaso si occupò di Aristotele in quanto sentiva la necessità dal punto di vista apostolico di aiutare i giovani maestri delle Arti a comprendere la filosofia aristotelica [...]. Non poteva essere ignorato il rischio di giovani maestri che, dovendo insegnare Aristotele a scuola, potevano continuamente essere indotti all’eresia, specialmente da Averroè. Perciò Tommaso si sentì in dovere di scrivere per i giovani maestri delle Arti commenti che fossero fedeli ad Aristotele — anche quando il suo insegnamento doveva essere rigettato — e nello stesso tempo scevri da errore dal punto di vista filosofico» (p. 285). Sull’esempio del suo grande maestro Alberto Magno, Tommaso, esplicitando l’“intenzione di Aristotele” (intentio Aristotelis) e facendone anche l’esegesi testuale (littera), fece nuovamente vedere che tra Aristotele e cristianesimo non esistevano contrasti insanabili e che quindi era molto meglio per la Chiesa e per la teologia cercare di dialogare con Aristotele, piuttosto che condannarlo in blocco, come facevano Bonaventura e gli agostiniani.

Nell’estate del 1272, Tommaso aveva esaurito il suo compito a Parigi. Nulla era stato risolto; la controversia contro gli ordini mendicanti, l’averrosimo latino, l’opposizione da parte degli agostiniani erano destinati a continuare anche dopo la sua morte, e a lui non restava altro da fare. Con la nomina del suo successore alla cattedra di teologia, il domenicano Romano da Roma, della famiglia degli Orsini, Tommaso poteva lasciare Parigi e far ritorno a Roma. In Italia Tommaso ricevette dai suoi superiori l’incarico di riordinare l’insegnamento della teologia nell’università di Napoli, e di tenervi egli stesso alcuni corsi, cosa che fece regolarmente fino al gennaio del 1274. In questo periodo, come già quando si trovava a Viterbo, oltre che allo studio e all’insegnamento si dedicò con zelo anche alla predicazione al popolo, che andava ad ascoltarlo con grande entusiasmo, apprezzando la semplicità della sua parola e la profondità del suo pensiero.

Un giorno di dicembre del 1273, dopo la celebrazione della Santa Messa, Tommaso chiamò il suo fedelissimo segretario fra Reginaldo da Piperno e gli comunicò che aveva deciso di interrompere ogni lavoro, perché quanto aveva visto in estasi quella mattina durante la celebrazione eucaristica gli aveva fatto capire che ciò che aveva scritto nei suoi libri era tota palea (un mucchio di paglia). Così rimasero incomplete due delle sue opere più importanti: la Summa theologiae, rimasta ferma alla Questione 90 della Tertia Pars e il Compendium theologiae, sospeso al capitolo 10 del Libro Secondo.

Nel gennaio del 1274, su invito di Gregorio X (1271-1276), Tommaso partì alla volta di Lione, dove il papa aveva convocato un concilio ecumenico. Giunto nei pressi di Fossanova, fu colto da grave malore e fu ricoverato sollecitamente nella celebre abbazia cistercense di quella città. Tutte le cure risultarono vane e dopo qualche settimana, il giorno 7 marzo del 1274, morì senza che si fosse potuto capire la natura del male che l’aveva colpito. Il giorno prima di morire, il 6 marzo, Tommaso aveva chiesto il viatico. Quando l’abate e i monaci gli portarono il sacramento, secondo il racconto del suo primo biografo, Guglielmo di Tocco, Tommaso recitò la seguente preghiera: «Io ti ricevo come riscatto per la mia anima, ti accolgo come viatico per il mio pellegrinaggio; per amore tuo ho studiato, ho vegliato e faticato. Te io ho predicato ed insegnato. Non ho mai detto nulla contro di te; dovessi però aver detto qualche cosa, fu per ignoranza, e non mi ostino nel mio parere, ma se avessi insegnato male su questo sacramento o su qualcosa d’altro, lo affido totalmente alla correzione della santa Chiesa romana, nella cui obbedienza mi congedo ora da questa vita». Nessuno avrebbe potuto sintetizzare meglio le virtù che il dottore Angelico aveva praticato in modo eminente nella sua vita: l’amore a Cristo, lo zelo apostolico, la purezza delle intenzioni, l’ortodossia della dottrina, la fedeltà alla Chiesa.

Nei suoi contemporanei Tommaso lasciò un ricordo profondo ed indelebile, per la finezza ed acutezza della sua intelligenza, per la grandezza ed originalità del suo genio, per la soavità e santità della sua vita. Guglielmo di Tocco sottolinea la straordinaria originalità di s. Tommaso in tutto ciò che faceva: «Fra Tommaso proponeva nelle sue lezioni problemi nuovi, scopriva nuovi metodi, impiegava nuove concatenazioni di prove, e nell’udirlo spiegare, spiegava così una nuova dottrina con nuovi argomenti, che non si poteva dubitare che Dio, attraverso l’irradiarsi di questa nuova luce e la novità di questa ispirazione, gli avesse fatto dono dell’insegnamento, in parole e scritti, di una nuova dottrina».

Tommaso d’Aquino fu canonizzato nel 1323 da Giovanni XXII e proclamato dottore della Chiesa da Pio V nel 1567. Ben presto gli fu dato il titolo di “dottore angelico” e recentemente quello di “dottore comune”.

Biografia, introduzione al pensiero e presentazione completa delle opere di Tommaso d’Aquino possono trovarsi, fra gli altri lavori, oltre che in Weisheipl (1994) e nell’opera classica di Grabmann (1986), anche in Biffi (1992), Torrell (1994) e Fabro (1997).

 

II. I meriti di Tommaso d’Aquino

Secondo alcuni studiosi s. Tommaso entrerebbe di diritto tra le maggiori personalità del secondo millennio, insieme a Colombo, Shakespeare, Dante, Galileo, Lutero, Da Vinci, Cartesio, Newton, Einstein. Egli è in effetti il teologo cattolico per antonomasia: colui che ha saputo esporre e difendere meglio di qualsiasi altro gli articoli di fede professati dalla Chiesa cattolica. Tommaso non solamente ha conferito alla teologia uno statuto epistemologico solido e preciso, ma ha anche organizzato in modo rigoroso e coerente tutte le verità che Dio si è compiaciuto di rivelare all’uomo.

Ma i meriti perenni che s. Tommaso si è guadagnato vanno ben oltre il campo della teologia; essi toccano anche i campi dell’esegesi biblica, dell’ermeneutica filosofica, della metafisica dell’essere, dell’antropologia filosofica e della morale.

Come ogni buon teologo, s. Tommaso è anche un interprete della Sacra Scrittura, essendo la teologia, per definizione, una riflessione sulla Parola di Dio al fine di acquisirne una profonda e più completa conoscenza. Però l’Angelico non svolge il lavoro esegetico solo come un momento preliminare in vista di quello teologico, ma lo esercita anche ex professo, e lo fa in modo egregio, tanto da essere classificato tra i più grandi esegeti di tutti i tempi. S. Tommaso è stato un assiduo frequentatore e un profondo studioso della Scrittura. All’inizio della sua carriera accademica, in veste di baccelliere, tenne per due anni consecutivi la lectio della Sacra Pagina. Diventato maestro di teologia, continuò il suo insegnamento ufficiale con il commento della Bibbia che diviene «la sostanza di tutto il suo lavoro» (Chenu). Il valore della sua opera di commentatore della Scrittura, come quello di commentatore di Aristotele, è stato sempre universalmente riconosciuto. In lui viene apprezzata ad un tempo la fedeltà al testo e la profondità del pensiero, la penetrazione e la finezza. Secondo H. Denifle, s. Tommaso è più penetrante, più sicuro, più concreto di tutti gli altri commentatori del medioevo.

