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Relatività, Teoria della

Anno di redazione: 
2002
Alberto Strumia

I. La teoria della relatività ristretta - II. La teoria della relatività generale - III. La ricerca dell’unificazione - IV. Questioni scientifico-filosofiche.

Tra i fisici del XX secolo Albert Einstein (1879-1955) è certamente quello che ha maggiormente determinato l’immagine dello scienziato per antonomasia, sia presso i colleghi fisici che presso la gente comune, fino a diventare un vero e proprio mito. Chi non conosce, magari anche senza comprenderla del tutto, la formula E = mc2? E questa popolarità non è di certo dovuto soltanto all’immagine un po’ buffa e cordiale che vediamo nelle sue foto più famose (capelli lunghi e arruffati, baffoni, sguardo acuto insieme un po’ trasognato e volto che ispira simpatia…), ma soprattutto all’innovazione che la «teoria della relatività» ha introdotto nel modo di fare fisica e che ha creato in tutti la convinzione di essere di fronte ad un vero genio, tra i più grandi che la scienza moderna abbia avuto. Anche se il premio Nobel gli fu attribuito nel 1905 (lo stesso anno in cui fu pubblicata la teoria della relatività “ristretta”) per sua la teoria sull’effetto fotoelettrico — da lui interpretato in termini di quanti di luce (fotoni) di energia proporzionale alla frequenza della radiazione — e non per la teoria della relatività, il suo nome rimarrà sempre legato inseparabilmente e principalmente a quest’ultima. E quando si dice “relatività” si dice una delle più belle sintesi scientifiche recenti, che ha permesso lo sviluppo di un’intera cosmologia, che ha rivoluzionato i concetti di tempo, di spazio, di materia, anche dal punto di vista filosofico oltre che scientifico, e che insieme alla meccanica quantistica rappresenta il pilastro portante di tutta la fisica come oggi la conosciamo. Ma la teoria della relatività ha avuto una ricaduta di notevole portata sia sulla cultura del XX secolo, che sull’immaginario collettivo, spesso attraverso indebite alterazioni o interpretazioni non del tutto corrette. Ad essa si è ascritta, ad esempio, la responsabilità (per altri il merito) di aver favorito e poi consolidato il relativismo come concezione filosofica tesa a negare l’esistenza di una verità stabile o di valori assoluti (ritroviamo sorprendentemente questa motivazione fra le ragioni con cui la rivista internazionale Time attribuiva ad Einstein il titolo di personaggio più importante del XX secolo). Vi sono poi le sue estrapolazioni fantascientifiche come i “viaggi nel tempo”, e quelle ispirate ai suoi paradossi (a tutti noto quello “dei due gemelli”) ed è forse proprio questo ciò che l’ha resa più popolare di tutte le altre teorie scientifiche.

La teoria della relatività si è sviluppata secondo due tappe successive che costituiscono, anche dal punto di vista epistemologico, due teorie vere e proprie: la «teoria della relatività ristretta» (o “speciale”, o “particolare”) e la «teoria della relatività generale». La seconda, tuttavia, non può essere intesa come una semplice estensione della prima: la costruzione delle due teorie, infatti, fu guidata da due “filosofie” e metodologie molto diverse, espressioni di una cammino di maturazione scientifica e filosofica del loro autore. Nelle considerazioni che seguono non ci occuperemo tanto di un’esposizione tecnica della “relatività” (per questo rimandiamo il lettore ai numerosi testi specialistici o divulgativi, vari dei quali scritti dal suo stesso Autore: vedi Bibliografia), quanto di comprenderne il tracciato epistemologico nelle sue linee essenziali, riferendoci prima alla teoria della relatività ristretta, poi a quella generale e infine sviluppando alcune considerazioni sulle problematiche scientifico-filosofiche che ne risultano coinvolte.

 

I. La teoria della relatività ristretta

1. L’approccio fisico. La teoria della relatività ristretta (1905) nasce per un’esigenza che potremmo chiamare “sperimentale”: bisognava dare una spiegazione coerente e soddisfacente del risultato del celebre esperimento di Michelson-Morley (1881 e 1887), con il quale si era ripetutamente cercato di rivelare la composizione della velocità della luce con quella del moto di traslazione della terra attorno al sole (cfr. Pais, 1986, pp. 123-132). Secondo la cinematica “classica” le due velocità si sarebbero dovute sommare se la terra andava incontro alla sorgente luminosa, e sottrarre la rincorreva. E questo avrebbe permesso di misurare la velocità con la quale la terra si muoveva nello spazio assoluto, come concepito da Newton, e cioè rispetto all’“etere” che lo riempiva e attraverso il quale la luce viaggiava. Ma l’esperimento aveva rivelato, con un margine di errore di misura molto piccolo, come la velocità della luce nel vuoto fosse sempre identica a c = 3 x 108 m/sec, indipendentemente dal moto della terra.

