26 febbraio 2025

Cari Accademici,

è per me sempre un piacere rivolgermi alle donne e agli uomini di scienza, come pure alle persone che nella Chiesa coltivano il dialogo con il mondo scientifico. Insieme potete servire la causa della vita e il bene comune. E ringrazio di cuore Mons. Paglia e i collaboratori per il loro servizio alla Pontificia Accademia per la Vita.

Nell’Assemblea generale di quest’anno vi siete proposti di affrontare la questione che oggi viene definita “policrisi”. Essa riguarda alcuni aspetti fondamentali della vostra attività di ricerca nel campo della vita, della salute e della cura. Il termine “policrisi” evoca la drammaticità della congiuntura storica che stiamo vivendo, in cui convergono guerre, cambiamenti climatici, problemi energetici, epidemie, fenomeno migratorio, innovazione tecnologica. L’intreccio di queste criticità, che toccano contemporaneamente diverse dimensioni della vita, ci induce a interrogarci sul destino del mondo e sulla nostra comprensione di esso.

Un primo passo da compiere è quello di esaminare con maggiore attenzione quale sia la nostra rappresentazione del mondo e del cosmo. Se non facciamo questo e se non analizziamo seriamente le nostre resistenze profonde al cambiamento, sia come persone sia come società, continueremo a fare ciò che abbiamo fatto con altre crisi, anche recentissime. Pensiamo alla pandemia da covid: l’abbiamo, per così dire, “sprecata”; avremmo potuto lavorare più a fondo nella trasformazione delle coscienze e delle pratiche sociali (cfr Esort. ap. Laudate Deum, 36).

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Francesco

E un altro passo importante per evitare di rimanere immobili, ancorati alle nostre certezze, alle nostre abitudini e alle nostre paure, è ascoltare attentamente il contributo dai saperi scientifici. Il tema dell’ascolto è decisivo. È una delle parole-chiave di tutto il processo sinodale che abbiamo avviato e che ora si trova nella sua fase di attuazione. Apprezzo quindi che il vostro modo di procedere ne riprenda lo stile. Vedo in esso il tentativo di praticare nel vostro ambito specifico quella “profezia sociale” a cui anche il Sinodo si è dedicato (Doc. finale, 47). Nell’incontro con le persone e con le loro storie e nell’ascolto delle conoscenze scientifiche, ci rendiamo conto di quanto i nostri parametri riguardo all’antropologia e alle culture esigano una profonda revisione. Da qui è nata anche l’intuizione dei gruppi di studio su alcuni temi emersi durante il percorso sinodale. So che alcuni di voi ne fanno parte, valorizzando pure il lavoro svolto dall’Accademia per la Vita negli anni scorsi, lavoro di cui vi sono molto riconoscente.

L’ascolto delle scienze ci propone continuamente nuove conoscenze. Consideriamo quanto ci dicono sulla struttura della materia e sull’evoluzione degli esseri viventi: ne emerge una visione molto più dinamica della natura rispetto a quanto si pensava ai tempi di Newton. Il nostro modo di intendere la “creazione continua” va rielaborato, sapendo che non sarà la tecnocrazia a salvarci (cfr Lett. enc. Laudato si’, 101): assecondare una deregulation utilitarista e neoliberista planetaria significa imporre come unica regola la legge del più forte; ed è una legge che disumanizza.

Possiamo citare come esempio di questo tipo di ricerca p. Teilhard de Chardin e il suo tentativo – certamente parziale e incompiuto, ma audace e ispirante – di entrare seriamente in dialogo con le scienze, praticando un esercizio di trans-disciplinarità. Un percorso rischioso, che lo conduceva a domandarsi: «Mi chiedo se non sia necessario che qualcuno lanci il sasso nello stagno – finisca anzi per farsi “ammazzare” per aprire il cammino» [1]. Così egli ha lanciato le sue intuizioni che hanno messo al centro la categoria di relazione e l’interdipendenza tra tutte le cose, ponendo homo sapiens in stretta connessione con l’intero sistema dei viventi.