Un altro merito insigne che abbiamo già segnalato narrando la vita di s. Tommaso riguarda l’ermeneutica filosofica. Oltre ad opere di Boezio (480 ca.-524), dello Pseudo-Dionigi e al Liber De causis, egli ha commentato gran parte del corpus aristotelicum, tra cui tutte le opere più impegnative, la Fisica, l’Etica nicomachea e la Politica. La nuova esegesi di Aristotele proposta da s. Tommaso raccolse consensi unanimi in tutti i tempi. Alberto Magno riconobbe che l’esegesi letterale di s. Tommaso era molto migliore delle sue parafrasi. In poco tempo i commenti dell’Aquinate presero il posto di quelli di Averroè, e tra i latini egli si guadagna il titolo di commentator noster. Anche i commentatori moderni della Metafisica di Aristotele (Jaeger, Ross, Reale, Berti) riconoscono valide le linee interpretative di s. Tommaso, il quale sopperiva col suo genio speculativo alla sua ignoranza della lingua originale (greco) in cui erano stati scritti i testi.

Un merito che soltanto l’esegesi tomistica del XX secolo ha riconosciuto a s. Tommaso, non affatto trascurabile, è l’elaborazione di una nuova metafisica, la metafisica dell’actus essendi, nella quale l’Angelico, grazie al concetto intensivo di essere, unifica ad un livello superiore la metafisica della partecipazione di Platone e la metafisica della sostanza di Aristotele. È una metafisica di una straordinaria fecondità, che prospetta nuove soluzioni per i problemi che riguardano Dio (esistenza, natura e attributi), gli angeli (mediante la distinzione reale tra essenza ed esistenza risolve il problema della loro finitezza), l’anima umana (che gode di un proprio actus essendi), la persona di Gesù Cristo (che rende la sua natura umana partecipe dell’actus essendi della natura divina).

Anche nella speculazione sull’uomo e sull’agire umano, s. Tommaso ha acquisito meriti insigni. Egli è il primo genere di umanista: Doctor humanitatis, l’ha definito Giovanni Paolo II. Egli è un avvocato dell’uomo in un mondo in cui il contemptum mundi era ancora forte e si rispecchiava anche nel disprezzo del corpo e nell’avversione alla sessualità. L’Angelico ha una visione integrale dell’uomo, anima e corpo, intelletto e volontà. Riconosce il valore dell’appetito naturale e della ragione che lo ordina, nonché delle passioni, che sono il fondamento necessario delle virtù; ma chiarisce che senza l’integrazione della fede e della carità la conquista della perfezione non può attuarsi. Anche per questa via la natura, invece di presentarsi come il polo opposto dello spirito, diviene la premessa del cammino verso Dio. L’etica cristiana di s. Tommaso, cioè l’ascesa verso Dio, muove dalla natura e si vale della natura. Le virtù naturali, che a volte anche s. Agostino aveva messe da parte, sono riconosciute come la premessa delle virtù soprannaturali o, come dirà Dante Alighieri, come ancelle della fede. Oltre che eccellente antropologo e grandissimo moralista, Tommaso fu anche finissimo psicologo. Parte della Summa theologiae, con le sue 300 questioni, è una miniera immensa di osservazioni psicologiche finissime, apprezzate anche da molti psicologi del nostro tempo.

Ma ancor più che nell’antropologia, il genio dell’Aquinate rifulge nella sua cristologia, che provvidenzialmente riuscì a portare a termine pochi mesi prima della sua morte repentina e precoce. Nessuno meglio di lui è penetrato nel mistero dell’Incarnazione, e ben pochi gli stanno a fianco nella meditazione del mistero della Croce. Tommaso è un eminente staurologo (teologo della croce), per nulla inferiore a Lutero (1483-1546) o a Kierkegaard (1813-1855). Egli sente il fascino angosciato di questo mistero. La Chiesa esce dal costato squarciato del Cristo e noi tutti siamo figli del sangue che fuoriesce dal suo costato.

La visione teologica globale dell’Angelico è profondamente unitaria e circolare, e si compie attraverso il duplice movimento del descensus e dell’ascensus. Il descensus ha come attore principale Dio creatore e provvidente; mentre l’ascensus ha come attore principale il Cristo, mediatore e salvatore. Ma colui che è creato e salvato è l’uomo, l’unica creatura del mondo visibile che da Dio è voluta ed amata per se stessa, e voluta ed amata con un’intensità così grande che per la sua salvezza lo stesso Figlio di Dio ha versato il suo sangue sul legno della croce.

 

III. Tommaso d’Aquino e lo statuto scientifico della teologia

L’enciclica Fides et ratio (1998), che definisce la fede e la ragione «come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità», assegna a s. Tommaso il «grande merito di porre in primo piano l’armonia che intercorre tra la ragione e la fede. La luce della ragione e quella della fede provengono entrambe da Dio, egli argomentava, perciò non possono contraddirsi» (n. 43).

1. Il rifiuto della dottrina della “doppia verità”. La tesi dell’armonia tra fede e ragione, già dai tempi di s. Agostino, era diventata un sicuro patrimonio del pensiero cristiano. Ma nella interpretazione agostiniana l’armonia era assicurata mediante un’eccessiva subordinazione della ragione alla fede; così il lume della fede sembrava soffocare quello della ragione. Inoltre ai tempi dell’Aquinate, specialmente nel mondo accademico parigino si stava diffondendo la teoria della “doppia verità” (la verità della fede da una parte e la verità della filosofia dall’altra); questa teoria sottolineava eccessivamente l’autonomia della ragione nei confronti della fede. Così il dottore Angelico nel formulare la dottrina dei rapporti tra fede e ragione si deve confrontare con gli agostiniani, da una parte, e con gli averroisti, dall’altra: ai secondi egli insegna l’armonia, ai primi l’autonomia.

Nel medioevo s. Tommaso è il primo assertore della piena autonomia della ragione nei confronti della fede. Nelle cose che riguardano Dio egli distingue due piani di conoscenza, il piano della ragione e il piano della fede, ai quali corrispondono due distinti ordini di verità: «ve ne sono alcune che superano ogni capacità della ragione umana, come la Trinità insieme all’Unità di Dio, altre poi possiamo affermarle con la ragione naturale, come l’esistenza di Dio, la sua unità e simili verità, che anche i filosofi dimostrano col solo lume della ragione naturale» (Contra Gentiles, I, c. 3).