Per trovare una spiegazione a questo stato di cose Einstein seguì una “metodologia” ben precisa, sulla base della quale i concetti della meccanica newtoniana dovevano essere riveduti (Meccanica, III). La “filosofia” che guida la relatività ristretta è considerata alla base di quello che fu chiamato l’“operazionismo” da Bridgman (1882-1961), secondo cui, nella fisica, devono entrare in gioco solo quelle grandezze che si possono definire in base al metodo con il quale possono essere osservate o misurate sperimentalmente. «Esaminiamo ciò che fece Einstein nella teoria particolare. In primo luogo egli riconobbe che il significato di un termine dev’essere cercato nelle operazioni che si compiono quando si applica quel termine. Se il termine è tale da potersi applicare a situazioni fisiche, come il termine di “lunghezza” o di “simultaneità”, allora il significato dev’essere cercato nelle operazioni con le quali si determina la lunghezza di oggetti fisici concreti, o nelle operazioni con le quali si stabilisce se due eventi fisici concreti sono o non sono simultanei. Questi concetti sono espressi chiaramente dal seguente passo di Einstein relativo alla discussione sulla simultaneità di due segnali luminosi: “Il concetto non esiste per il fisico, finché non gli sia possibile scoprire se esso sia o non sia soddisfatto in un caso reale. Ci è necessaria, quindi, una definizione di simultaneità capace di fornirci i mezzi con i quali, nel caso concreto, si possa decidere mediante l’esperienza se entrambi i segnali luminosi avvengono simultanemaente”» (P.W. Bridgman, Le teorie di Einstein e il punto di vista operativo, in Schilpp, 1958, p. 281).

Oltre a questa idea dell’operazionismo, alla base della relatività ristretta troviamo un’altra idea epistemologica che ne costituisce come un ampliamento: quella di assumere come principi, dai quali partire per l’elaborazione della teoria, proprio quei “fatti” che sembrano resistere ad ogni tentativo di falsificazione osservativa. Ecco che allora, proprio il “fatto” osservato che la velocità della luce nel vuoto non si compone con nessun’altra velocità (né quella della sorgente che la emette né quella dell’osservatore che la riceve, rispetto ad un ipotetico “etere” nel quale la luce viaggerebbe) diviene, in relatività, uno dei due pilastri su cui si fonda la teoria intera, il principio di “costanza della velocità della luce”, costante per antonomasia e perciò abitualmente indicata c. L’altro principio guida sarà il “principio di relatività”, già formulato da Galileo (1564-1642) e che Einstein estenderà, oltre che alla meccanica, anche ai fenomeni elettromagnetici e, più in generale, a tutte le leggi fisiche. A partire da questi due principi l’autore della relatività dedurrà facilmente, con una matematica elementare, le leggi di trasformazione cinematica — già ottenute da Voigt, Lorentz e Fitzgerald (cfr. Pais, 1986, p. 134), ma non comprese nella loro reale portata e soprattutto non adeguatamente spiegate dal punto di vista concettuale — e si sbarazzerà del residuo meccanicista con cui si ipotizzava l’etere come una sorta di mezzo elastico, che riempiva lo “spazio assoluto” di Newton (1642-1727), attraverso il quale si sarebbe propagata la luce (Newton, II). Come Einstein stesso spiega nelle sue Note autobiografiche: «Secondo le regole di connessione del tempo e delle coordinate spaziali degli eventi, usate nella fisica classica quando si passa da un sistema inerziale a un altro, le due ipotesi, 1) costanza della velocità della luce, 2) indipendenza della leggi (compresa quindi, in particolare, la legge di costanza della velocità della luce) dalla scelta del sistema inerziale (principio di relatività particolare), sono fra loro incompatibili (anche se entrambe, prese separatamente, si basano sull’esperienza). L’idea fondamentale su cui poggia la teoria della relatività particolare è questa: le ipotesi 1) e 2) sono fra loro compatibili solo se si postulano relazioni di nuovo tipo («trasformazioni di Lorentz») per la conversione delle coordinate e dei tempi degli eventi; il che […] non equivale affatto ad una semplice convenzione, ma implica certe ipotesi sul comportamento effettivo delle aste di misura e degli orologi in movimento, che l’esperienza può convalidare o confutare» (p. 30).