Questi modi di interpretare il mondo e il suo evolversi, con le inedite modalità di relazione che vi corrispondono, possono fornirci dei segni di speranza, dei quali andiamo in cerca come pellegrini durante questo anno giubilare (cfr Bolla Spes non confundit, 7). La speranza è l’atteggiamento fondamentale che ci sostiene nel cammino. Essa non consiste nell’attendere con rassegnazione, ma nel protendersi con slancio verso la vita vera, che porta ben oltre lo stretto perimetro individuale. Come ci ha ricordato Papa Benedetto XVI, la speranza «è legata all’essere nell’unione esistenziale con un “popolo” e può realizzarsi per ogni singolo solo all’interno di questo “noi”» (Lett. enc. Spe salvi, 14).

Anche per questa dimensione comunitaria della speranza, davanti a una crisi complessa e planetaria, siamo sollecitati a valorizzare gli strumenti che abbiano una portata globale. Dobbiamo purtroppo constatare una progressiva irrilevanza degli organismi internazionali, che vengono minati anche da atteggiamenti miopi, preoccupati di tutelare interessi particolari e nazionali. Eppure dobbiamo continuare a impegnarci con determinazione per «organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali» (Lett. enc. Fratelli tutti, 172). In tal modo si promuove un multilateralismo che non dipenda dalle mutevoli circostanze politiche o dagli interessi di pochi e che abbia un’efficacia stabile (cfr Esort. ap. Laudate Deum, 35). Si tratta di un compito urgente che riguarda l’umanità intera.

Questo vasto scenario di motivazioni e di obiettivi è anche l’orizzonte della vostra Assemblea e del vostro lavoro, cari membri dell’Accademia per la Vita. Vi affido all’intercessione di Maria, Sede della Sapienza e Madre della Speranza, «mentre, come popolo pellegrinante, popolo della vita e per la vita, camminiamo fiduciosi verso “un nuovo cielo e una nuova terra” (Ap 21,1)» (S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 105).

Per tutti voi e per il vostro lavoro imparto di cuore la mia benedizione.

Roma, dal Policlinico “Gemelli”, 26 febbraio 2025

FRANCESCO

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[1] Cit. da B. DE SOLANGES, Teilhard de Chardin. Témoignage et étude sur le développement de sa pensée, Toulouse 1967, 54.

1935

La Specola Vaticana. Nove papi, una missione

Dopo la morte di Angelo Secchi (1878) l’Osservatorio astronomico del Collegio Romano non poté operare a lungo nella sede ormai confiscata dal Regno d’Italia e dovette lentamente riorganizzarsi nel territorio della Città del Vaticano. Leone XIII aveva affidato la direzione delle attività di osservazione e di ricerca a Francesco Denza (1834-1894) che alloggiò gli strumenti presso la Torre dei Venti e, successivamente, anche presso la Torre Leonina. Il programma di dedicare una postazione più confacente alla Specola Vaticana, che le assicurasse un futuro e un luogo adeguato per le osservazioni, poté realizzarsi soltanto nel 1935, quando furono inaugurati gli edifici di Castelgandolfo. Al quarto e quinto piano della Villa Pontificia si ricavarono studi, laboratori e biblioteca e sulla terrazza furono costruite due cupole, la più grande delle quali aveva un diametro di 8,5 metri. Pio XI inaugura la nuova Specola Vaticana e pronuncia il 29 settembre 1935 il discorso che qui presentiamo. Sul muro che sorregge la cupola principale, il pontefice volle fosse applicata la targa “Deum Creatorem Venite Adoremus”. Il discorso inaugurale riprende più volte questa frase commentando l’episodio dei Magi riportato dal vangelo di san Matteo. L’allocuzione, inoltre, cita suggestivi passaggi della sacra Scrittura con riferimenti ai corpi celesti, nel contesto dello storico legame fra astronomia e Chiesa cattolica.