Su questo punto Tommaso si trovava in completo disaccordo con l’amico Bonaventura, che era stato suo collega di insegnamento durante la sua prima docenza alla università di Parigi. Bonaventura, che era il più autorevole esponente della potente corrente agostiniana, condannava qualsiasi forma di sapere umano che pretendesse di raggiungere la verità indipendentemente dalla fede. Porre al primo posto, nella ricerca della verità, lo studio della filosofia, è ritenuto da Bonaventura un errore gravissimo: «Abbassarsi alla filosofia è pericolo gravissimo [...]. Perciò i professori (magistri) devono fare attenzione a non lodare e apprezzare eccessivamente i detti dei filosofi, affinché in conseguenza di questo il popolo non sia ricondotto in Egitto, oppure dietro al loro esempio non abbandoni le acque di Siloe, dove si trova la somma perfezione e rincorra le acque dei filosofi, nelle quali c’è eterna seduzione» (Collationes in Hexaemeron, XIX, 12).

La verità, insiste Bonaventura, è nostra. La filosofia è sostanzialmente erronea, perché vuole spiegare la realtà con la stessa realtà, la creatura con la stessa creatura. Ma questo è un procedimento errato, perché alla conoscenza della creatura si può arrivare soltanto per mezzo di Colui che l’ha fatta; né si può avere conoscenza della verità se la mente non è in possesso del criterio del vero, cioè se non conosce la Verità: «Il nostro obiettivo di far vedere che in Cristo sono racchiusi tutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio, e che egli stesso costituisce il mezzo (medium) di tutte le scienze» (ibidem, XIX, 7).

Per s. Tommaso questa reductio artium ad theologiam e della ratio ad fidem è eccessiva e non giova neppure alla gloria di Dio, il quale ama di essere lodato dall’uomo attraverso le opere del suo intelletto e della sua volontà. La ratio è la facoltà che Dio ha dato all’uomo perché possa conoscere la verità. «La perfezione della natura spirituale consiste infatti nella conoscenza della verità» (De Veritate, q. 15, a. 1), e «benché la conoscenza dell’anima umana si abbia normalmente mediante la ragione, si tratta tuttavia di una partecipazione di quella conoscenza semplice [della verità] che compete alle sostanze intellettive superiori» (ibidem). Senza la ragione nell’uomo non c’è nessuna conoscenza della verità e se la ragione non può accedere alla verità, essa resta una facoltà inutile ed inoperosa; come l’udito, se non potesse ascoltare nessun suono, e la vista se non potesse vedere nessun colore. L’ambito della verità a cui può accedere la ragione è molto vasto: esso abbraccia tutti i princìpi primi della metafisica e tutti i princìpi primi della morale: può conoscere inoltre l’esistenza di Dio e, molto imperfettamente e limitatamente, anche la sua natura.

Affermando l’autonomia della ragione nei confronti della fede c’era però il rischio di accogliere la tesi della doppia verità, tesi sostenuta, come s’è visto, dagli averroisti latini, che credevano di trovarla negli scritti di Averroè. S. Tommaso respinge categoricamente la tesi della doppia verità, adducendo due argomenti: a) non ci può essere una doppia verità perché Dio è la fonte primigenia d’ogni verità, sia di fede sia di ragione. b) «I princìpi radicati naturalmente nella ragione sono talmente veri che non è nemmeno possibile pensarli come falsi; né d’altra parte è lecito ritenere come falsa la fede, che ha avuto da Dio conferme così evidenti. Perciò, siccome il solo errore è contrario alla verità, come risulta dalla loro definizione, è impossibile che la verità di fede sia contraria a quei princìpi che la ragione conosce naturalmente» (Contra Gentiles, I, c. 7).

2. La fede e la ragione. Però, pur riconoscendo l’autonomia della ragione nello studio delle cose naturali e una sua moderata competenza anche nella sfera religiosa, s. Tommaso esclude che essa sia in grado da sola di penetrare nei misteri di Dio, che pure è il suo ultimo bene. E quelle stesse verità religiose, che di per sé la ragione sarebbe in grado di ottenere da sola, di fatto è concesso a pochi privilegiati di raggiungerle, e la via che ad esse conduce non è scevra di errori. Per tutti questi motivi è sommamente conveniente che Dio stesso venga in soccorso della ragione con la sua Rivelazione (cfr. Summa theologiae, I, q. 1, a. 1). Così la fede non viene vista da s. Tommaso come un rullo compressore che schiaccia e annienta la ragione, bensì come un provvidenziale aiuto che le viene prestato perché possa conoscere più facilmente e con maggiore certezza delle verità che di per sé sono alla sua portata e per renderle accessibili quelle verità soprannaturali che oltrepassano ogni suo potere.

Ma non è soltanto la fede che è di valido aiuto alla ragione. A suo modo e con i suoi pur fragili mezzi, anche la ragione può fare qualche cosa per la fede; e in effetti, secondo s. Tommaso, essa può rendere alla fede un triplice prezioso servizio: a) dimostra i “preamboli della fede” (esistenza di Dio, libertà umana e immortalità dell’anima); b) espone mediante esempi ed illustrazioni gli articoli della fede; c) respinge le obiezioni che si sollevano contro di essa (cfr. In Boethii de Trinitate, Prooem., q. 2, a. 3).

È interessante notare che s. Tommaso, pur facendo prevalentemente un lavoro teologico, non subordina la ragione alla fede né assume la fede come criterio di verità, come faceva Bonaventura, ma affianca la fede alla ragione come organo (lumen) integrativo della capacità conoscitiva naturale dell’uomo. L’organo normale della conoscenza umana è la ragione, la quale ha come criterio di verità l’evidenza immediata. La fede è un organo straordinario e tuttavia accolto razionalmente sulla base di credenziali valide, un organo che aiuta la ragione a raggiungere più facilmente, più sicuramente e più speditamente il suo ultimo traguardo, la Verità Suprema.

Del registro dell’armonia di cui si serve per leggere i rapporti tra fede e ragione s. Tommaso si serve anche per interpretare i rapporti tra filosofia e teologia, salvaguardando la loro rispettiva autonomia e allo stesso tempo facendo della filosofia un’importante ancella della teologia. Per s. Tommaso, come per Aristotele, la filosofia è una scienza, anzi la regina di tutte le scienze, in quanto studia i princìpi primi e le cause ultime di tutte le cose. Essa è sovrana rispetto a tutte le scienze, perché il suo oggetto è universalissimo e perché il suo metodo è sicurissimo, essendo rigorosamente dimostrativo. La filosofia gode di perfetta autonomia anche nei confronti della teologia. Infatti, scrive s. Tommaso nella Summa contra Gentiles, «diverso è l’aspetto (ratio) con cui sono considerate le cose dalla filosofia umana e dalla sacra dottrina (teologia). La filosofia le considera come tali (cioè come enti naturali) e perciò si danno diverse parti della filosofia secondo i diversi generi delle cose. Invece la fede non le considera come tali, per es. il fuoco come fuoco, ma in quanto esso (fuoco) rappresenta per es. l’altezza divina, e in qualche modo ha un rapporto con Dio stesso. E per questo fa altre considerazioni il filosofo e altre il fedele intorno alle creature. Il filosofo studia quello che conviene ad esse secondo la loro natura, come nel fuoco (studia) l’andare in alto, mentre il teologo studia nelle creature soltanto quello che loro conviene per rapporto a Dio, come l’essere create da Dio, l’essere a lui soggette e simili aspetti» (Contra Gentiles, II, c. 4).