Le conseguenze di queste due semplici principi furono strabilianti e a prima vista incredibili. a) Dal punto di vista della cinematica, anzitutto la demolizione dei concetti newtoniani di spazio e di tempo “assoluti” come contenitori autonomi rispetto ai corpi e ai campi che in essi si muovono: lo spazio e il tempo vengono misurati in maniera diversa a seconda della velocità con cui si muovono i regoli e gli orologi, subendo una “contrazione delle lunghezze” e una “dilatazione del tempo”. Di conseguenza anche le velocità, se prossime a quella della luce non si sommano e sottraggono nel modo galileiano-newtoniano, ma in modo tale che la velocità della luce nel vuoto non possa mai essere superata. b) Dal punto di vista della dinamica, le conseguenze sono ancora più sorprendenti con la comparsa della famosa “equivalenza” tra massa ed energia contenuta nella formula più famosa della “relatività”: E = mc2. Secondo tale formula, la massa di una certa quantità di materia può essere, in opportune condizioni, trasformata in energia (e viceversa), il che è alla base del processo di produzione dell’ energia nucleare, la cui efficienza è stata interpetata con successo nei modelli teorici di produzione di energia delle stelle (Astronomia, III).

2. L’approccio geometrico. La relatività ristretta subì essa stessa una sorta di riconcetualizzazione quando Minkowski (1864-1909), che era stato uno dei «maestri eccellenti» di Einstein (cfr. Note autobiografiche, p. 9), ne diede una rappresentazione in uno spazio-tempo a quattro dimensioni (spazio di Minkowski), in cui il tempo rappresentava la quarta dimensione che veniva ad aggiungersi alle tre dimensioni dello spazio ordinario. «L’importante contributo di Minkowski alla teoria sta in questo: prima delle ricerche di Minkowski era necessario effettuare una trasformazione di Lorentz su una legge per accertarne l’invarianza rispetto a tali trasformazioni; egli invece riuscì a introdurre un formalismo tale che la forma matematica della legge garantisce di per sé l’invarianza della legge stessa rispetto alle trasformazioni di Lorentz. Creando un calcolo tensoriale tetradimensionale [cioè in quattro dimensioni], egli ottenne per lo spazio tetradimensionale ciò che il calcolo vettoriale ordinario aveva ottenuto per le tre dimensioni spaziali» (ibidem, p. 31). Le stesse equazioni dell’elettromagnetismo di Maxwell — che la relatività non aveva modificato essendo già corrette in partenza, a differenza della meccanica newtoniana che era stata modificata in quella relativistica — riscritte nel formalismo di Minkowski apparivano in tutta la loro compatta eleganza e simmetria, rendendo “visibile”, anche attraverso i simboli matematici, l’unificazione operata da Clerk Maxwell (1831-1879) tra elettricità e magnetismo in un unico campo elettromagnetico tensoriale.

Improvvisamente la fisica si era praticamente trasformata in geometria e la percezione intuitiva del moto e della sua dinamicità sembravano cristallizzarsi in un fissismo geometrico ideale — dal sapore un po’ platonico, cartesiano, e spinoziano — un po’ freddo forse, per quanto estremamente elegante e simmetrico. Da quel momento il ruolo della matematica nella fisica, e particolarmente della geometria in questo caso, prenderanno in certo senso il sopravvento rispetto al modo fino ad allora conosciuto di fare scienza, gettando le premesse per cominciare a concepire la teoria della relatività nella sua nuova forma “generale”.

 