Siamo particolarmente lieti e particolarmente grati a Dio di poter presenziare e godere con voi, dilettissimi figli, questa inaugurazione delle nuova, o, forse, diciamo meglio, rinnovata «Specola Vaticana» in questa nostra residenza di Castelgandolfo, essa pure rinnovata.
Non è per semplice e solito modo di dire, ma è con riflessione e deliberazione che Ci diciamo «particolarmente lieti e grati a Dio».
Se la Specola Astronomica e l'Istituto Astrofisico, che oggi ufficialmente inauguriamo, come fiduciosamente Ci fanno pensare e la procurata perfezione della suppellettile scientifica e il provato valore scientifico degli uomini ai quali essa è affidata, renderanno (anzi già han cominciato a rendere) qualche non insignificante contributo allo studio ed al progresso di una scienza, che, tra le scienze, può ben dirsi sovrana - la scienza dei cieli -; non è però questo il solo riflesso che oggi particolarmente Ci allieta.
Quello che qui oggi facciamo e che la vostra presenza, dilettissimi figli, rende più bello e più solenne, aggiunge qualche linea ad una pagina veramente aurea ed altamente gloriosa della storia del Romano Pontificato, e Ci trasporta, Pegaso alato, attraverso i secoli in un immenso e magnifico mondo di cose, di idee di fatti.
Ce ne dava un qualche sobrio, ma sapiente e gustosissimo saggio il nostro caro e valoroso P. Stein. Al cenno suo abbiamo veduto aprirsi ed illuminarsi per un momento le profondità abissali del cielo, ed abbiamo potuto afferrare e gustare almeno qualche nota di quell'immenso, altissimo inno, onde i cieli e gli astri cantano la gloria e rivelano la potenza, la sapienza, la bellezza infinita del Creatore.
E si direbbe che il Creatore stesso - Egli, che compiuta l'opera creativa se ne compiaceva e la proclamava tutta quanta buona - della magnificenza dei cieli e delle stelle si compiace in modo tutto particolare.

 

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Deum creatorem venite adoremus
Deum creatorem venite adoremus

È infatti il Testo divinamente ispirato che con tanta enfasi e così ripetutamente chiama i cieli e le stelle a lodare e benedire il Signore (Ps., 148, 3; Dan., 3, 63 et passim), e che il Creatore stesso fa nomarsi «Stella splendida» (Apoc., 22, 16); è l'istesso sacro Testo che trova una delle più felici espressioni della scienza divina, quando, in presenza di quelle infinite moltitudini astrali che i nuovi e più perfetti istrumenti non fanno che ingrandire e moltiplicare, quando vede Dio enumerare la moltitudine delle stelle e Lo ode chiamarle ciascuna per nome, prerogativa che Dio stesso a Sé solo riserva (Gen., 15, 5; Ps., 146, 4). E ancora il Testo divinamente ispirato che nella disposizione delle stelle vede splendere sovrana la Sapienza increata (Sap., 7, 29): anzi nella bellezza del Cielo e nella gloria delle stelle vede Dio stesso che dall'alto illumina il mondo (Eccl., 43, 4).

E sempre la divina parola che mette in bocca all'alunno della Sapienza un ringraziamento speciale per la ottenuta scienza delle stelle (Sap., 7, 19).
Nessuna meraviglia se le magnifiche cose che l'astronomia studia e ci fa meglio conoscere, se le idee che anche la sola comune e solida visione di quelle cose suscita, si traducono in un fatto di alta spiritualità, che domina i secoli e si perpetua dalla più remota antichità fino ai giorni nostri, vogliamo dire il rapporto tra Religione e Scienza degli astri. Anche il recentissimo imponente Congresso degli Orientalisti in Roma richiamava ed illustrava questo rapporto in alcuno dei suoi temi, e appartiene ormai anche alle culture mediocri la notizia di quello che antichissimi testi cuneiformi e geroglifici hanno rivelato intorno alle osservazioni astrali in ordine ai sacrifici ed istituti cultuali. E da ieri (in confronto di queste antichità) la riforma del Calendario, che porta il nome di un Nostro grande antecessore - Gregorio XIII - ed è nota la parte che vi ebbe l'astronomia del suo tempo, parte anche a' di nostri altamente apprezzata da giudici della competenza di uno Schiaparelli e di un P. Hagen, per non dire dei giudici da Noi personalmente conosciuti ed ammirati. Ed è pure abbastanza noto che i Sommi Pontefici Romani già dai secoli remoti, ebbero bisogno della astronomia e la chiamarono in aiuto per l'ordinamento dei sacri tempi e sopratutto per i computi
pasquali.
 