Tra filosofia e teologia c’è diversità oltre che di oggetto anche di metodo. Mentre nella filosofia prevale il metodo induttivo (la resolutio), che procede dagli effetti alle cause (princìpi), nella teologia domina il metodo deduttivo (compositio), che va dai princìpi (i divini misteri) alle conclusioni teologiche. La ragione è abbastanza ovvia: la teologia può persino dispensarsi dal momento induttivo, perché i princìpi primi da cui essa procede sono gli articoli della fede (i misteri), cioè verità che sono fornite dalla Rivelazione e sono accolte per fede (Ú Mistero, III). Non così la filosofia, che è un procedimento esclusivamente razionale e perciò deve scoprire da sé e giustificare con i propri mezzi sia i princìpi di cui si avvale, sia delle verità che da essi derivano (In Boethii de Trinitate, lect. II, q. 1, a. 4).

Come vedremo più avanti, s. Tommaso ha operato in filosofia, ancor più che in teologia, innovazioni importanti e profonde, conferendo uno spirito cristiano alle categorie e alle dottrine dei filosofi greci e portando le loro speculazioni intorno all’essere a livelli ancora più alti.

In teologia merito grandissimo di s. Tommaso è di avere elaborato una nuova epistemologia teologica, tale da garantire uno statuto autenticamente scientifico alla teologia. Con tocco geniale egli è riuscito ad innestare la nozione aristotelica di scienza nell’ambito degli studi teologici. Contro la maggior parte dei suoi contemporanei che consideravano la teologia una semplice ars, l’Aquinate dimostra che la teologia è una vera e propria scienza, in quanto anche il procedimento della teologia è rigorosamente scientifico e il suo obiettivo è strettamente speculativo e non pratico, anche se la finalità pratica non è assente: «Essa sarà tuttavia più speculativa che pratica, in quanto è più interessata alle realtà divine che agli atti umani, dei quali tratta soltanto nella misura in cui è per loro tramite che l’uomo si orienta verso la perfetta conoscenza di Dio, in cui consiste l’eterna beatitudine divina» (Summa theologiae, I, q. 1, a. 4).

3. La teologia come scienza in s. Tommaso. Ma come può essere una scienza, dal momento che la teologia non possiede nessuna evidenza dei suoi princìpi primi, gli articoli della fede? Per risolvere questa difficile questione l’Aquinate ricorre alla distinzione aristotelica tra scienze architettoniche e subalterne. Le prime non dipendono da nessun’altra scienza, ma piuttosto stanno a capo di un gruppo di scienze, in quanto procedono da princìpi primi noti immediatamente. Mentre le seconde si basano su princìpi che devono mutuare da scienze superiori. «Vi è un doppio genere di scienze. Alcune di esse procedono da princìpi noti per naturale lume d’intelletto, come l’aritmetica e la geometria; altre procedono da princìpi conosciuti alla luce di una scienza superiore: per es. la prospettiva (perspectiva) si basa sui princìpi della geometria e la musica sui princìpi della aritmetica. E in tale maniera la sacra dottrina è scienza, in quanto poggia sui princìpi conosciuti per lume di una scienza superiore, cioè della scienza di Dio e dei beati. Quindi come la musica ammette i princìpi che le fornisce la matematica, così la sacra dottrina accetta i princìpi rivelati da Dio» (Summa theologiae, I, q. 1, a. 2).

Siccome deriva i suoi princìpi da una scienza superiore, la teologia non è una scienza architettonica, ma subalterna: la sua guida è la sapienza divina, ed è infatti una partecipazione di essa. «La sacra dottrina non mutua i suoi princìpi da nessuna scienza umana, ma dalla scienza divina, dalla quale, come da somma sapienza, è regolata ogni nostra cognizione» (ibidem, a. 6, ad 1um).

Il fatto di essere una scienza subalterna non svilisce il valore della teologia ma piuttosto l’accresce, visto che la scienza da cui essa dipende è «la scienza di Dio e dei beati». Così, secondo s. Tommaso, la teologia che procede dalla Rivelazione deve essere considerata come più elevata della teologia filosofica. Essa passa infatti da ciò che noi riteniamo mediante la fede, aderendo alla Verità Prima, ad altre cose, come da altrettanti princìpi ad altrettante conclusioni, essendo i princìpi ciò che noi riteniamo per fede (gli articoli di fede), e le conclusioni le verità che noi deduciamo. A questo proposito l’Aquinate ama ripetere che la sacra dottrina è una imitazione e come una impronta in noi della scienza di Dio stesso: come questa, che nella sua unità e semplicità abbraccia tutte le cose, essa possiede una unità superiore che le permette di trattare di cose molto diverse (cfr. ibidem, q. 1, a. 3, ad 2um). Come questa, inoltre, essa considera le creature, per così dire, dall’alto, a partire da Dio, in seguito ad una considerazione diretta di Dio (cfr. In Boethii de Trinitate, Prooem., q. 2, a. 2; Contra Gentiles, II, c. 4).

Se la si confronta alle altre scienze, la teologia è la più alta fra tutte le scienze speculative, per una duplice ragione: «per il fatto che è la più certa (propter certitudinem), in quanto trae la propria certezza dalla luce della scienza divina che non può ingannarsi; ma anche per il fatto che è quella il cui contenuto è il più elevato (secundum dignitatem), in quanto tale scienza tratta principalmente di realtà che per la loro elevatezza trascendono la ragione» (Summa theologiae, I, q. 1, a. 5). La sacra doctrina è anche la più alta tra le scienze pratiche, la cui dignità è proporzionata al proprio fine: «ora, il fine di questa dottrina, in quanto è pratica, è la beatitudine eterna, scopo al quale sono ordinati, come al loro fine ultimo, i fini di tutte le altre scienze pratiche. È dunque chiaro che sotto i due aspetti (speculativo e pratico) essa è la più degna di tutte» (ibidem).

Il fatto che la teologia utilizzi le altre scienze, in particolare la filosofia, non comporta nessuna superiorità di queste nei suoi confronti ma prova piuttosto il loro carattere strumentale, “ancillare”. La teologia le utilizza non solo per sua insufficienza, ma a causa della debolezza del nostro spirito: praticando le conoscenze elaborate dalle altre scienze, esso può avviarsi con maggiore facilità verso le realtà che questa disciplina comunica e che superano la ragione (cfr. ibidem, ad 2um). Così mentre un certo atteggiamento di sufficienza teologica urterebbe il filosofo, s. Tommaso lo invita piuttosto alla collaborazione, e richiama la legge della manuductio (una espressione che egli predilige, suggerita da s. Paolo, Rm 1,20) che impone di passare attraverso il visibile per salire all’invisibile, ed è la stessa legge che regolamenta la nostra conoscenza sia dell’Incarnazione sia della creazione.