II. La teoria della relatività generale

1. Dall’operazionismo al criterio di “perfezione interna”. La relatività generale (pubblicata nel 1916, anche se l’intuizione iniziale risale al 1908) nasce, di conseguenza, in una prospettiva ben diversa da quella dell’operazionismo iniziale dalla relatività ristretta: la teoria della gravitazione di Newton era più che soddisfacente di fronte ai dati sperimentali e le anomalie che presentavano alcune osservazioni, come, ad esempio, quella della precessione del perielio di Mercurio, non erano troppo preoccupanti e si potevano spiegare in qualche modo anche su base newtoniana. Ma l’epistemologia di Einstein era ormai diventata diversa da quella della relatività ristretta, come nota un po’ dispiaciuto Bridgman, teorico dell’operazionismo: «Einstein non riportò nella sua teoria della relatività generale la profondità e gli insegnamenti che egli stesso ci aveva dato con la sua teoria particolare» (Bridmgman, op. cit, in Schilpp, 1958, p. 281), ma si deve ben dire che ne portò di altri e non meno geniali; egli era alla ricerca di una teoria che soddisfacesse anche ad un criterio epistemologico interno di semplicità, di eleganza e unificazione. Il suo problema era diventato quello di trovare una spiegazione sempre più unificata di tutta la fisica, partendo dall’identificazione dei punti metodologicamente deboli, o risolti in maniera anche concettualmente e filosoficamente insoddisfacente, operando una critica costruttiva sul quadro scientifico che gli si presentava davanti. «Prima di iniziare una critica […] della fisica — osservava Einstein — è necessario premettere qualche considerazione generale sui principi in base ai quali è possibile criticare le teorie fisiche. Il primo principio è ovvio: la teoria non deve contraddire i fatti empirici. […] Il secondo principio non ha avuto per oggetto il rapporto tra teoria e materiale di osservazione, bensì le premesse della teoria stessa, o ciò che brevemente, se pur vagamente, potrebbe definirsi “naturalezza” o “semplicità logica” delle premesse (ossia dei concetti fondamentali e delle corrispondenti relazioni reciproche poste a base di essi). […] Il secondo principio, insomma, si può brevemente caratterizzare dicendo che si riferisce alla “perfezione interna” della teoria, mentre il primo si riferiva alla “conferma esterna”» (Note autobiografiche, p. 13).

Con la relatività generale e con la meccanica quantistica il peso dell’apparato matematico nella fisica diventa sempre più rilevante, meno intuitivo e tecnicamente più sofisticato (si richiedono strumenti non elementari come la geometria differenziale, che a partire dalla relatività si svilupperà enormemente, e l’analisi funzionale negli spazi di Hilbert per la meccanica quantistica): la fisica si distanzia dall’esperienza diretta e dal senso comune. «Quanto più i concetti e gli assiomi fondamentali si allontanano da ciò che è direttamente osservabile e quanto più difficile e laborioso diventa quindi il confronto delle implicazioni della teoria con i fatti» (ibidem, p. 15), tanto più acquista un rilievo sempre maggiore il criterio epistemologico della “perfezione interna”, nella messa a punto delle nuove teorie fisiche. Stava ormai affacciandosi il problema della ricerca degli “invarianti”, cioè di quelle grandezze che non cambiano con l’osservatore, delle “costanti” universali adimensionali e delle “simmetrie” nelle leggi naturali, che costituiscono una sorta di dato oggettivo alla base dell’universo e una guida per la nostra conoscenza di esso (Leggi naturali, II.3). Ciò che ancora era insoddisfacente nella relatività ristretta era il fatto che le leggi della dinamica del moto erano valide solo per una classe ristretta di osservatori (gli osservatori “inerziali” della meccanica newtoniana): una fisica ben formulata doveva presentare le sue leggi nella stessa forma rispetto a “qualunque osservatore” le prendesse in considerazione (covarianza). Era l’idea del “principio di relatività” che aveva guidato la costruzione della relatività ristretta e ora doveva essere spinta al massimo grado.

2. Dal principio di Mach al principio di equivalenza. Per realizzare questo progetto Einstein si ispirò a Mach (Meccanica, V.1) e alle sue considerazioni a proposito dell’inerzia in rapporto alla gravitazione: «Mach ritiene che in una teoria veramente razionale l’inerzia debba dipendere dalle interazioni fra le masse, esattamente come le altre forze di Newton»; e secondo Einstein «la critica di Mach è sostanzialmente sana» (Note autobiografiche, p. 16; cfr. anche Sciama, 1965, pp. 78-96)). Partendo dalle idee di Mach, opportunamente rivisitate e criticate, egli giunse alla formulazione del “principio di equivalenza” tra massa inerziale e massa gravitazionale, ovvero tra il campo gravitazionale e le “forze apparenti” che compaiono nei sistemi non inerziali. «Che la teoria della relatività particolare fosse solo il primo passo di uno sviluppo necessario, mi divenne perfettamente chiaro solo durante i tentativi fatti per rappresentare la gravitazione nell’ambito di questa teoria. […] Allora mi venne in mente questo: l’uguaglianza della massa inerte e di quella pesante, cioè l’indipendenza dell’accelerazione gravitazionale dalla natura di ciò che cade, può essere espressa come segue: in un campo gravitazionale (di piccola estensione spaziale) tutto accade come in uno spazio libero da gravitazione, purché vi si introduca, al posto di un “sistema inerziale”, un sistema di riferimento accelerato rispetto a un sistema inerziale» (Note autobiografiche, p. 34).