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PIOXI

Come vedete, quello che Noi qui facciamo non è soltanto un imitare e continuare, secondo la misura Nostra, il mecenatismo non mai abbastanza lodato di tanti Nostri illustri antecessori; non è soltanto assicurare e nel presente e nell'avvenire, come essi hanno fatto per il passato colla tacita eloquenza dei fatti, assicurare, dicevamo, alla Fede e alla Religione quella implicita, anzi esplicita, apologia che rifulge ed è più che mai persuasiva ogni volta che l'ossequio alla fede si mostra unito in fraterno amplesso al culto della Scienza.
Ciò che qui facciamo non è soltanto tutto questo, ma anche, e più propriamente, riprendere uno dei fili più belli e più preziosi della Storia del Pontificato Romano; il filo dei suoi rapporti multisecolari con la scienza degli astri, questa scienza che Ci sembra potersi dire con verità di natura sua religiosa, come l'anima umana è naturalmente cristiana, secondo la geniale parola di Tertulliano.
Da nessuna parte del Creato viene infatti più eloquente e più forte l'invito alla preghiera ed alla adorazione. «Vidimus stellam eius et venimus adorare eum», dicono gli antichi savi ai quali gli astri si eran fatti nunci della venuta di un Dio sulla terra. Ed ancora oggi il beduino dalla immensità del deserto vede la maestà di Dio splendere e passeggiare nell'immensità del Cielo. Persino il poeta miscredente [Carducci] nei silenzi stellati de' cieli udiva trasvolare soave la dolce preghiera dell'Ave Maria. A noi stessi, dilettissimi figli, in questa inaugurazione, diciam così, astronomica, sembra di compiere, a nome di tutta la Chiesa, un atto del Nostro ministero sacerdotale.
Con felicissimo pensiero il titolare della nuova Specola, il P. Stein, ricordava la breve ed imponente iscrizione destinata da Pio IX all'Osservatorio Pontificio della Romana Università al Campidoglio da lui fatto costruire: Deo Creatori.
Non facciamo se non entrare nel solco luminoso aperto dal Nostro glorioso antecessore, non facciamo che esprimere intero il suo pensiero, dicendo a Nostra volta e scrivendo sulla nuova Specola Vaticana: Deum Creatorem venite adoremus.
Ed è con questo che vogliamo benedire tutte le cose e tutti i cuori che qui aspettano e desiderano la Nostra Benedizione.


S. Maffeo, La Specola Vaticana. Nove papi, una missione, Pubblicazioni della Specola Vaticana, Città del Vaticano 2001, pp. 313-315

 

(The Mission, Gb 1986, col, 125'), di Roland Joffé, con R. De Niro, J. Irons, R. McAnally, A. Quinn, C. Lunghi.

1767, America del Sud: dopo aver ucciso il fratello per gelosia, un mercenario (De Niro) decide di seguire un prete gesuita (Irons) nella missione da lui fondata nella giungla, che spagnoli e portoghesi intendono distruggere per sfruttare la zona e gli indiani. Quando il cardinale Altamirano deciderà di sopprimere la missione, i gesuiti si opporranno: il prete con messaggi di pace, l'ex mercenario combattendo al fianco degli indigeni.