La maggiore difficoltà che si può sollevare contro il carattere “scientifico” della teologia, è che la scienza si occupa sempre dell’universale e del necessario, invece la teologia tratta di eventi particolari e contingenti (cioè storici): «la sacra dottrina — riconosce l’Aquinate — si occupa di particolarità (de singularibus) come delle gesta di Abramo, di Isacco e di Giacobbe»; dunque non le spetterebbe il titolo di “scienza” (Summa theologiae, I, q. 1, a. 2, ob. 2). Non potendo negare la forza dell’obiezione, s. Tommaso risponde attenuando l’importanza dei fatti (singularia) in questione: «Essi non sono l’oggetto principale della sacra doctrina e sono accolti al suo interno solo quali esempi di condotta, come accade nelle scienze morali, oppure per garantire l’autorità di coloro che ci trasmettono la rivelazione divina» (ibidem, a. 2, ad 2um). Come nota J. P. Torrell, benché «valida sul piano che le è proprio — quello dell’obiezione 2, che evocava le gesta dei patriarchi —, questa risposta lo è molto meno se si pensa all’Incarnazione del Verbo e a tutto ciò che la concerne, fatto eminentemente “storico” e singolare fra tutti gli altri, e di cui non si può certo dire che sia oggetto “secondario” per la considerazione del teologo» (Storia della teologia nel medioevo, Casale Monferrato 1996, vol. II, p. 884).

Di fatto nell’epistemologia teologica di s. Tommaso il problema non esiste. Perché mentre nella epistemologia aristotelica il singolare non gode di nessuna evidenza e pertanto scientia non est de singularibus, viceversa nella epistemologia tommasiana, che concepisce la teologia come una partecipazione della scienza divina, grazie alla divina rivelazione, essa può avere una conoscenza certa ed infallibile anche dei singolari contingenti, di cui Dio ha perfetta conoscenza. È però evidente che la teologia è inferiore alla scienza di Dio e dei beati, perché sono nettamente distinti il lumen gloriae che permette la visione beatifica e il lumen fidei che consente e regola il lavoro del teologo (cfr. Summa theologiae, I, q. 1, a. 2, resp.).

In breve, le grandi verità su cui il teologo è chiamato a meditare «sono quelle della cui visione godremo nella vita eterna e per mezzo delle quali siamo guidati verso la vita eterna. Due cose saranno allora offerte alla nostra contemplazione: il segreto della divinità, la cui visione ci renderà beati; e il mistero dell’umanità di Cristo, che «ci consente l’accesso alla gloria dei figli di Dio (cfr. Rm 3,2). Ciò è d’altronde conforme alle parole di s. Giovanni (cfr. Gv 17,3): “Questa è infatti la vita eterna, che conoscano te, il solo Dio vero, e colui che tu hai inviato, Gesù Cristo”» (ibidem, a. 8).

Da quanto siamo andati dicendo appare chiaro che, inserendo la teologia nel paradigma epistemologico di Aristotele, s. Tommaso ha operato notevoli adattamenti, però lo ha fatto mantenendo sempre fermo il principio che la scienza è una cognitio rei per causas (una conoscenza delle cose a partire dalle loro cause) e che le cause sono i princìpi primi. Si tratta pertanto di una trasposizione analogica: la cosa di cui si parla è secundum quid eadem, simpliciter diversa.

 

IV. Il ruolo della ragione e della filosofia

Fin qui abbiamo illustrato il pensiero di s. Tommaso sui rapporti tra fede e ragione, tra scienza (filosofia) e teologia. Ora passiamo a vedere quale impiego egli fa della filosofia nel suo lavoro teologico e come, a tal fine, egli rinnovi profondamente la stessa filosofia.

Il ruolo che s. Tommaso assegna alla filosofia nella elaborazione della sacra doctrina è fondamentale. La filosofia è l’orizzonte razionale che circonda la teologia da tutte le parti; precede e segue le verità di fede e apre varchi di intelligibilità con similitudini appropriate. La filosofia fornisce alla teologia uno schema di razionalità per ordinare gli articoli della fede, per interpretarli e per esprimerli. Pertanto nella Summa theologiae e in tutte le altre opere teologiche egli non assume dalla filosofia soltanto il metodo sillogistico e certe similitudini, ma tutto il linguaggio tecnico con cui cerca di dare una veste scientifica alle verità di fede.

Ma quale filosofia assume s. Tommaso per compiere questo lavoro? A tutt’oggi si incontrano autori i quali affermano che nella sua speculazione teologica egli assume l’apparato filosofico aristotelico (cfr. per es. Vagaggini, Teologia, in NDT, pp. 1620-1622). Ma questa affermazione è vera soltanto a metà. È vero che s. Tommaso sfrutta molti concetti di origine aristotelica, come materia e forma, atto e potenza, generazione e corruzione delle forme, le quattro cause, ecc. Ma un’esegesi tomistica più recente — con Gilson, Fabro, Maritain, De Finance ecc. — ha mostrato che l’Angelico ha costruito un sistema filosofico originale, partendo dal concetto di essere come actus anzi come actualitas omnium actuum, grazie al quale tutte le categorie aristoteliche ricevono una transignificazione.

Ma c’è anche un altro fatto importante da tenere presente quando si considera lo strumento filosofico che l’Angelico adopera nella sua riflessione teologica: è uno strumento filosofico, per fare della teologia cristiana, messo a punto appositamente da un autore che vive profondamente la sua fede. E così, sia per la finalità per cui viene elaborata, sia per la mentalità imbevuta di fede dell’autore che la produce, la filosofia di s. Tommaso acquista uno spessore cristiano considerevole.

Questo appare evidente nelle dottrine su Dio, sulla creazione, sulla provvidenza, sulla libertà, sul male, sull’anima umana, sugli angeli. Ma lo si può constatare anche nella redifinizione di alcuni termini fondamentali del linguaggio metafisico, come la nozione di esse ipsum subsistens ed il concetto di persona.

S. Tommaso afferma che l’espressione esse ipsum subsistens è quella che definisce meglio di qualsiasi altra l’essenza di Dio, infatti non si può applicare a nessun’altra realtà. Eppure questa identificazione era sfuggita persino ai massimi filosofi greci (Socrate, Platone, Aristotele e Plotino), e questo sia per una inadeguata idea dell’essere, sia per una lacunosa e falsa idea di Dio. L’Aquinate può invece tranquillamente affermare l’identità tra l’essere e Dio, anzitutto perché si è reso conto, meglio di qualsiasi altro filosofo, che alla base di qualsiasi realtà e di qualsiasi perfezione sta l’essere, e, in secondo luogo, perché di questa verità trova chiara conferma nella Sacra Scrittura, là dove Dio stesso rivela a Mosè il suo nome, dicendo: «Io sono colui che è» (Es 3,14). Partendo dalla Parola di Dio, l’Aquinate argomenta che l’espressione “Colui che è”, «è il nome più appropriato di Dio per tre motivi. Prima di tutto per il suo significato. Infatti non esprime già una qualche forma particolare di essere, ma lo stesso essere [...]. Secondo, per la sua universalità. Tutti gli altri nomi o sono meno vasti ed universali o, se combinano con esso, vi aggiungono, secondo la nostra maniera di concepire, qualche cosa, che in certo modo lo qualifica e lo restringe [...]. Invece questo nome Colui che è non determina nessun modo di essere, ma conserva la sua indeterminatezza rispetto a tutti i modi di essere; perciò esprime lo stesso oceano infinito di sostanza. Terzo, per la modalità inclusa nel suo significato. Indica infatti l’essere al presente, e ciò si dice in modo propriissimo di Dio, il cui essere, come afferma sant’Agostino, non conosce né passato né futuro» (Summa theologiae, I, q. 13, a. 11).