3. Dallo spazio piatto di Minkowski allo spazio curvo di Riemann. A questo punto della riflessione occorreva uno strumento matematico adatto per introdurre il principio di equivalenza entro la rappresentazione spazio-temporale a quattro dimensioni, in maniera tale da generalizzare lo spazio di Minkowski, della relatività ristretta, in un nuova struttura capace di includere anche la gravitazione. «L’uguaglianza della massa inerte e di quella pesante [cioè gravitazionale] porta quindi, in modo del tutto naturale, ad ammettere che l’esigenza fondamentale della teoria della relatività particolare (l’invarianza delle leggi rispetto alle trasformazioni di Lorentz) sia troppo limitata, cioè che occorra postulare un’invarianza delle leggi rispetto a trasformazioni non lineari delle coordinate, nel continuo tetradimensionale» (ibidem, p. 35). Questo passaggio conduce all’introduzione di uno spazio-tempo curvo basato sulla geometria non euclidea di Riemann.

Non entrando in ulteriori dettagli tecnici, ci limitiamo a sottolineare che farà così la sua comparsa nella fisica la “non linearità” delle equazioni, a causa della curvatura dello spazio-tempo, che ora non è più euclideo. Paragonato ad una superficie bidimensionale lo spazio non è più simile a un piano, ma piuttosto alla superficie di una sfera (spazio chiuso) o di una sella (spazio aperto). La relatività generale rappresenta la prima teoria di campo a fare uso sistematico di equazioni “non lineari”, quello stesso tipo di equazioni che, dopo alcuni decenni, si stanno dimostrando capaci di rivoluzionare l’intero statuto epistemologico delle scienze, con la comparsa del caos deterministico (Determinismo/indeterminismo, II.4) e della complessità.

 

III. La ricerca dell’unificazione

Il criterio della perfezione interna della teoria, inteso come criterio di “semplicità” (Bellezza, I.4, II.3) non poteva non essere che un criterio di “unificazione”. Se Keplero, Galileo e Newton avevano unificato la meccanica “celeste” e quella “terrestre”, Maxwell aveva unificato elettricità e magnetismo, un merito della relatività ristretta era stato, tra gli altri, quello di aver reso compatibili l’elettromagnetismo con la meccanica, correggendo quest’ultima. Ma ora la relatività generale aveva unificato la gravitazione e la dinamica del moto con la geometria dello spazio-tempo e aveva proposto la soluzione che appariva la più semplice per farlo. Non c’erano più da una parte i principi della meccanica e dall’altra le leggi della gravitazione (come per Newton) — o dell’elettromagnetismo (come per Maxwell) — ma un unico sistema di equazioni per il campo e per il moto, le equazioni di Einstein. «Tutte le teorie hanno finora sentito il bisogno di disporre, oltre che delle leggi di campo, di leggi particolari per il moto di entità materiali sotto l’influenza dei campi» (Note autobiografiche, p. 41), mentre nelle relatività generale «la legge del moto non deve (e non può) essere postulata indipendentemente», perché «essa è già implicitamente contenuta nella legge del campo gravitazionale» (ibidem).