Non meno evidente è la fecondità dello sposalizio tra ragione filosofica e fede cristiana nell’uso del termine “persona”. Sappiamo che la filosofia greca, ignorando la grandezza del singolo, assegnava al termine persona un significato banale, quello di maschera; mentre la Scrittura non possedeva un termine tecnico per esprimere le verità della grandezza e nobiltà del singolo essere razionale. Fu grazie alle acute osservazioni di Tertulliano, Atanasio, Agostino, Boezio e dello stesso s. Tommaso, che il termine “persona” è passato gradualmente a significare il concetto di una realtà che possiede la massima dignità, di ciò che, come dice s. Tommaso, «è più perfetto nell’universo». Ecco come l’Aquinate giustifica l’uso del termine greco “ipostasi”, che corrisponde a quello latino persona: «Sebbene nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento non sia applicato a Dio il nome persona, tuttavia ciò che è indicato da quel nome vi è affermato di Dio in molte maniere, cioè che egli è ente per sé, in grado sommo, e perfettissimamente intelligente. Se poi, parlando di Dio, non si potessero usare se non quelle parole che sono usate dalla Scrittura, ne verrebbe che nessuno potrebbe parlare di lui in una lingua diversa da quella in cui originariamente furono tramandati i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento. Ma la necessità di disputare con gli eretici spinse a trovare nuovi vocaboli espressivi dell’antica fede. E non c’è motivo di rifuggire da questa novità, poiché non è cosa profana, dal momento che non discorda dal senso della Scrittura» (Summa theologiae, I, q. 29, a. 3, ad 1um). D’altronde l’applicazione del termine “persona” a Dio è perfettamente legittima, perché «persona significa quanto di più nobile c’è in tutto l’universo, cioè il sussistente di natura razionale. Per questo, dovendosi attribuire a Dio tutto ciò che importa perfezione, perché nella sua essenza contiene tutte le perfezioni, è conveniente che gli si attribuisca anche il nome di persona. Tuttavia non nel modo che si attribuisce alle creature ma in maniera più eccellente, come si fa con gli altri nomi da noi imposti alle creature ed applicati a Dio, come si è dimostrato parlando dei nomi divini» (ibidem, a. 3).

Applicando le categorie ontologiche e metafisiche ai misteri cristiani, s. Tommaso non li ha profanati, ontologizzandoli, come è stato affermato da alcuni suoi critici, ma le ha nobilitate ed elevate mettendole al servizio di queste nuove realtà. Infatti, le cose non sono al servizio del linguaggio, ma il linguaggio al servizio delle cose. E mediante il gioco della metafora e dell’analogia il linguaggio può servire a molte cose e a molti livelli di realtà. Qualsiasi linguaggio umano è inadeguato a parlare dei divini misteri; ma quello ontologico è il meno inadeguato ed è anzi indispensabile per parlare dei misteri di Dio, della Trinità, della creazione, della Incarnazione, della grazia. Ma come non si stanca di ripetere s. Tommaso, quando si parla dei divini misteri sia il linguaggio ontologico, sia qualsiasi altro linguaggio, va interpretato secondo i criteri dell’analogia.

 

V. Il principio tommasiano dell’analogia

La analogia è una delle dottrine più caratteristiche del pensiero tommasiano, tanto che si può affermare che il tomismo è il sistema dell’analogia, mentre lo scotismo, il suarezianesimo, lo spinozismo, l’hegelismo sono sistemi dell’univocità.

In un’importante questione della Summa theologiae (I, q. 13), s. Tommaso dimostra che i nomi di cui noi ci serviamo per parlare di Dio non sono né univoci né equivoci ma analoghi. Ora, che cosa si intende per analogia? S. Tommaso lo spiega chiaramente nel De principiis naturae. Ecco il testo: «Si deve sapere che un termine si può predicare di molte cose in tre modi: univocamente, equivocamente e analogicamente. Si predica univocamente, quando si ha identità di nome e di concetto (secundum idem nomen et secundum eandem rationem), come quando si predica “animale” dell’uomo e dell’asino. L’uno e l’altro sono infatti animali. Si predica equivocamente, quando il nome è lo stesso e il concetto è diverso (secundum idem nomen et secundum diversam rationem) [...].  Si dice infine che un termine si predica analogicamente, se si predica di molte cose i cui concetti e definizioni sono diversi ma si riferiscono ad una stessa realtà (rationes et definitiones sunt diversae, sed attribuuntur uni alicui eidem). Per es., “sano” si dice del corpo dell’animale, dell’urina e della bevanda, ma non secondo un significato completamente identico in tutt’e tre i casi» (De principiis naturae, c. 6, nn. 366-367).

Ciò che caratterizza l’analogia è una certa comunanza di signifcato tra i soggetti a cui il termine viene applicato, e allo stesso tempo una considerevole diversità; anzi la diversità è più forte della somiglianza: minime similis et maxime dissimilis. Ci sono però diversi tipi di analogia. Già Aristotele distingueva una analogia di proporzionalità ed un’analogia di attribuzione. Questa divisione è ripresa anche da s. Tommaso, il quale però menziona anche altri tipi di analogia, che gli studiosi hanno variamente classificato, andando da un minimo di due (McInerny, 1999) ad un massimo di dodici (Klubertanz, 1960). La classificazione più corretta sembra quella che suddivide l’analogia di proporzionalità in propria e metaforica, e quella di attribuzione in intrinseca ed estrinseca.

Quanto al valore dell’analogia, s. Tommaso la ritiene indispensabile sia per la metafisica sia per la  teologia: per la metafisica, perché è il solo criterio che consente di determinare il significato dei concetti fondamentali di questa disciplina: ente, essere, atto, potenza, natura, sostanza, causa, forma, qualità, principio, relazione ecc.; per la teologia, perché l’analogia è l’unico modo di intendere rettamente il significato dei nomi divini.

Tra gli studiosi del Dottore Angelico c’è disparità di opinione riguardo al tipo di analogia che meglio interpreta il significato dei nomi divini. Il Gaetano (1468-1534) ritiene più adatta l’analogia di proporzionalità; invece Suárez (1548-1617), Gilson, Fabro ed altri studiosi recenti hanno mostrato che questo non corrisponde affatto al pensiero dell’Angelico che fa un uso molto raro dell’espressione analogia proportionalitatis, mentre si avvale regolarmente della formula analogia secundum prius et posterius, che corrisponde all’analogia di attribuzione, e si tratta indubbiamente dell’attribuzione intrinseca e non di quella estrinseca, perché soltanto la prima conduce a qualche conoscenza effettiva di Dio (Ú Analogia, II).

Le applicazioni più importanti della dottrina dell’analogia riguardano il linguaggio teologico. È con questa dottrina che s. Tommaso trova una soluzione adeguata per il problema del senso e del valore del linguaggio che l’uomo adopera per parlare di Dio, problema che nel medioevo andava sotto il nome di “problema dei nomi di Dio” o “nomi divini”, un problema arduo, già attentamente discusso in tutti i suoi aspetti dallo Pseudo-Dionigi, nel suo De divinis nominibus, opera di cui lo stesso s. Tommaso ha proposto un commento esemplare.

Con l’analogia il Dottore Angelico respinge allo stesso tempo sia la teoria di Mosè Maimonide (1135-1204) che, troppo scrupoloso nel difendere la trascendenza di Dio, professava l’equivocità dei nomi divini, sia la tesi di Duns Scoto (1265 ca.-1308) che sosterrà una univocità iniziale di tutti i termini e concetti che l’uomo applica a Dio. Ecco il testo magistrale della Summa theologiae in cui l’Angelico espone la dottrina dell’analogia del linguaggio teologico: «È impossibile che alcuna cosa si predichi di Dio e delle creature univocamente. Poiché ogni effetto, che non è proporzionato alla potenza della causa agente, ritrae una somiglianza dell’agente non secondo la stessa natura, ma imperfettamente (e tale è il caso delle creature rispetto a Dio) [...]. Quindi è chiaro che il termine sapiente si dice di Dio e dell’uomo non secondo l’identico concetto (formale). E così di tutti gli altri nomi. Perciò nessun nome si attribuisce in senso univoco a Dio e alle creature. Ma neanche nel senso del tutto equivoco, come alcuni hanno affermato. Perché in tal modo nulla si potrebbe conoscere o dimostrare intorno a Dio partendo dalle creature; ma si cadrebbe continuamente nel sofisma chiamato “equivocazione” [...]. Si deve dunque concludere che tali termini si affermano di Dio e delle creature secondo analogia (secundum analogiam) cioè proporzione (proportionem) [...]. E questo modo di comunanza sta in mezzo tra la pura equivocità e la semplice univocità, perché nei nomi detti per analogia non vi è una nozione unica (una ratio) come negli univoci né totalmente diversa come negli equivoci; ma il nome che analogamente si applica a più soggetti significa diverse proporzioni (relazioni) rispetto a una medesima cosa; così sano detto dell’orina, indica il segno della sanità, detto della medicina, significa invece la causa della stessa sanità» (I, q. 13, a. 5).

Il criterio dell’analogia di attribuzione intrinseca (come pure della analogia di proporzionalità propria) non vale però per tutti i nomi divini ma soltanto per quelli che designano “perfezioni semplici” (che corrispondono alle perfezioni trascendentali, che sono quelle che prescindono dallo spazio, dal tempo e dalla materia, per es. essere bontà, verità, potenza, bellezza, sapienza ecc.), non per le “perfezioni miste” (come parlare, sentire, camminare, muoversi ecc.) che sono legate alla materia. Ora, il linguaggio teologico abbonda di espressioni antropomorfiche, che applicano a Dio qualità, azioni, passioni umane. Si dice che Dio parla, ascolta, si commuove, si adira, castiga, premia ecc. Questo linguaggio ha valore metaforico e perciò, secondo s. Tommaso, va interpretato secondo l’analogia di attribuzione estrinseca oppure di proporzionalità metaforica.

C’è un’ultima importante precisazione che s. Tommaso ha cura di fare per determinare meglio il senso dei nomi divini, che vale anche per i nomi che si riferiscono a perfezioni semplici: è la distinzione tra la res significata e il modus significandi, tra ciò che si dice e il modo di dire, oppure tra res praedicata e modus praedicandi. Per res praedicata si intende la perfezione o qualità indicata da un nome; per modus praedicandi si intende il modo secondo cui tale perfezione si realizza, modo che viene connotato o consignificato dallo stesso nome che indica la perfezione. Per es. il nome “sensazione” esprime allo stesso tempo la perfezione della conoscenza (res praedicata) nonché il modo secondo cui tale conoscenza si realizza, ossia mediante i sensi (modus operandi).

Applicata ai nomi divini questa importante distinzione chiarisce che anche i nomi di perfezioni semplici sono predicati propriamente e direttamente di Dio solo secondo la res praedicata ma non secondo il modus praedicandi. Così il nome “sapiente” si applica propriamente a Dio quanto alla perfezione del conoscere indicata dal termine “sapiente”, ma non quanto alla modalità finita (di una qualità limitata ed accidentale) che viene connotata da tale termine. Anche i nostri concetti più elevati, a causa della loro origine, mantengono sempre un riferimento implicito ai modi limitati, dai quali possono essere affrancati solo imperfettamente. I concetti umani positivi non significano mai il modo divino delle perfezioni che noi riconosciamo e attribuiamo a Dio. Per questa ragione essi possono essere sempre esclusi da Dio. Ed è questo il compito della via negativa, che fa parte dell’intero processo analogico (insieme alla via positiva e alla via eminenziale).

Da quanto siamo andati dicendo risulta che le dottrina tommasiana dell’analogia soddisfa al duplice intento: di salvaguardare, da una parte, una certa — per quanto minima — conoscenza di Dio; e dall’altra, di preservare intatta la sua assoluta trascendenza, la «fitta nebbia in cui Dio abita» (In I Sent., d. 8, q. 1, a. 1 ad 4um). L’analogia dà un senso al linguaggio teologico — un linguaggio che si trova «alle frontiere del linguaggio» (Van Buren) —, ma un senso che vale più come freccia che come immagine. Pertanto l’analogia non va intesa come ingenua rassomiglianza tra Dio e le creature, bensì, come vuole il concilio Lateranense IV (1215), come minima somiglianza là dove regna l’infinita differenza qualitativa che separa Dio dalle sue creature (cfr. DH 806).

La dottrina tommasiana dell’analogia ha valore perenne. Studiosi contemporanei del linguaggio religioso (Ramsey, Ferré, Mascall, Balthasar, Bochenski ecc.) hanno mostrato che essa rappresenta la migliore risposta ai positivisti, agli esistenzialisti, agli analisti del linguaggio, i quali pretendono che il linguaggio teologico sia privo di qualsiasi significato oggettivo e che abbia soltanto un valore soggettivo ed emotivo. Invece s. Tommaso, con la dottrina della analogia, fa vedere che esso possiede un significato oggettivo, per quanto modesto, povero e assai limitato.

Il principio dell’analogia è di capitale importanza per mantenere distinti il sapere metafisico e teologico da una parte, e il sapere scientifico dall’altra. Infatti i concetti scientifici sono quasi sempre univoci, mentre quelli metafisici e teologici sono analoghi.

 

VI. Lo “spirito scientifico” di Tommaso d’Aquino

Il secolo di s. Tommaso, vale a dire il secolo XIII, non fece soltanto segnare l’apogeo della teologia e della filosofia cristiana, ma diede anche il via al primo sviluppo delle scienze che tentano di spiegare il corso ordinario di questo mondo visibile in chiave naturale. Anche se è appena iniziale l’impiego del metodo sperimentale nella conoscenza della natura e mancano gli strumenti per l’applicazione della scienza al cambiamento e all’impiego delle risorse del creato, tuttavia è ormai acquisito il valore della ragione nello studio della realtà concreta e nella spiegazione del mondo. Per questo vengono accolte con favore nei nuovi ambienti culturali le opere di Aristotele, diffuse prima dagli arabi e poi dai nuovi traduttori cristiani. In esse infatti si scoprono quel senso della natura e quel realismo nei quali molti trovano dei preziosi strumenti di lavoro e anzi delle basi ideali per il nuovo impianto della speculazione filosofica e della ricerca scientifica.