L’epistemologia dell’unificazione non poteva non spingere le ricerche successive verso il tentativo di inserire anche il campo elettromagnetico in una teoria ulteriormente generalizzata, progetto che, però Einstein non riuscì a completare. Dopo la morte di Einstein (1955) l’obiettivo dell’unificazione è rimasto latente per un po’ nella fisica, fino a risvegliarsi, come un’eredità lasciata proprio dall’autore della “relatività” all’intera categoria dei fisici verso la fine del XX secolo (Leggi naturali, IV.2). L’intereresse per le teorie unificate della gravitazione e dell’elettromagnetismo in uno spazio-tempo a più di quattro dimensioni — sul modello di quella di Kaluza-Klein verso cui lo stesso Einstein manifestò una particolare attenzione — o in uno spazio con connessione affine a tensore metrico non simmetrico — che Einstein considerava la generalizzazione più naturale delle equazioni della gravitazione e riteneva avere «sufficiente probabilità di essere dimostrata valida, purché si dimostri la possibilità di descrivere in modo esaurientemente la realtà fisica sulla base del continuo» (Note autobiografiche, p. 49) — sono al centro anche delle ricerche più recenti. Ma il problema principale dell’unificazione è rimasto ancora quello di un’unificazione “concettuale”, oltre che tecnica, tra la “relatitivtà” e la meccanica quantistica. L’operazione compiuta da Paul A.M. Dirac (1902-1984) di combinare le due teorie, su base puramente tecnica, ha contribuito alla teoria quantistica dei campi, con grandi risultati dal punto di vista del potere previsionale della teoria, realizzando un potente strumento di calcolo. Ma si è finito, forse, per trovasi, un po’ come all’epoca dell’astronomia tolemaica, con uno strumento che consentiva di calcolare correttamente il moto dei corpi celesti, ma era uno strumento matematico più che una teoria fisica del mondo reale (Copernico, II.3). Oggi siamo ancora alla ricerca di una teoria unitaria, ma il quadro epistemologico sta cambiando. Se da un lato si sta perseguendo la strada dell’unificazione aperta dalla relatività e dalla teoria quantistica dei campi, oggi impegnata tra l’altro nell’impresa non facile di quantizzare la gravitazione, dall’altro lato, e contemporaneamente, ci si è imbattuti nel problema della “non linearità” — ormai inevitabile anche a causa della stessa relatività generale che l’ha introdotta per prima — con i suoi problemi di instabilità e caos deterministico e con la comparsa della complessità; e non sappiamo ancora quale sarà l’esito di tutte queste ricerche. La stessa matematica, strumento principe della fisica moderna, a partire da Cantor, Russell, Whitehead e Gödel sta lavorando sui suoi fondamenti e non pochi tra fisici, matematici e filosofi della scienza stanno mettendo a paragone le nuove problematiche con quelle antiche del pensiero greco e medioevale (analogia) che sembrano come riaffiorare in modo nuovo, interessante e ineludibile.

 

IV. Questioni scientifico-filosofiche

La teoria della relatività ha sollevato, già dal suo apparire, una serie di problemi concettuali che non potevano non avere delle ripercussioni filosofiche.

1. Spazio e tempo. La relatività ristretta aveva sconvolto, anzitutto, i concetti di spazio e di tempo assoluti di Newton. In un primo momento questa “relativizzazione” delle misure di lunghezza (contrazione di Lorentz delle lunghezze) e di tempo (dilatazione del tempo) e del concetto di “simultanietà” (relatività della simultaneità) sembrarono far pensare ad un soggettivismo filosofico che vedeva i concetti di spazio e di tempo trasferiti dall’oggettività della realtà esterna (realismo) al soggetto che le osservava (idealismo). Ma poco dopo, soprattutto con la relatività generale, ci si accorse che la “relatività”, al contrario, aveva trasferito lo spazio e il tempo dal ruolo di contenitori vuoti esterni al soggetto come voleva Newton, o interni al soggetto come voleva Kant, a quello di relazioni di ordinamento determinate dai corpi stessi (distribuzione di massa-energia, o materia-campo) e dai loro moti: nella relatività generale, infatti le proprietà metriche, di connessione e di curvatura dello spazio e del tempo sono determinate dai corpi e dalle loro interazioni e non viceversa, e questo comportava un realismo addirittura maggiore di quello della fisica newtoniana. Si era adesso molto più vicini alla concezione dello spazio e del tempo di Aristotele che ha quella di Cartesio o Kant (Materia, IV).

2. Relatività e oggettività. La “relatività”, dunque, nonostante il nome che può trarre in inganno, non aveva nulla a che vedere con il relativismo filosofico: al contrario essa era la teoria degli “invarianti” (Idealismo, IV.1), delle leggi che si presentano nella “stessa forma” per tutti gli osservatori (covarianza): la formulazione nello spazio di Minkowski aveva consentito di evidenziare bene questo risultato già in relatività ristretta per gli osservatori inerziali, ma Einstein non accontentandosi di questo, volle estendere l’indipendenza delle leggi fisiche a “tutti” gli osservatori, mediante la relatività generale. Come egli esplicitamente sosteneva: «La fisica è un tentativo di afferrare concettualmente la realtà, quale la si concepisce indipendentemente dal fatto di essere osservata. In questo senso si parla di “realtà fisica”» (Note autobiografiche, p. 43).

3. Materia e energia. L’altra rivoluzione concettuale era legata all’equivalenza massa-energia che sembrava dissolvere la consistenza corporea tradizionale della materia, la quale poteva essere addirittura annichilata, in certe condizioni fisiche, scomparendo nella fluidità impalpabile dell’energia. E qui l’equivoco sorgeva dal confondere la “materialità”, con la “impenetrabilità”, attribuendo quindi all’energia della radiazione, che è penetrabile, una sorta di immaterialità. In realtà la “materialità” poteva essere considerata comune sia ai corpi che ai campi, entrambi dotati di massa-energia e quindi in grado di determinare la metrica dello spazio-tempo; la “impenetrabilità” invece era legata, quantisticamente, al principio dei Pauli e quindi era proprietà dei campi fermionici e delle loro particelle, mentre la “compenetrabilità” era caratteristica propria dei campi bosonici come quello elettromagnetico e alle loro particelle (Materia, III.4).

La trasformazione in oggetto non doveva neanche far pensare ad una sorta di “superamento” del concetto di materia o della sua consistenza ontologica, che qualche visione filosofica un po’ semplicistica vedeva, senza l’intrusione di un inconsueto mutamento in energia, più facilmente collegabile con l’idea di dipendenza della materialità delle cose da un Essere necessario o da qualche atto creativo. In realtà l’equazione einsteiniana non toglie consistenza ontologica alla materia, né rimuove le conclusioni filosofiche, generalmente di ordine metafisico, circa la sua dipendenza nell’essere, o i suoi rapporti con ciò che la filosofia chiama “spirito”. Si stabilisce soltanto che il substrato materiale, cioè sensibile, oggetto delle scienze, non è più solo la materia o l’energia come realtà indipendenti, ma la loro presenza comune, quasi di virtuale reciprocità, l’una nell’altra.

4. Causalità. Un’altra importante conseguenza relativistica, dal punto di vista filosofico, è legata alla concezione della causalità: il valore finito e non superabile della velocità della luce e di ogni informazione o trasporto di energia, imposto dalla teoria della relatività già nella sua forma ristretta, comporta l’incompatibilità di questa teoria con l’istantaneità dell’effetto su un “bersaglio”, prodotto da una causa quando la “sorgente” sia collocata ad una distanza spaziale non nulla, in quanto il segnale che trasporta l’informazione causale può viaggiare al massimo alla velocità della luce. Ciò comporta l’eliminazione dalla fisica dell’azione istantanea a distanza. (Meccanica, V.1). Nell’ambito dei sistemi non separabili della meccanica quantistica, questo modo di intendere la causalità ha portato a paradossi (il paradosso Einstein-Podolsky-Rosen ad esempio) e problemi per i quali sono state proposte varie soluzioni (Meccanica quantistica, V), che ripropongono, in vari modi il problema della non-località e del rapporto tra il “tutto” e le “parti”, quest’ultimo presentatosi più tardi anche nella fisica dei sistemi complessi (Complessità, V).

5. Fisica “geometrica” e fisica “dinamica”. Alla luce delle nuove problematiche, sorte a partire dalla non linearità, dalla complessità e dal confronto tra lo statuto epistemologico della fisica in senso tradizionale e della biologia, come oggi sta sviluppandosi, l’attenzione sembra però spostarsi più sulla metodologia che si trova alla base stessa della scienza e sulle modalità della sua matematizzazione. esistono oggi due tendenze: l’una che tende a “ridurre la fisica a geometria”, la geometria di uno spazio-tempo oltremodo arricchito nel numero delle sue dimensioni, suscettibili di diverse interpretazioni e significati fisici; l’altra che tende a diversificare i ruoli dello spazio e del tempo in una prospettiva “dinamica” nella quale entrano in gioco gli effetti della forte sensibilità alle condizioni iniziali, l’instabilità, la caoticità e comunque l’asimmetria (freccia) del tempo e l’irreversibilità termodinamica dei sistemi in non equilibrio, tipica della complessità e del mondo biologico (Chimica, V). Certamente la teoria della relatività, e le teorie di campo che si basano su di essa, rispecchiano la prima tendenza, anche a causa del loro carattere di completa reversibilità spazio-temporale, e non è semplice prevedere come una futura possibile teoria di campo unificato, non lineare, possa tenere conto anche dei nuovi aspetti della complessità. Rimane, comunque il fatto che, anche in una visione spazio-temporale geometrizzata, esiste un invariante che ha carattere temporale assoluto, quale è il “tempo proprio”: sia esso quello cosmologico dovuto all’espansione dell’universo nel suo insieme, o sia quello legato al moto di ciascun corpo nell’universo. Ed è rispetto a questo tempo proprio che l’irreversibilità termodinamica e il caos possono essere introdotti ristabilendo il carattere dinamico della teoria. Se Einstein aveva ammirato quella geometrizzazione statica e rigidamente determinstica che lo avvicinava alla visione di Cartesio e di Spinoza (Einstein, iii), tuttavia sarà proprio la cosmologia costruita a partire dalla relatività generale da Lemaître e Friedmann a convincerlo della presenza di una dinamicità dell’universo stesso, che si manifesta almeno attraverso la sua espansione (Cosmologia, IV).