Alla riscoperta di Aristotele, scienziato e filosofo, diedero un apporto decisivo Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, il primo con le sue parafrasi e il secondo con i suoi commenti dell’intero corpus aristotelicum. L’enciclopedico Tommaso era interessato non soltanto ad Aristotele filosofo ma anche, e non meno, ad Aristotele naturalista. Ora, «che in un’epoca nella quale la teologia dominava incontrastata, mentre la filosofia era considerata ancilla theologiae, il principe dei teologi abbia dedicato somma attenzione ad Aristotele naturalista, anche se non ha dato frutti immediati, è stato un fatto della massima importanza, per quanto concerne l’orientamento dello spirito umano. Da allora in poi nessuno oserà mettere in dubbio la dignità delle scienze. E questo rinnovato amore della scienza darà i suoi frutti a suo tempo [...]. Dobbiamo riconoscere che s. Tommaso, inserendo Aristotele nella cultura occidentale, non ha contribuito immediatamente e direttamente all’incremento delle conoscenze scientifiche. Eppure ha fatto molto di più. Ha contribuito più d’ogni altro del suo secolo a far rinascere nell’uomo occidentale l’amore allo studio delle scienze della natura. Per questo e solo per questo, possiamo ritenere che nella storia del pensiero scientifico gli competa un posto onorevolissimo, probabilmente non inferiore a quello occupato da Galileo e da Newton» (G. Galli, Cosmologia aristotelica e cosmologie moderne, in “Tommaso d’Aquino nel suo VII centenario”, vol. IX, Napoli 1978, pp. 219-221).

S. Tommaso era dotato di un raffinato “spirito scientifico”. Aveva un’idea molto chiara di ciò che è, e di ciò che  fa la scienza, del suo metodo, delle sue possibilità e della sua fallibilità. Egli distingueva la scienza sia dalla filosofia sia dalla teologia. La scienza si occupa principalmente dei fatti e non dei perché ultimi, mentre la metafisica tratta principalmente dei perché, più precisamente delle cause ultime. La scienza lavora con il lume della sola ragione; mentre la teologia si avvale anche del lume della fede. Come abbiamo visto, questa distinzione non induce l’Aquinate a sostenere la dottrina della doppia verità (vedi supra, III.1), ma di un doppio ordine di verità, un ordine naturale e un ordine soprannaturale. Tra i due non ci può essere contraddizione. Così «è impossibile che ciò che appartiene alla filosofia (scienza) contraddica a ciò che appartiene alla fede [...]. Se nei detti dei filosofi si trova alcunché di contrario alla fede, ciò non è propriamente filosofia bensì un abuso della filosofia dovuto a qualche carenza della ragione» (In Boethii de Trinitate, Prooem., q. 2, a. 3).

Proprio perché s. Tommaso era consapevole dei limiti e della fallibilità della razionalità scientifica, egli non idolatrava nessuna teoria scientifica, neppure quelle del suo stimatissimo Aristotele. È stato dimostrato da vari studiosi (cfr. ad es. J. De Tonquedec, Questions de cosmologie e de physique chez Aristote et saint Thomas d’Aquin, Paris 1950, pp. 7-71; Th. Litt, Les corps célestes dans l’univers de saint Thomas d’Aquin, Louvain-Paris 1963, pp. 342-366) che s. Tommaso conosceva bene i sistemi astronomici dell’antichità e del Medioevo e che, pur accettando sostanzialmente il geocentrismo aristotelico-tolemaico, si mostrava molto critico nei confronti di tutti i sistemi astronomici, incluso quello di Aristotele, mettendo in questione il valore epistemologico di tali sistemi. S. Tommaso dice che le maggiori difficoltà negli studi di astronomia derivano dal fatto che si tratta di fenomeni difficilmente accessibili: «Delle cose che sono lontane da noi non possiamo ottenere giudizi certi. Ora i corpi celesti non sono soltanto lontani da noi a causa della distanza spaziale, ma ancora di più a motivo del fatto che sono assai rari gli accidenti che cadono sotto l’osservazione dei sensi; mentre a noi è connaturale giungere alla conoscenza della natura di una cosa attraverso gli accidenti» (In De coelo et mundo, II, lect. 4, n. 332).

Nel commento all’opera De coelo et mundo (1272) qui appena citata, dopo una precisa esposizione dei sistemi astronomici di Eudosso, Aristotele, Tolomeo, e di altri astronomi, s. Tommaso aggiunge la seguente importantissima osservazione: «Non è affatto necessario che le loro congetture (suppositiones) siano vere. Infatti ancorché in base a tali congetture, i fenomeni siano salvi (apparentia salvarentur), non diviene necessario affermare che tali congetture sono vere, perché forse secondo qualche altro metodo che gli uomini non hanno ancora afferrato, gli stessi fenomeni che riguardano le stelle potrebbero essere salvati lo stesso» (ibidem, lect. 17, n. 451). Questa annotazione di Tommaso è di grande interesse e va giudicata alla luce del fatto che nella sua epoca, e fino all’epoca di Galileo, l’astronomia era considerata parte della matematica e non della fisica. Quanto affermato da Tommaso riguarda tutti i sistemi astronomici in generale, incluso quello che lui stesso sottoscriveva, il geocentrismo. Infatti per l’Aquinate la dimostrazione astronomica si fonda su ragioni che sono insufficienti e incomplete in rapporto alla vera e a noi sconosciuta totalità del mondo (quanto oggi chiameremmo, con termine contemporaneo, cosmologia). Una posizione di umiltà intellettuale che, servatis servandis, si ritroverà anche in Galileo, almeno nell’interpretazione che ne darà il De Santillana: «con tutta probabilità, la scienza del cosmo resterà sempre qualcosa di congetturale, perché noi non potremo mai conoscere l’intero universo nel suo insieme» (G. De Santillana, Le procès de Galilée, Paris 1955, p. 51).

Il motto di Tommaso d’Aquino era cercare la verità e non le opinioni degli scienziati e dei filosofi: «Studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum» (In De coelo et mundo, I, lect. 22, n. 228). E così, pur avendo un concetto altissimo e una grandissima venerazione per Aristotele, tanto da diventare un convinto assertore della sostenibilità sul piano meramente scientifico della teoria aristotelica dell’eternità del mondo, egli non esita a sollevare alcune riserve nei confronti della cosmologia aristotelica per quanto concerne la staticità della terra. Egli è del parere che non ci sia alcun legame necessario tra il geocentrismo e la staticità del nostro pianeta, che non essendo un corpo celeste ma materiale, può benissimo essere soggetto al movimento. Pertanto s. Tommaso ritiene che la teoria della rotazione della terra possa essere condivisa. Su questo punto egli può essere considerato un precursore non soltanto di Giovanni Buridano (1290-1358 ca.) e di Nicola di Oresme (1325 ca.-1382), ma dello stesso Copernico (cfr. Veres, 1978).

Negli ultimi decenni non sono mancati studi (vedi Bibliografia) che hanno riproposto l’attualità del pensiero filosofico di Tommaso ai fini di una corretta impostazione del rapporto fra fede cristiana e pensiero scientifico, anche in relazione a questioni suscitate oggi dalle scienze naturali.

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