6. Fisica locale e fisica globale. Quello che ancora si può forse aggiungere, a conclusione di queste osservazioni, è il fatto che la scienza odierna sta cercando di superare il classico metodo del riduzionismo, che appare ormai insufficiente a far progredire la conoscenza scientifica della natura. Per la fisica, in prima istanza almeno, ciò sembra significare la necessità di non limitarsi a teorie rette da equazioni lineari, per le quali la somma di due soluzioni è ancora una soluzione e, quindi, il “tutto” viene ottenuto come somma delle “parti”. E la relatività generale è stata la prima teoria a esigere che la legge invariante più semplice non sia lineare né omogenea nelle variabili di campo e nelle loro derivate. Tuttavia essa è ancora, in qualche modo una teoria locale, nel senso che facendo uso della geometria differenziale, la struttura di spazio vettoriale che utilizza è necessariamente locale, basata, cioè sul fatto che, nell’intorno di un punto, ogni spazio viene approssimato da uno spazio lineare, così come una curva viene approssimata dalla sua tangente, o una superficie dal piano tangente in quel punto. E questa limitazione consente alla relatività generale di stabilire il principio di equivalenza solamente in una piccola estensione spaziale e non su grande scala, come avrebbe voluto Mach. Ma questo non è tanto un limite proprio della relatività einsteiniana, quanto una caratteristica di tutta la matematica che si basa sul calcolo differenziale e integrale che è per sua natura riduzionistico. Ma, per ora, non possediamo ancora una matematica diversa e non sappiamo ancora neppure se in futuro potremo disporne. 

  

Bibliografia: 

Esposizioni e commenti di Albert Einstein: A. Einsten, Il significato della relatività, Einaudi, Torino 1950 (e Newton-Compton, Roma 1997); A. Einstein, Note autobiografiche (1949), in P.A. Schilpp (a cura di), Albert Einstein scienziato e filosofo, Boringhieri, Torino 1958, pp. 3-49; A. Einsten, L. Infeld, L’evoluzione della fisica, Boringhieri, Torino 1965 (rist. 1999); A. Einsten, Relatività: esposizione divulgativa, Boringhieri, Torino 19672; A. Einsten, Teoria dei quanti di luce, Newton Compton, Roma 1972; A. Einsten, Autobiografia scientifica, Boringhieri, Torino 1979; A. Einsten, Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati-Boringhieri, Torino 1988; A. Einsten, Come io vedo il mondo - La teoria della relatività, Newton-Compton, Roma 1993.

Altre opere: W. Pauli, Teoria della relatività, Boringhieri, Torino 1958; P.A. Schilpp (a cura di), Albert Einstein scienziato e filosofo, Boringhieri, Torino 1958; P.W. Bridgman, La logica della fisica moderna, Boringhieri, Torino 1965; D.W. Sciama, L’ unità dell’ universo, Einaudi, Torino 1965; M. Jammer, Storia del concetto di spazio, Feltrinelli, Milano 1966; M. Born, La sintesi einsteiniana, Boringhieri, Torino 1969; D.W. Sciama, La Relatività Generale. Fondamenti Fisici della teoria, Zanichelli, Bologna 1972; E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883), Boringhieri, Torino 1977; H. Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo, Feltrinelli, Milano 1977; M. Jammer, Storia del concetto di massa, Feltrinelli, Milano 19802; H. Bondi, Relatività e senso comune, Zanichelli, Bologna 1980; E. Cassirer, La teoria della relatività di Einstein. Considerazioni gnoseologiche, Newton-Compton, Roma 1981; G. Cortini, La Relatività Ristretta (con nota storica di S. Bergia), Loescher, Torino 1981; V. Tonini, Einstein e la relatività, La Scuola, Brescia 1981; A. Pais, «Sottile è il Signore...». La scienza e la vita di Albert Einstein, Bollati-Boringhieri, Torino 1986; C. Bernardini, La relatività speciale, Nuova Italia Scientifica, Firenze 1991; A. Brissoni, L’epistemologia di Albert Einstein, Gangemi Editore, Roma 1991; A. Tiapkin Aleksey, Relatività speciale, Jaca Book, Milano 1993; P. Greco, Il sogno di Einstein, Cuen, Napoli, 2000.